Le sfide future della gestione dell’acqua e della terra

siccità

Senza acqua non c’è vita: fin dai primi anni di scuola abbiamo imparato questo basilare concetto della biologia. L’acqua è come l’ossigeno, ci rendiamo conto della sua importanza quando inizia a scarseggiare. La siccità e i cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova la disponibilità di questo bene prezioso, un allarme rilanciato dall’Onu in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua dello scorso 22 marzo.

L’acqua come risorsa è oggetto di studio anche del Politecnico di Milano: tra le ricercatrici e ricercatori coinvolti sul tema c’è Maria Cristina Rulli, idrologa del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale, che insieme al suo team studia gli impatti della disponibilità e utilizzo delle risorse idriche e della terra sulla società, a partire proprio dalla sicurezza alimentare. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua ricerca.

Professoressa Rulli, lei si occupa da tanti anni di Food e Water Security e Idrologia, quando questi temi non erano tristemente mediatici come ora.  Qual è il suo percorso personale e accademico e come è nato il suo interesse per la materia?

«Nasco come ingegnere, poi ho conseguito il dottorato in ingegneria idraulica occupandomi di idrologia. Il mio background scientifico è quello di una studiosa dell’acqua che durante il suo percorso scientifico ha studiato l’acqua prima come rischio avendo in questo ateneo come maestro il prof. Renzo Rosso, uno dei più eminenti scienziati idrologi e studioso di rischio idrologico, e poi è passata, una volta diventata professore associato, a studiare l’acqua come risorsa. Ho iniziato infatti ad occuparmi dell’acqua nel contesto della sicurezza idrica e alimentare all’indomani del concorso da professore associato. Durante tale concorso a tutti i 21 concorrenti veniva posta un’ultima domanda da parte del presidente della commissione riguardante ipotetici piani scientifici futuri in caso di vincita del concorso. Il presidente della commissione di concorso era il professor Andrea Rinaldo vincitore quest’anno di quello che è considerato il premio Nobel per l’acqua, lo Stockholm Water Prize 2023.  La mia timida risposta fu che mi sarei voluta occupare di tematiche idrologiche globali, volevo cioè studiare quale era il ruolo della risorsa acqua in relazione alle grandi sfide allora emergenti per l’umanità. Ricordo di aver dato questa risposta nel timore che non fosse bene accolta e considerata inadeguata ai temi del settore disciplinare per il quale concorrevo. Le tematiche che proponevo prevedevano infatti un cambiamento di scala spaziale di indagine rispetto a quella usuale delle analisi idrologiche e soprattutto avrebbero necessitato di un approccio transdisciplinare. Ho invece ottenuto fiducia e subito messo in pratica i miei propositi di studio. In quegli anni (2010) stava avendo la sua acme il fenomeno del ‘land grabbing’, cioè delle grandi acquisizioni di terra su larga scala da parte di investitori, Stati, multinazionali che, in risposta alla grande crisi finanziaria e alimentare del 2008, compravano grandi estensioni di terre al fine di avere accesso diretto alle risorse naturali quali terra e acqua per la produzione di cibo ed energia. Questo accaparramento delle terre e delle altre risorse naturali ad esse legate quali in primis l’acqua è ancora in corso ed ha un impatto negativo sulla sicurezza idrica e alimentare nei paesi oggetto di investimento, che generalmente sono i paesi in via di sviluppo. Ho quindi iniziato, insieme al Prof. D’Odorico un amico e collega ora professore all’Università della California a Berkeley, ad occuparmi di land grabbing cercando di quantificare, grazie al mio background scientifico, gli impatti sulle risorse idriche, sulla produzione di cibo, sull’ambiente, sulla società appassionandomi sempre di più. I risultati di tali ricerche sono stati pubblicati su riviste scientifiche internazionali e alcuni dei risultati sono stati utilizzati da organizzazioni governative per informare le politiche in tema di utilizzo di risorse naturali.

Nel 2014 la Scuola di Ingegneria Ambientale ha deciso di attivare il corso di Water and Food Security, uno dei primi corsi sul tema che sono stati attivati in Europa e mi ha chiesto, con mio grande piacere, di occuparmi di disegnarlo e di insegnarlo. È stato per me un grande onore, ma anche un grande preoccupazione data la grande importanza sociale oltre che scientifica dei temi trattati».

Come definirebbe in poche parole l’obiettivo della sua ricerca?

«L’obiettivo della mia ricerca è contribuire al disegno di strategie per il perseguimento di condizioni di sicurezza idrica e alimentare globali e sostenibili. A tal fine studio l’interazione tra i processi idrologici e l’umanità. Analizzo gli impatti sulla sicurezza alimentare e idrica indotti dai cambiamenti globali considerando le risorse acqua- cibo-energia tra loro interconnesse (FEW nexus), a significare che l’utilizzo/produzione di una di esse, se non sostenibile, può precludere l’utilizzo/produzione delle altre».

