L’architetta del bambù che insegna l’architettura agli scalzi

Abbiamo incontrato Yasmeen Lari, la prima donna architetto del Pakistan, in una pausa del suo tour de force milanese. Tre giorni intensi di appuntamenti iniziati con la Cerimonia di consegna della Laurea Magistrale ad Honorem in Architettura e seguiti dalla presentazione di una monografia a lei dedicata e a fitti e proficui incontri con gli studenti che hanno seguito un workshop sulle architetture umanitarie.
E’ una donna energica ed entusiasta, quasi 80enne, dalla parlata veloce e sicura, e che oggi ha come unico obiettivo di lasciare in eredità i suoi insegnamenti in modo da rendere autonome e indipendenti le donne povere pakistane.

IL PROFILO

Yasmeen Lari


Nata e cresciuta in Pakistan, dopo una laurea in architettura a Oxford, nel 1965 torna in patria e diventa la prima donna architetto del Pakistan, sfidando pregiudizi patriarcali e superando molte difficoltà. Fonda il suo studio professionale, Lari Associates, Architects and Urban Designers, con cui costruisce numerosi edifici a carattere pubblico e complessi di social housing. Chiusa nel 2000 l’attività dello studio, si dedica alle aree più disagiate del suo Paese, realizzando abitazioni e centri di aggregazione nelle zone colpite da disastri naturali. Impegnando maestranze del posto e rinnovando i sistemi costruttivi locali, Lari coordina progetti di insediamenti informali, a emissioni zero di carbonio e resistenti ai terremoti.
È stata designata fra le sessanta donne di tutto il mondo che hanno contribuito maggiormente agli obiettivi dell’UNESCO. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, si è battuta per la conservazione del patrimonio nazionale e per creare leggi per il riconoscimento del ruolo degli architetti e pianificatori nel suo Paese. Svolge tuttora un intenso lavoro di attivista con diverse campagne sociali per restituire gli spazi pubblici alle comunità locali.

L’INCONTRO

E’ la sua prima volta a Milano?

“No, sono già venuta circa 50 anni fa, non ricordo molto, ma anche allora era una bella città e sapevo che era la capitale del design nel mondo. In questi giorni ho notato che la città è molto ben organizzata, gli edifici vecchi e nuovi convivono ben integrati nell’ambiente circostante. E’ una città discreta e c’è una consapevolezza architettonica che è visibile ovunque.
Anche il campus del Politecnico mi ha molto impressionato, è notevole il modo in cui gli studenti, gli insegnanti e gli esperti di laboratorio lavorino insieme. È stata un’esperienza davvero molto gratificante”.

9 donne in una Commissione di Laurea penso che sia la prima volta che succede al Politecnico, doveva arrivare proprio lei per avere questo parterre di architette!

[Sorride] “Ma io ringrazio voi dell’invito è stato incredibile, e di avermi fatto arrivare qui dall’altra parte del mondo fra mille complicazioni burocratiche. Io non sto facendo nulla di particolare [si schernisce] sto solo facendo il mio lavoro, è solo la mia routine”.

Milano, 20 ottobre 2021, aula Rogers Laurea Magistrale ah honorem a Yasmeen Lari

La sua lecture al Politecnico era incentrata su BASA Barefoot Social Architecture, l’architettura sociale scalza, di cosa si tratta?

“È un vero e proprio ecosistema, che parte dall’architettura, ma abbraccia molti altri settori. Il tutto parte dalla constatazione che la ricchezza è nelle mani dell’1% della popolazione. Sono stata molto influenzata dall’economista francese Thomas Piketty e ho capito che gli architetti non capiscono il danno che stanno facendo, perché lavoriamo solo per quell’1%? Noi abbiamo la responsabilità per tutta la società. Perché non ci occupiamo di costruire per il restante 99%, solo perché pensiamo che non ci paghino?
Ma invece loro possono pagare. Il 50 % della popolazione è al di sotto della soglia di povertà, ma il 30/40% è nella fascia di mezzo e BASA è a loro che si rivolge. C’è spazio per un mercato a piedi scalzi, un’economia dei poveri, dei piccoli produttori, piccoli imprenditori che creano prodotti rivolti a loro, non alle grandi multinazionali, ma per un’economia locale che è diffusa nella maggior parte del paese”.

Che oggetti producono?

