Fosbury architecture, il collettivo che salta oltre l’ostacolo

Abbiamo incontrato il gruppo Fosbury poco prima della loro Lecture inaugurale al Festival Milano Arch Week nel Patio di Architettura. Il gruppo di ex studenti del Politecnico di Milano composto da Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino e Claudia Mainardi è nato nel 2013 a Milano. In 10 anni di lavoro ha sperimentato in ambiti molto diversi occupandosi di allestimenti e curatela di mostre, installazioni, didattica, ricerca e progetti editoriali. Lavori eterogenei, ma che mantengono nell’approccio lo stesso spirito di sperimentazione non convenzionale, attento ai limiti e alle opportunità del contesto.  
Il gruppo è appena stato incaricato di progettare il Padiglione Italia alla 18° Biennale di Architettura di Venezia dal titolo Spaziale visitabili alla Tesa delle Vergini Arsenale fino al 26 novembre 2023.

Ritratto Fosbury © Luca Campri
Ritratto Fosbury © Luca Campri

Vi definite un collettivo, siete cinque e vi siete conosciuti proprio qui al Politecnico, come avete deciso di lavorare insieme?

Alessandro Bonizzoli: «In realtà all’inizio eravamo otto, tutti studenti del Politecnico, frequentavamo quasi tutti gli stessi corsi, avevamo tutti gli stessi dubbi, le stesse domande, tutti la stessa paura di entrare in un mondo del lavoro che nel 2007/2008 con la crisi economica era veramente complesso. Sentivamo forte la necessità di fare gruppo, unirci e sviluppare progetti che un po’ procedessero parallelamente alla formazione che stavamo coltivando qui e un po’ anche per tenersi insieme e condividere, appunto, dubbi, paure e domande. E poi non ci siamo più lasciati».

E come mai per il nome Fosbury vi siete ispirati a Dick Fosbury, l’atleta che ha rivoluzionato la tecnica del salto in alto? 

AB: «Ci piaceva la sua storia. Dick Fosbury ha 21 anni è un ragazzo americano piuttosto sconosciuto, non è un atleta eccezionale, anzi qualcuno lo definisce addirittura un atleta mediocre, ma ha delle lunghe leve e con il suo allenatore studia e si inventa questa nuova tecnica che si addice alle sue qualità. Arriva ai Giochi Olimpici di Città del Messico del ‘68, vince ed è incredibile ancora oggi rivedere il video di quel salto, ai tempi tutti ancora saltavano ventrale, mentre lui cambia completamente il paradigma. Ma dopo qualche anno si ritira, si mette a fare il professore di ginnastica, non vince null’altro, solo una medaglia d’oro. E’ una storia che ci ha molto colpito perché oltre alla poesia di saltare l’ostacolo al contrario senza neanche guardarlo, era per noi un inno a studiare l’ostacolo, non tanto a inventare un nuovo, ma a studiare stando dentro le regole del gioco. Capire i gradi di libertà che si hanno e proporre un’alternativa appunto rivoluzionaria». 

Che è un po’ quello che vi proponete nei vostri progetti.

AB: «Sì, un punto di vista obliquo. Domande oltre alle risposte e appunto registrare i cambiamenti di paradigma che sono in atto nella disciplina e in un senso molto più globale. 

E quali sono i vostri ambiti di ricerca? 

AB: «Ma nel tempo un po’ di tutto, abbiamo cominciato lavorando alla scala urbana, facevamo moltissimi concorsi di strategie di sviluppo urbano e poi pian piano, anche molto casualmente, ci siamo messi a fare ricerca sulla domesticità abbiamo per tanti anni seguito un lavoro insieme ad Alterazioni Video sulle opere pubbliche incompiute, che poi è culminato nel 2018 con la pubblicazione di Incompiuto la Nascita di uno stile. Non ci diamo un’idea a priori, ma ogni occasione diventa un modo per aprire nuovi filoni di ricerca e analisi».

Come vi siete divisi i compiti internamente? 

AB: «Oramai dopo più di 10 anni di collaborazione, siamo veramente un cervello rizomatico e ognuno ha delle qualità e capacità spiccate in certi ambiti, però cerchiamo sempre di lavorare a coppie. Abbiamo dei momenti di confronto, cerchiamo di tenerci molto uniti e ci dividiamo un po’ per le naturali competenze che abbiamo, però sempre cercando di lavorare a gruppi di due almeno.

Riuscite quindi a essere abbastanza democratici? 

AB: «Sì anche perché non c’è altro modo per noi. L’unica formula è democratica che in qualche modo rallenta però quando esce un prodotto è già molto sviluppato perché racchiude all’interno tanto lavoro di tutti». 

