Sonia Peggiani: una passione per i nanomateriali

Una delle nostre guide all’interno del NanoLab e del progetto EspLORE (che potete approfondire in questo articolo) è stata Sonia Peggiani, assegnista di ricerca post-doc al NanoLab, al Dipartimento di Energia. Qui ha svolto il dottorato di ricerca, che ha conseguito nel 2021 con la tesi “Fabbricazione e caratterizzazione di fili atomici di carbonio e nanocompositi”. Si occupa della progettazione e realizzazione di etichette anticontraffazione per diversi settori commerciali, e come ci ha raccontato, lavorerà principalmente sul progetto KEEPER che partirà il 1° giugno.

L’entusiasmo con cui ci parlava dei suoi progetti e la passione che trasmettevano i suoi occhi ci hanno dato l’idea per questa intervista, in cui ci racconta come è nato il suo amore per l’energia e il suo percorso professionale che l’ha portata ad essere una ricercatrice.

Sonia Peggiani

Ciao Sonia. Dove è cominciato tutto?

Sono nata e vissuta a Piacenza, dove ho frequentato il liceo scientifico. Oggi ho 30 anni, vivo a Milano, ma sicuramente la mia passione per la matematica e la fisica erano già nate lì.

Che cosa ti ha conquistato di queste due materie scientifiche, in quegli anni di liceo?

È la matematica che mi ha sempre dato soddisfazioni. I temi li ho sempre odiati, perché dovevo in qualche modo parlare di me. [ride] Alla fine sarebbe bello conoscere un po’ di tutto su qualsiasi argomento. Ma nel mio caso avevo le idee chiarissime su quell’ambito. Sono stata fortunata, perché in quel momento sapevo cosa volevo fare: il liceo scientifico.

La soddisfazione che mi dà la matematica è che i conti tornano. La soluzione di un calcolo mi dà sicurezza, una sorta di serenità.

E al liceo questa tua sicurezza si è rivelata effettivamente corretta…

È stato molto importante il professore di matematica del triennio, ha sempre creduto molto in me. Mi buttava sempre dentro le attività che organizzava la scuola.

Per farti un esempio, in quarta c’è stata la proposta di sviluppare un modello matematico per prevedere l’influenza stagionale 2009-2010, periodo in cui è scoppiata la suina. Era un’iniziativa in collaborazione con il Politecnico di Milano che ci ha anche invitato a visitare il Dipartimento di Matematica. Ho lavorato al progetto in team con due mie compagne; tutti i pomeriggi, perché avevamo una scadenza da rispettare.

È stata una delle attività più importanti che ho fatto; rappresenta quella che sono oggi. In quell’occasione ho capito quanto mi piaccia lavorare in team, che è quello che faccio oggi con Ale, Anna e Carlo [Anna Facibeni, Alessandro Vidale e Carlo Casari]. È stato bellissimo scoprire la forza del team.

Sonia Peggiani in laboratorio

Hai vissuto in un ambiente scolastico molto stimolante…

Sì, e ringrazierò sempre il mio professore che mi ha fatto vincere le mie paure, incoraggiandomi a partecipare a queste attività.

Con il progetto sull’influenza, abbiamo partecipato al concorso “I giovani e le scienze”, dove abbiamo vinto un attestato per il livello matematico. La cosa straordinaria è che hanno dato la possibilità, a noi tre appena diciottenni, di presentare il modello a MOSTRATEC 2010, una fiera in Brasile che è durata una settimana. Abbiamo conosciuto nostri coetanei da tutto il mondo, ma principalmente dagli stati sudamericani. Quando capivano che eravamo italiani ci prendevano d’assalto. È stata un’esperienza bellissima.

Quando hai scoperto le nanotecnologie?

È successo in quarta superiore. Abbiamo partecipato a un workshop al Museo della scienza e della tecnologia. È lì che sento per la prima volta parlare di nanotecnologie.

Ci hanno fatto osservare il latte non trattato e quello lavorato, nella loro nanostruttura: la consistenza era totalmente diversa perché cambiavano le proprietà. Ci hanno mostrato anche giubbini con pannelli solari nanostrutturati. Vedere materiali che, lavorati a dimensioni diverse, cambiavano le loro proprietà, mi ha stupito immensamente.

È lì che mi sono detta che avrei dovuto tenere a mente la parola “nanotecnologie” per il futuro.

Te ne sei ricordata quando hai dovuto scegliere il corso universitario a cui iscriverti?

In realtà non sapevo ancora cosa avrei voluto fare. Per me l’ingegneria era solo: edile, civile e informatica. Non ne conoscevo altre. Quella fisica mi interessava, ma pensavo potesse essere troppo teorica.

Mi sono detta: è gratis, faccio il test indicando un’ingegneria a caso. Vado sul sito, leggo tutti i corsi disponibili, ma all’improvviso vedo lei: ingegneria dei materiali e delle nanotecnologie. Quando ho visto quel nome, mi sono detta: «Fa per me!». Era un segno del destino.