“Piccoli oggetti di terracotta, il sapone che nel lockdown li ha salvati, il lavabo dove fanno la terracotta, l’orto… Bisogna sviluppare questo mercato degli imprenditori scalzi, che producono per un mercato dei poveri. Anche loro possono effettivamente avere un grande potere d’acquisto, sufficiente per ottenere un miglior stile di vita.
E’ tipo il microcredito, ma è diverso perché loro non producono per la città devono vendere da produttore locale ad acquirente locale, senza intermediari per evitare che nel passaggio i costi lievitino.
Le mendicanti di Makli, una grande necropoli che si trova a circa 90 km da Karachi, vendendo i loro piccoli oggetti di artigianato mantengono intere famiglie, quindi anche se poverissimi possono provare a salire nella scala sociale. La chiave è renderli autonomi. Gli aiuti umanitari invece si disperdono, la carità non porta sviluppo.
Nel mio lavoro degli ultimi 16 anni ho potuto constatare che in occasione di tutti i grandi disastri che ha subito il Pakistan, arrivano fondi da ogni parte del mondo. Europa, Stati Uniti, Regno Unito, Fondo Monetario Internazionale, ONG, Nazioni Unite… aiutano con le migliori intenzioni, ma non si accorgono che rischiano di urtare la sensibilità della popolazione non conoscono la cultura del posto”.

I soldi non sono tutto

“Esatto, perché questo modello di beneficenza, che ho chiamato modello di beneficenza coloniale occidentale, non è adatto a uno sviluppo sostenibile. Nel mio paese ho visto le persone diventare dei mendicanti perché iniziano ad aspettarsi che qualcuno dia loro qualcosa invece di essere consapevoli e mettere a frutto le proprie capacità e potenzialità.

Yasmeen Lari con le donne in un momento di formazione
Cosa bisogna fare invece?

“Si deve investire nella formazione, anche con dei crediti che i poveri devono restituire, ma solo così si cambia la mentalità, anche dei finanziatori, e gli si dà dignità.
È un processo molto più faticoso e lento, ma è quello che la gente vuole, la gente si impegna, vuole imparare, non vogliono vivere di aiuti e noi dobbiamo cambiare il modo di relazionarci con loro”.

Lei ha scelto quindi di lavorare per questi clienti scalzi

“Sì, e li tratto meglio dei clienti che avevo prima, lo faccio pro bono, ma attraverso la mia Onlus ho preso fondi per fare formazione e chiunque lavora per me è pagato ed è pagato bene, gli architetti devono farsi pagare.
Ho pensato che dovevo trovare un modello sostenibile, ho sempre creduto nell’approccio partecipativo, nella co-progettazione“.

Ma non è sempre stato così, lei ha iniziato la sua carriera aprendo un suo studio professionale nel 1965 che ha costruito numerosi grattacieli ed edifici a carattere pubblico, poi nel 2000 lo ha chiuso e nel 2005 a 65 anni quando poteva godersi la pensione la sua vita ha subito una svolta…

“Sì è successo dopo il terremoto dell’8 ottobre 2005 nella regione del Kashmir, al confine tra Pakistan e India, in una zona montuosa e difficilmente raggiungibile dove non ero mai stata. Io che non scalavo le montagne capivo che dovevo andare, che dovevo dare il mio supporto a quella gente a cui non era rimasto nulla, non avevo soldi ed è stato mio marito a darmi 500.000 rupie per partire. Ma quello che è straordinario è che poi sono arrivati gli amici, gli architetti volontari da tutto il mondo, gli aiuti, non ero più sola.
Ho insegnato a ricostruire bene perché non ricapitasse più, ho costituito un team di consulenti ingegneri e architetti per imparare come ricostruire meglio riutilizzando gli unici materiali a disposizione sul posto, le macerie, le pietre, la calce da fare in loco, il legno che rende elastica la costruzione. Non volevo usare il cemento perché è inquinante, non traspirante e si consuma molta energia per produrlo, dal 2002 non lo uso più. Per i tetti ho invece utilizzato ferro galvanizzato (per resistere alla corrosione). Erano tutti materiali disponibili sul posto e con cui era possibile ricostruire molto velocemente. Gli abitanti sono stati coinvolti nel processo di ricostruzione con gli studenti volontari e sono stati ricostruiti così 80/90 villaggi.
Non avevo mai lavorato in quelle aree, era una grande sfida e ho imparato molto sul posto. Questo progetto mi ha fatto capire come costruire con le comunità non per le comunità.
Come donna potevo entrare nelle case delle donne, loro non potevano partecipare, ma preparavano oggetti di artigianato, piccole perline di ceramica, ci tenevo a capire cosa facessero per esprimere il dolore che avevano sofferto.
Loro avevano bisogno, ma anche io avevo bisogno di loro. Potevo in effetti stare tranquilla in pensione, scrivere i miei libri, ma avevo toccato con mano la condizione delle donne e ora era mio dovere aiutarle, mettermi al loro servizio, non avevano servizi igienici e io fino ad allora non me n’ero resa conto.
E proprio lì, lavorando con gli sfollati alla ricostruzione delle loro abitazioni distrutte, ho deciso che quella sarebbe stata la mia filosofia di vita, che sto portando avanti ancora oggi. E’ lì che ho deciso che avevo bisogno di avere alcuni principi per impostare un modello sostenibile basato sui 3 Zero”.