L’obiettivo della mia ricerca è contribuire al disegno di strategie per il perseguimento di condizioni di sicurezza idrica e alimentare globali e sostenibili.

Maria Cristina Rulli
Com’è nato il Glob3ScienCE (Global Studies on Sustainable Security in a Changing Environment) di cui lei è coordinatrice?

«Glob3science è nato come lab, un insieme di persone che fanno ricerca su dei macro temi d’interesse. In questo caso i temi sono le grandi sfide globali del nostro millennio.  Il Glob3ScienCE si occupa di tematiche globali ove sono centrali le risorse naturali e le attività umane in un contesto che è quello dei cambiamenti globali. Particolare attenzione è posta nell’analisi delle disuguaglianze nell’accesso alle risorse naturali, nella in-giustizia ambientale e nello studio di strategie di superamento delle stesse».

Tra i suoi studi ci sono la dimostrazione del nesso tra l’insorgenza dell’ebola e la frammentazione delle foreste e quella del legame tra uso del suolo non sostenibile e spillover di coronavirus. Come siete arrivati a queste conclusioni e come possiamo far tesoro di queste informazioni per evitare prossime pandemie secondo lei?

«Negli ultimi anni si è assistito a un aumento del numero di malattie infettive emergenti molte delle quali di natura zoonotica. Tali malattie, che possono degenerare in epidemie o, come abbiamo visto in pandemie, richiedono una migliore comprensione dei meccanismi di trasmissione delle malattie infettive dalla fauna selvatica all’uomo e di come tale trasmissione possa essere influenzata dai cambiamenti ambientali e sociali in atto.

La maggior parte delle malattie umane ha origine dagli animali (zoonosi), il che significa che ci sono diversi modi in cui il cambiamento ambientale, attraverso le interazioni alterate tra animali, uomo e ambiente, può influenzare lo sviluppo e la trasmissione di malattie infettive. Il cambiamento ambientale può inoltre contribuire alla comparsa di malattie infettive nella fauna selvatica e al flusso di agenti patogeni tra le specie. La perdita di biodiversità derivante dal degrado ambientale può anche aumentare la prevalenza di malattie infettive nei loro ospiti. Gli animali selvatici svolgono spesso un ruolo cruciale nell’insorgenza di malattie infettive perché sono in grado di ospitare gli agenti patogeni che sono poi trasmissibili all’uomo direttamente o indirettamente attraverso un animale intermediario più vicino all’habitat umano. La trasmissione del patogeno dall’animale all’uomo è detta spillover. L’intrusione degli esseri umani e degli animali da essi allevati negli habitat della fauna selvatica può ridurre la distanza tra le persone e gli ospiti dei patogeni, esponendo gli esseri umani a nuove infezioni. La crescente comparsa di malattie zoonotiche è stata correlata al cambiamento ambientale, compreso il cambiamento dell’uso del suolo e la conseguente distruzione dell’habitat della fauna selvatica, che può favorire il flusso di agenti patogeni dalle specie ospiti all’uomo. Questo fenomeno può anche essere rafforzato dalla perdita di biodiversità derivante dall’espansione delle terre coltivate, dall’allevamento del bestiame e dall’urbanizzazione nell’habitat della fauna selvatica.

I nostri studi riguardanti il nesso fra cambiamenti ambientali globali e insorgenza di zoonosi è iniziata alcuni anni fa, studiando il nesso tra le infezioni da virus Ebola negli esseri umani e la frammentazione delle foreste nell’Africa centrale e occidentale.  In particolare abbiamo cercato di capire se il cambiamento dell’uso del suolo poteva avere un ruolo sull’insorgenza dei casi di ebola avvenuti in Africa dal 2000 al 2014. In questo studio, utilizzando dati satellitari ad alta definizione, abbiamo analizzato non solo la deforestazione e il nesso fra essa e i casi osservati di spillover di ebola, ma abbiamo determinato la frammentazione forestale al fine di analizzare il nesso fra quest’ultima e gli spillover. La frammentazione forestale è un processo antropico che suddivide la foresta in frammenti di essa ove ne risulta che la foresta è intervallata da altri usi del suolo quali ad esempio antropizzate quali aree coltivate, aree urbanizzate, aree con allevamenti di bestiame.

I risultati dello studio hanno ben evidenziato la correlazione fra frammentazione e spillover di ebola evidenziando come un cambiamento d’uso del suolo insostenibile possa essere uno dei driver degli spillover. Questi studi sono stati apprezzati a livello internazionale, tanto da ricevere l’apprezzamento del governo della Guinea, che ci ha contattato.