E così mi iscrivo a ingegneria dei materiali e delle nanotecnologie, lo dico a mia madre, racconto alle mie amiche delle strutture del latte, del mercurio, trasmettendo loro l’entusiasmo che stavo vivendo per qualcosa che per loro forse era incomprensibile.

Avrei anche continuato quel percorso per cinque anni, ma decido di fare ingegneria nucleare in magistrale. Sicuramente perché potevo continuare a fare nanotecnologie; ma un’altra cosa che mi ha sempre caratterizzato è la curiosità, la voglia di fare qualcosa di diverso, il piacere di provare cose nuove.

È stata la scelta giusta?

Non me ne pento nemmeno per un secondo. Durante la magistrale ho scoperto un’infinità di cose sul nucleare che non sapevo.

Ho fatto la mia tesi sui materiali semiconduttori al CERN di Ginevra. Il mio obiettivo era fare un’esperienza all’estero: e che esperienza è stata! Era un ambiente internazionale, conoscevi ogni giorno gente da tutto il mondo. L’internazionalità è una delle cose che mi elettrizzano di più. Ho trascorso quattordici mesi lì; è stata un’esperienza unica.

A questo punto hai deciso di intraprendere la strada del dottorato?

Sì, e ho deciso per le nanotecnologie. Come avrai capito è un po’ il mio filo conduttore. All’inizio volevo rimanere all’estero, ma poi il professor Casari ha ottenuto i fondi europei per la ricerca sule caratteristiche dei materiali nanostrutturati. E così sono di nuovo qui, al Politecnico, con tutto il percorso che ci siamo detti su EspLORE.

Il gruppo di ricerca del NanoLab

Che cosa ti appassiona del tuo lavoro di ricerca qui?

La cosa più stimolante è che era un progetto totalmente nuovo. Figurati che molti macchinari non c’erano nemmeno, è quasi tutto nuovo, qui. Tutto grazie ai fondi del Consolidator Grant di ERC.

Il bello era proprio che dovevamo costruire qualcosa da zero. Il brutto è che non c’era qualcuno già esperto sul tema, e quindi per raggiungere alcuni risultati abbiamo impiegato molto tempo. Anche perché dovevamo mettere a punto alcuni passaggi per colmare il gap iniziale.

La tua passione per il lavoro di squadra c’è ancora?

Assolutamente sì. Tutte le persone in questo edificio sono umanamente bellissime. Se non fosse così, se non mi trovassi bene con i miei colleghi e colleghe non riuscirei a dare tutto il meglio di me.

Il gruppo di noi quattro è fortissimo: la forza del team, l’entusiasmo che abbiamo, il crederci sempre. Lavorare con altre persone con cui condividi i valori è il successo alla base delle cose. Hai quella grinta in più che ti fa dare di più. Come dico sempre, due teste (o quattro, come in questo caso), sono meglio di una.

La prospettiva della startup, inoltre, ci ha aperto un orizzonte che non pensavamo.

Hai già avuto esperienze come docente in aula?

Sì, e l’insegnamento mi è piaciuto tanto, come d’altronde la divulgazione.

Vedere persone che si incuriosiscono e ti fanno delle domande è una sensazione impagabile. Mi dà tantissima soddisfazione sentire i ringraziamenti degli studenti, anche con un semplice: «Le sue lezioni sono belle».

Quindi sei appassionata anche di divulgazione?

Sì, mi piace molto, perché mi dà le stesse sensazioni che ti dicevo poco fa. Mi piace immensamente motivare le persone.

Per questo ogni volta che me ne offrono la possibilità do il mio contributo a contenuti divulgativi, partecipando a un podcast o raccontando le nostre attività sui social.

Proprio per l’esperienza che ho vissuto io, ritengo fondamentali i progetti che mettono in contatto l’università con le scuole superiori. Ci sono in cantiere eventi di divulgazione sulle nanotecnologie rivolti a studenti di quarta e quinta superiore, tra cui un evento nella mia Piacenza.

Inoltre, faccio parte di un’associazione, Nucleare e Ragione, che ha lo scopo di divulgare in maniera obiettiva le potenzialità del nucleare, rispetto alla cattiva fama, basata su argomenti per lo più non scientifici, che si porta dietro dai tempi del referendum che ne sancì il blocco in Italia. È una causa che porto nel cuore.

Sonia Peggiani ad un evento divulgativo

E invece cosa ne pensi dell’ambiente aziendale, per te relativamente nuovo?

Come avrai capito, mi piacciono un po’ tutte le situazioni se l’ambiente è giusto. Il mondo azienda è molto sfidante, però mi attira. È innovativo, si ha a che fare con gente giovane, è l’occasione per tantissimi scambi.

Mi sta piacendo molto questa nuova parte del nostro lavoro. E avendo questi fondi che ci permetteranno di verificare se il nostro progetto funzionerà anche a livello applicativo, è molto stimolante. Non so se approfondire tematiche economiche e aziendali faccia proprio parte del mio mondo, ma sono tutte competenze che mi arricchirebbero.