Ecco cosa sono questi 3 zero con cui ha concluso la sua lecture: “Using the 3 zeros for saving the planet and the destitute of the world”?

Zero costi per il donatore, Zero emissioni di carbonio e Zero rifiuti.
Zero costi per il donatore, significa che tutto ciò che viene fatto deve essere accessibile ai poveri, quindi non c’è carità, niente beneficenza. Oppure si deve trovare il modo per restituire il denaro prestato, questo è molto più sfidante.
Poi Zero Carbon che vuol dire zero emissioni, utilizzando materiale che non emetta carbonio per contribuire a salvare il pianeta, e zero rifiuti, non c’è bisogno di avere questo modo dispendioso di fare le cose, perché sappiamo che stiamo danneggiando il pianeta. Dobbiamo concentrarci su un’economia circolare“.

C’è posto per la tecnologia nel suo lavoro?

“Sì per il low tech non per l’high tech, per le tecnologie appropriate, perché non si deve ignorare l’eredità della tradizione, i giovani architetti invece spesso non si preoccupano della tradizione e dell’utilizzo corretto dei materiali locali. L’esperienza di quel terremoto mi ha insegnato molto soprattutto sulle esigenze reali della popolazione, a volte imponiamo le nostre idee pensando che siano il meglio per loro, ma non è il modo giusto di intervenire. Bisogna essere umili e rii – imparare, rimettersi in discussione. Un altro punto che mi sta a cuore è progettare strutture non ingegnerizzate. I materiali che uso spesso non sono accettati da ingegneri professionisti, ma ho fatto fare alcuni test anti terremoto su uno dei nostri modelli e ho dimostrato che è possibile utilizzare materiali molto economici, che si trovano intorno a noi. Il trucco è usare materiali di provenienza locale, è un modo di costruire molto sostenibile. Per me la terra, il bambù e la calce sono i più importanti perché sono disponibili in Pakistan molto facilmente”.

Quando ha scoperto per la prima volta il bambù?

Era il 2009 ero nel distretto di Swat, dove stava Malala per capirci, per un progetto Unesco per migliorare l’artigianato locale e una grande inondazione ci ha costretto a spostarci in un campo profughi. Lì ho visto che il bambù era molto usato dai poveri, ma non era usato nel modo corretto e sicuro.
Se si taglia il legno si rischia il disboscamento con conseguenti frane, il bambù invece è più sostenibile perché cresce molto velocemente, in 2 anni e mezzo, assorbe emissioni e depura l’aria. Per renderlo sicuro il progetto sta nel come assemblare le varie parti e per questo c’è bisogno di architetti specializzati.
In ogni paese bisogna cercare i materiali ecologici sia che si costruisca per i ricchi che per i poveri.

Yasmeen Lari davanti al Women’s Centre di Sindh costruito in bambù
Lei lavora molto con e per le donne. Con il suo progetto delle chulah ha rivoluzionato il modo di cucinare delle donne, migliorando la qualità della loro vita. Ce ne parla?

“Sì lavoro molto attraverso le donne perché si impegnano moltissimo, imparano velocemente, sono motivate dalla famiglia dai figli, e poi guidano il cambiamento. Preferisco formare le donne prima perché hanno iniziativa, e se viene data loro una possibilità vogliono dimostrare che valgono.
Tutto quello che ho fatto con le donne ha sempre avuto successo. Per quanto riguarda le chulah il progetto è nato dall’osservazione del loro modo di cucinare.
Generalmente succede che la donna per cucinare mette due mattoni e accende il fuoco stando seduta per terra, ma questo è mortale perché la donna che cucina respira tutti i fumi e si ammala, i bambini rischiano di bruciarsi e intorno è tutto sporco. Quindi ho disegnato una piattaforma di cucina sopraelevata, così in caso di eventuali inondazioni o alluvioni resta sicura e pulita e in più la donna siede come su un trono.
Ma le chulah sono soprattutto un modello di imprenditoria femminile e un esempio lampante è rappresentato da Champa, una donna molto umile, ma molto intraprendente, che dimostra che ognuno può diventare milionario. Lei e il marito infatti l’hanno presa come una missione, non costruiscono, ma vanno nei villaggi e insegnano a costruire le chulah, hanno dei banner stampati, delle foto e formano analfabeti mostrando loro dei disegni.