Nello studio riguardante il COVID, non essendoci evidenze scientifiche sulla localizzazione dello spillover, ma ritenendo che l’animale ospite fosse il pipistrello ferro di cavallo, abbiamo analizzato un set di dati completi ad alta risoluzione di copertura del suolo, densità del bestiame, distribuzione delle specie di pipistrelli e cambiamenti nell’uso del suolo. Abbiamo studiato la relazione fra rischio di epidemie di coronavirus con il cambiamento dell’uso del suolo, la frammentazione dell’habitat, l’allevamento di animali e la creazione di insediamenti umani nelle aree in cui si trovano i pipistrelli a ferro di cavallo.

Abbiamo mostrato che in Cina le aree in cui sono presenti i pipistrelli a ferro di cavallo sono hotspot globali della frammentazione delle foreste e della produzione di suini e pollame, nonché per l’espansione urbana ciò a significare che in queste aree, la densità di bestiame e di esseri umani in prossimità di margini forestali altamente disturbati è significativamente più alta che in altre regioni del mondo popolate dalla stessa specie di pipistrelli.

Da ciò si evince come sia necessaria non solo una riflessione sui cambiamenti d’uso del suolo insostenibili come causa di spillover zoonosi, ma anche sullo stile di vita che vogliamo adottare poiché esso può a cambiamenti ambientali in grado poi di innescare reazioni quali ad esempio le zoonosi. Giusto per fare un esempio, i cambiamenti dietetici associati all’aumento del consumo di carne (e quindi di allevamenti) sono riconosciuti come uno tra i principali motori dei cambiamenti nell’uso del suolo in grado di aumentare anche la probabilità di ricadute di agenti patogeni dalla fauna selvatica all’uomo.

I nostri risultati indicano la necessità di nuove politiche in grado di ridurre il rischio di spillover aumentando la distanza tra la fauna selvatica e l’uomo. Ad esempio, tali politiche potrebbero promuovere nuovi modelli di cambiamento dell’uso del suolo, favorire l’adozione di diete meno dipendenti dalla carne e promuovere la protezione della fauna selvatica e del suo habitat».

Maria Cristina Rulli al Summit mondiale sull’acqua delle Nazioni Unite
Maria Cristina Rulli al Summit mondiale sull’acqua delle Nazioni Unite
Il 22 marzo si è celebrata la Giornata mondiale dell’acqua (World Water Day), istituita dalle Nazioni Unite nel 1992. Il tema di quest’anno è il legame tra acqua e cambiamenti climatici: dalla sua esperienza di ricerca in cosa si traduce?

«Il Summit mondiale sull’acqua delle Nazioni Unite, l’ultimo c’era stato nel 1977, si è concentrata su 5 “dialoghi” su importanti temi come ‘acqua per la salute’, ‘acqua per lo sviluppo sostenibile’, ‘acqua per clima, resilienza e ambiente’, ‘acqua per cooperazione’, e ‘acqua per una decade di azione’. Si è parlato della scarsità idrica, dell’accesso ad acqua per uso potabile, sanitario, agricolo, di inquinamento, oltre al focus sul nesso tra acqua, cibo, energia ed ecosistemi.

Sono state fatte delle proposte per ovviare alla crisi idrica, alcune condivisibili, altre molto meno.

Quanto ai cambiamenti climatici, tutti i cambiamenti globali, e in modo particolare quelli climatici possono alterare la disponibilità di risorsa idrica ma anche la domanda della stessa. Il rischio è di esacerbare la scarsità di acqua con un impatto non indifferente sulla produzione di cibo e di energia. Essendo il comparto agricolo il più grande utilizzatore di acqua sul nostro pianeta, meno acqua significa meno produzione di cibo. Ma meno acqua può anche significare meno energia, poiché l’acqua è molto utilizzata anche nel settore industriale. Inoltre, l’acqua può anche rappresentare il fattore limitante in percorsi green volti alla limitazione della CO2 in atmosfera».

Lei si è occupata anche di risorse idriche, consumo di suolo e guerre, sia nel contesto del Lago Ciad sia nelle conseguenze della guerra in Ucraina. Come sono collegate? Siccità e cambiamenti climatici possono essere il detonatore di nuovi conflitti?