Ci hai raccontato dell’entusiasmo che mostravi agli altri per le nanotecnologie. Quali reazioni vedevi, in famiglia e tra gli amici, a una passione che a torto potrebbe ancora sembrare a molti “un po’ strana”?

Devo dire che tutte le persone a me vicine vedevano e sentivano il mio entusiasmo: erano tutti contentissimi. Mio papà lo voleva; «Sono contenta se sei contenta. Io non ci capisco niente!», ha detto mia mamma [ride]. Soprattutto io, lo volevo. Ma sentirsi approvata rimane comunque una bella sensazione.

C’è un po’ l’idea che se sei donna e fai quelle “ingegnerie dai nomi strani” bisogna mostrare stupore. Soprattutto a Piacenza, essendo una realtà più piccola di Milano, ci si sente un po’ una rarità. C’è la tendenza a sentirsi dire: «Sei un genio». Non sono un genio. Semplicemente, ogni materia, se affrontata bene, ha le sue difficoltà, e devi metterci tutto l’impegno. Da un lato ti fa piacere perché ti fanno un complimento; dall’altro ti fanno riflettere sul perché solo se fai ingegneria debbano chiamarti “genio”.

Hai vissuto dei pregiudizi perché donna? Hai avuto la sensazione, in alcune occasioni, che ti si richiedesse di più rispetto ai tuoi colleghi uomini?

Difficoltà perché donna non direi. Il mio percorso universitario l’ho vissuto bene, non ho mai voluto soffermarmi su certe cose.

C’è un fatto: trovandomi in un ambiente ancora prevalentemente maschile, evitavo ad esempio le gonne per non suscitare commenti, che comunque si sentivano rivolgere a chi le portava. Ammetto che mi limitavo nel vestirmi come volevo, per stare più a mio agio.

Nell’ultimo anno ho notato con sempre più attenzione quando un docente o un collaboratore esterno uomo, avendo a che fare con un gruppo di ricerca misto, si rivolge solamente al componente maschio. Oppure si rivolge all’uomo come “ingegnere” e alla donna come “signora”. Oppure quando scappa la battuta superflua su una caratteristica femminile.

Ultimamente sono sempre più sensibile alle questioni di genere. In passato c’era meno sensibilità, paradossalmente mi sembrava “normale”.

Esistono anche pregiudizi rivolti agli uomini, comunque. Ad esempio, il fatto che non possano mostrare i sentimenti in pubblico è un limite ancora più evidente in un ambiente impegnativo e sfidante come l’università. C’è ancora molto da fare su tutti questi fronti.

Sonia Peggiani in laboratorio

Cosa ne pensi delle iniziative per favorire la partecipazione delle donne ai corsi di studio STEM?

È certo che bisogna agire per un cambiamento, ma secondo me serve lavorare per prima cosa sulla meritocrazia. Io sono per la parità di genere in senso assoluto. D’altra parte, creare progetti dedicati alle donne, o in cui una parte dei componenti debba essere donna, potrebbe essere in alcuni casi l’unico modo per forzare questo cambiamento. Nessuno possiede la verità assoluta sul modo più giusto per arrivarci.

Cosa diresti a una ragazza che volesse intraprendere un percorso di studi in ingegneria, ma che si sentisse ancora limitata nella scelta per tutte le cose che si siamo detti finora?

Le direi: «Falla! Perché se lo desideri, ti darà tante soddisfazioni. Non ascoltare i commenti altrui, devi ascoltare te stessa. Non pensare sia troppo difficile, ci riuscirai».

Condividere le cose aiuta molto in questo percorso: tutoraggi, gruppi di studio, affrontare le cose assieme agli amici, chiedere consiglio ai docenti, confrontarsi sempre. Passo dopo passo si affrontano tutti gli esami.

A quella ragazza direi di seguire il cuore, di non sentirsi costretta a subire il parere della società. Quello che vogliamo, lo possiamo veramente capire solo dentro di noi.

Abbiamo parlato di pressioni esterne. La cronaca recente ha svelato situazioni in cui queste pressioni, vissute all’estremo, hanno portato ad esiti drammatici. Che cosa diresti a uno studente in difficoltà emotiva rispetto alla vita universitaria?

A volte in università c’è una competizione che si fa sentire. L’ho vissuta anch’io in prima persona, ci ho sofferto molto. Sulle persone più fragili porta a depressione e altre sindromi legate allo stress basato sulle aspettative, sugli esami, sulla laurea. Sono meccanismi di cui anche i docenti dovrebbero tenere conto, curando sempre l’aspetto umano.

Non passare un esame non è un fallimento, è una cosa che non è andata come poteva andare. Ci si deve sempre rialzare senza farsi troppo intimorire.

Direi: «Non guardare gli altri, non guardare i voti, non viverla come una competizione. Il voto non ti dà valore. Il voto non è la tua persona. Il voto è legato alla prestazione che hai dato in quel momento. Nel futuro non ti porti dietro il voto, ma ti porti dietro quello che hai imparato.

«Partecipa a tutto quello che vuoi fare, workshop, conferenze; apri la mente, scambia le idee.

«Ma non legarti mai a un voto».

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