Esempio di chulah – Zero-carbon fuel-efficient Pakistan chulahs, Pakistan, 2018 © Heritage Foundation of Pakistan

Quindi concretamente come sono cambiate le cucine?

Il fumo ora esce da un camino, quindi non viene respirato, un unico fuoco alimenta due fornelli per cucinare contemporaneamente, sul camino si può scaldare l’acqua, c’è un lavabo dove lavarsi le mani e un luogo dove riporre le stoviglie, una vera cucina attrezzata sicura e pulita all’aperto che diventa anche un luogo di aggregazione e di chiacchiere fra donne, con i bimbi intorno che ascoltano le storie.
Da un punto di vista dei consumi è molto efficiente, l’abbiamo progettato con un consulente svizzero, esperto di fumi, che ha spiegato il flusso d’aria, con la stessa legna ora si possono avere l’acqua che bolle e due pentole sul fuoco.
In questa attività non ci sono costi, se non il training di 1 euro, i materiali da costruzione sono infatti tutti in loco, devono solo imparare a fare la calce e i mattoni. Io ho messo a disposizione la mia tecnica dia rchitetta le donne mettono la loro creatività per decorarle ognuna in modo diverso e molto colorato. Fino ad ora ne sono state costruite 70.000.
La sola Champa in pochi mesi è riuscita a formare circa 35.000 famiglie e ora è milionaria, guadagna 25 volte di più di quanto guadagnava 6 mesi fa, vedessi che gioielli indossa e può vantare una foto accanto al Presidente del Pakistan!”

Nel 1980 ha dato vita con suo marito alla Heritage Foundation. Quali traguardi ha raggiunto e qual è stata la sua più grande soddisfazione?

“Prima di tutto è stato utile per capire le mie radici. C’era così tanto che non conoscevamo e andava documentato e catalogato per diffondere il valore del patrimonio artistico. La catalogazione ha portato poi alla Legge sul Preservation Act nel 1994 per cui mi sono molto battuta e che ha tutelato ben 600 siti storici, diventati poi 1600.
Abbiamo cominciato nel 1980 restaurando la Flagstaff House di Karachi che stava per essere demolita, e invece ora è un museo, e il primo libro che ho scritto è proprio dedicato a questo lavoro.
Ho catalogato i documenti di Makli e Lahore (nel Punjab) dove sono stata advisor nazionale dell’UNESCO per il Master Plan del Forte di Lahore.
È stato un enorme privilegio poter lavorare a due siti UNESCO, un’esperienza incredibile essere lì dove erano vissuti grandi re, imperatori e regine.

Restoration and Conservation Project, Sepulchre of Mirza Jan Baba,
Makli Necropolis, Pakistan, 2014–2016 © Heritage Foundation of Pakistan

Una delle attività della Fondazione che mi ha segnato maggiormente è stato il Karavan Karachi, una gran festa in cui veniva coinvolta tutta la popolazione locale. Ogni domenica, per un anno intero, ci riunivamo per celebrare un edificio storico, erano incontri aperti a tutti, i bambini potevano fare schizzi, c’erano performance, musica e all’improvviso tutti hanno capito quanto fosse meravigliosa quella città. E io ho capito il valore degli spazi aperti e lì, stando seduta nella polvere fra le persone povere di Karachi, ho perso il mio Ego e ho capito che potevo lavorare in un altro modo”.

Qual è, secondo lei, il ruolo dell’architetto oggi?