«Si tratta di due studi diversi. Nel caso del conflitto nel Lago Ciad abbiamo per prima cosa cercato di fare chiarezza sulle cosiddette “Guerre per l’acqua”, cioè conflitti armati sulle risorse idriche, che sono state al centro di un acceso dibattito tra scienziati, politici e il pubblico . Innanzitutto c’è consenso fra gli studiosi che le guerre per l’acqua secondo l’accezione del Diritto internazionale (l’attacco armato contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di uno Stato da parte di un altro Stato) sono improbabili. Tuttavia, gli ultimi decenni hanno visto un aumento di conflitti intrastatali dove gli attori principali sono spesso gruppi armati parastatali come Boko Haram che presumibilmente approfittano dello stress ambientale. Il bacino del lago Ciad, in Africa centrale, è un esempio paradigmatico di una regione soggetta a “nuovi” conflitti, ma anche a dibattiti distorti sulle cause di tali conflitti. Spesso le analisi quantitative del legame (nesso) tra acqua e conflitto tendono a semplificare la rappresentazione delle complesse realtà. Va comunque rilevato come la ricerca riguardante le analisi quantitative sul nesso conflitto-acqua stia progredendo, con l’obiettivo di fornire robuste prove scientifiche necessarie per informare una discussione su tale tema. Per comprendere se e come la disponibilità di acqua avesse un ruolo nei conflitti nel lago Chad Basin, abbiamo analizzato sia dati ambientali che sociali descriventi il conflitto. Inoltre, abbiamo cercato di descrivere l’acqua e la terra disponibile e/o utilizzata mediante l’utilizzo della risorsa al fine del diretto sostentamento umano e della produzione dei mezzi di sussistenza nella regione di studio.

Il lavoro sulla guerra Russo-Ucraina analizza invece la situazione di disponibilità e accesso economico ai prodotti agricoli e all’energia dallo scoppio della guerra confrontandola con la situazione prodromica alle grandi ondate di land grabbing avute nei post crisi finanziaria-alimentare 2008-2011. Alla luce delle similitudini fra le due situazioni si ipotizzano possibili percorsi futuri di transizione agraria».

E ora tocca a noi: cosa possiamo fare nel nostro piccolo, come cittadini e come privati, per una migliore gestione della risorsa idrica?

«Va innanzi tutto ricordato che l’acqua è essenziale sia per la nostra sopravvivenza, sia per lo sviluppo. L’accesso all’acqua è stato riconosciuto a livello internazionale come un diritto umano universale, ma purtroppo è ancora precluso a milioni di persone. Le strade da percorrere sono molteplici e tutte necessarie al fine di ridurre la disuguaglianza nell’accesso alla risorsa acqua e perseguire una giustizia ambientale, sociale ed economica. Esse riguardano innanzi tutto la salvaguardia della risorsa naturale il cui utilizzo di va contestualizzato nel perimetro della sostenibilità ambientale. A tale necessità vanno sensibilizzati sia coloro che possono materialmente agire verso tale salvaguardia tramite delle apposite politiche, sia tutti i cittadini che possono agire tramite il proprio comportamento. La disponibilità di acqua dipende dai tempi del ciclo idrologico. Noi idrologi abbiamo la conoscenza scientifica per poter analizzare tutti i fenomeni fisici che pertengono al ciclo idrologico al fine di determinare la corretta quantità di acqua utilizzabile in maniera sostenibile, in maniera tale cioè che la quantità di acqua utilizzata possa essere di nuovo disponibile al successivo bisogno di essa.

Vanno poi moderati stili di vita troppo idro-esigenti e che contemplano lo spreco idrico diretto, ma anche indiretto tramite lo spreco di ciò che è stato prodotto utilizzando acqua. Circa il 70-80% dell’acqua dolce che utilizziamo è per l’agricoltura, per produrre cioè il nostro cibo. Cibi diversi necessitano, a parità di peso, diverse quantità di acqua per essere prodotti. Ad esempio, I prodotti animali necessitano per essere prodotti (a parità di peso) una quantità di acqua notevolmente superiore ai prodotti vegetali. Cerchiamo di alimentarci con una dieta che sia ovviamente nutriente ma che salvaguardi anche l’ambiente. L’esempio fatto per la moderazione delle diete può essere ripetuto per tutti i i beni ottenuti tramite l’utilizzo di acqua.

Come si dice da ultimo, ma non per ultimo, da ingegneri quali siamo dovremmo cercare di disegnare delle strategie e delle tecnologie che ci aiutino a risparmiare acqua tramite un efficientamento degli impianti, facendo però sempre attenzione a non incorrere nel paradosso di Jevon secondo il quale l’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse genererà un aumento del consumo di risorse piuttosto che una diminuzione

Una robusta formazione scolastica alla sostenibilità ambientale potrebbe aiutarci in questi percorsi di sviluppo sostenibile che cioè riduca le disuguaglianze e persegua la giustizia ambientale. Abbiamo bisogno di riconoscere e accettare che non ci può essere sviluppo a lungo termine senza la salvaguardia delle risorse naturali. Necessitiamo di affrontare le grandi sfide tramite un approccio transdisciplinare che fondi su una robusta conoscenza della fisica dei fenomeni naturali, dei fenomeni sociali e dell’interazione dell’ambiente-società».

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