“Non esiste per me una definizione specifica non è più come durante il Rinascimento, oggi gli architetti si stanno impegnando principalmente in grandi commissioni, ma il mondo sta cambiando, con il COVID-19 sappiamo che queste diminuiranno, quindi penso che dovremo avere un nuovo modo di progettare edifici e un nuovo modo di progettare le città.
Posso solo dare il mio esempio ho avuto così tante opportunità, ho progettato, fatto ricerche, ho potuto occuparmi di conservazione, lavorare a tutti i livelli ed è il Pakistan che mi ha dato questa opportunità. Il mio paese mi permette di costruire perché non dovrei farlo? Se la maggioranza più povera del mondo vive qui, perché non dovremmo lavorare per loro piuttosto che per le multinazionali? Quindi questo è il punto di svolta. E gli architetti sono leader in questo, sono quelli che possono mostrare la giusta direzione, ma penso che abbiano abdicato, che abbiano smesso di guidare. Invece ogni periodo ha le sue sfide e ora la sfida è il cambiamento climatico, le emissioni di gas serra, il COVID 19, la povertà, le disuguaglianze, i conflitti, le migrazioni, i migranti per il cambiamento climatico.
Gli architetti sono necessari, siamo gli esperti nella costruzione. Sappiamo coordinare, mettere insieme tante cose, l’edificio è una macchina molto complessa, sai che deve essere assemblata in così tanti modi diversi e tu architetto sei stato addestrato per farlo e puoi lavorare con le comunità e applicare un processo di co-progettazione, quindi perché no? Fallo!”

E ci sono alcuni maestri che l’hanno ispirata nella sua carriera?

“Sono stata molto influenza soprattutto da Marco Vitruvio, Hassan Fathy (architetto e urbanista egiziano) e da Le Corbusier”.

E ha degli eredi che proseguiranno il suo lavoro?

“Sto preparando molti giovani e penso che questa sia la strada da percorrere, più formi più diffondi il tuo sapere. Abbiamo organizzato anche dei video tutorial su youtube in modo che chiunque possa seguirci, quindi anche se ora non sono lì fisicamente, la formazione continua. Anche il British Council vuole diffondere i nostri tutorial in Bangladesh e Sri Lanka. Il lavoro adesso può essere portato avanti da altre persone, posso dedicarmi ai miei libri”.

Aveva detto così anche 20 anni fa quando aveva chiuso lo studio, invece lì è cominciato la parte più intensa della sua vita

[ride] “Sì l’importante è quello che sto facendo ora con le chulah, aver aiutato a costruire 70.000 chulah vuol dire aver contribuito a sfamare 700.000 persone!”

Che consiglio darebbe a un giovane architetto italiano?

“Penso che il fine dell’architettura sia la giustizia sociale ed ecologica.
Più che la forma penso che adesso debbano essere portati avanti dei principi.
Un tempo era importante il prodotto finito, ma quando lavori con le persone non c’è un prodotto finito. Dobbiamo andare in quella direzione non importa quale sia lo stile”.

Quali altri progetti ha in corso ora?

“Ho un campo base di formazione vicino alle tombe di Makli (sito UNESCO) lo Zero Carbon Cultural Centre (ZC3) per l’inclusione sociale e la sostenibilità ambientale. Qui ho creato un modulo di formazione che costa pochissimo, formiamo 3 persone per villaggio per 3 giorni, c’è un lodge dove possono essere ospitati e poi tornano nei loro villaggi.
Insegniamo a costruire pannelli di bambù prefabbricati con cui possono costruire intere case. Dalle piccole capanne alle grandi strutture, come quella presente nel campo che è di 25 m x 16 m. Ma sperimentiamo anche, ne ho appena costruita una che galleggia e mi sono divertita molto (ride!)

ZC3, Zero Carbon Cultural Centre, Makli, Pakistan, 2018 © Heritage Foundation of Pakistan

Oltre al mio lavoro nel ZC3 stiamo lavorando per le strade di Karachi per il restauro e la messa in sicurezza di 12 edifici e per la pedonalizzazione di tratti di strade pubbliche nel centro storico. E’ un progetto di spazio pubblico innovativo, usiamo mattoni di terracotta fatti dalla popolazione locale, che permettono di far evaporare l’acqua piovana rendendo le strade più pulite e meno caotiche.
Penso infatti che sia molto grave che le persone continuino a vivere in ambienti degradati, dobbiamo continuare su questa strada, trasformare queste aree, costruire alloggi a prezzi accessibili negli slum, nelle aree a basso reddito di Karachi. Se possiamo insegnare a tutti come costruire meglio, penso che sarà meglio per l’economia, sarà meglio per le persone e saremo in grado di resistere a molti disastri. Il mio sogno è fare in modo che tutti possano imparare a costruire meglio e insegnarlo ai loro figli”.

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