Padiglione Italia, Prima Tesa_Delfino Sisto Legnani_ Padiglione Italia 18° Mostra Internazionale di Architettura La Biennale di Venezia Courtesy of ® Fosbury Architecture
Padiglione Italia, Prima Tesa_Delfino Sisto Legnani_ Padiglione Italia 18° Mostra Internazionale di Architettura La Biennale di Venezia Courtesy of ® Fosbury Architecture

Sì, avevo letto di questa collaborazione con Incompiuto la nascita di uno stile, con cui avevate mappato tutti i progetti e le architetture pubbliche rimaste incompiute in Italia e avevate vinto anche la Menzione per il Compasso d’oro 

AB: «Si, devo dire insieme ad Alterazioni video, che è un altro collettivo di artisti che dopo il Gabibbo praticamente hanno ridato vita al fenomeno, anche se il Gabibbo è il più grande esperto sul tema. Ma mentre Striscia la notizia lo ha sempre messo su un piano di denuncia, Alterazioni video sono stati i primi a dire che questa è anche una risorsa, è lo spazio pubblico che abbiamo costruito negli ultimi settant’anni, dal secondo dopoguerra ad oggi, siamo i migliori a farlo perché solo in Italia abbiamo una tale quantità di opere incompiute. Anche questo è un progetto quasi decennale, quando lavoriamo su un’opera incompiuta cerchiamo sempre di ribaltare il punto di vista da spreco a risorsa. Per Biennale uno dei 9 progetti che abbiamo portato è la riattivazione di un’opera pubblica incompiuta. Eravamo molto emozionati quando è arrivata la PEC dalla Asl con cui ci davano in comodato d’uso un’opera incompiuta, per noi è stato un miracolo. La zona è a Ripa Teatina vicino a Chieti in Abruzzo, un piccolo paesino che ha dato i natali ai genitori di Rocky marciano e per loro HPO, https://h-p-o.eu/  che è un collettivo progettistico di Ferrara, ha proprio fatto un progetto di paesaggio intorno all’opera, per farla diventare un parco pubblico».  

Parlando di Biennale qual è l’idea che c’è dietro questo Padiglione Italia che avete progettato, e come mai secondo te avete vinto voi? 

AB: «Credo che il progetto sia stato selezionato come vincitore perché è un progetto che attiva 9 interventi concreti sul territorio, va oltre il padiglione stesso. Abbiamo interpretato il padiglione proprio come un’occasione per promuovere dei progetti che si sono attivati nei mesi prima sparsi per l’Italia e che avranno una vita oltre il padiglione, come progetto esteso. Abbiamo selezionato ovviamente 9 territori rappresentativi di condizione di fragilità o transazione o trasformazione. L’Italia è tutta fragile, ma abbiamo cercato di evidenziare luoghi che non stanno quotidianamente sotto i riflettori, lontani dalle grandi città. Ci sono Taranto e Trieste agli opposti, abbiamo lavorato a Librino, che è periferia disagiata di Catania, siamo stati a Ripa Teatina, appunto, nella piana tra Prato, Pistoia e Firenze e poi siamo stati a Cabras, che è un paesino in Sardegna nel Sinis molto, molto carino e poi Belmonte Calabro altro esempio molto interessante».

Padiglione Italia Seconda Tesa Mostra Internazionale di Architettura La Biennale di Venezia Courtesy of ® Fosbury Architecture
Padiglione Italia Seconda Tesa Mostra Internazionale di Architettura La Biennale di Venezia Courtesy of ® Fosbury Architecture

E all’interno del padiglione cosa vedranno i visitatori? 

AB: «Abbiamo utilizzato solo una Tesa delle due, la prima è completamente vuota, un po’ per rendere evidente il fatto che abbiamo ridotto il budget, investendo parte dei soldi nei singoli progetti, e soprattutto perché volevamo magnificare per una volta uno spazio che ha una qualità in sé, con un pavimento incredibile, che porta traccia della produzione, della sua storia e che quindi rimane solo spazio vuoto.

Nella seconda Tesa, invece, abbiamo organizzato le installazioni, l’Italia appunto da est ovest, quindi per la prima volta Trieste e Taranto si toccano. E lì c’è una riproduzione sintetica di quello che è successo nei territori. E nei lati corti della Tesa abbiamo invece commissionato da Alterazioni video in collaborazione con Giga Design Studio un video che mischiasse, attraverso un complessissimo sistema algoritmico che pesca dai testi che sono stati realizzati per il catalogo, parole che attivano dei video con tutto il girato che abbiamo fatto realizzare durante i mesi di attivazione dei progetti».  

A cosa state lavorando ora? 

«Biennale ci ha assorbito un anno intero ci abbiamo lavorato in cinque più altri due ragazzi che lavorano con noi quasi a tempo pieno, è stato molto intenso, perché oltre a curare la mostra abbiamo curato tutte le relazioni per attivare i progetti, che a volte sono partiti da zero. Ora stiamo lavorando al riuso di un edificio militare con una vocazione pubblica e speriamo che vada in porto, per scaramanzia non diciamo dov’è…»  

The Labyrinth Terraforma Photo ® Achille Mauri
The Labyrinth Terraforma Photo ® Achille Mauri

Passando invece ai materiali, cosa preferite e come li scegliete?  

(Ci ha raggiunto nel frattempo Giacomo Ardesio) 
GA: «È necessario ragionare sempre sulla scelta dei materiali, lo abbiamo fatto anche per la Biennale, nel senso che ci siamo circondati di partner che potessero pensare alla seconda vita dell’allestimento. Cerchiamo spesso materiali industriali o poveri, anche per un discorso di economia. Per esempio, per il progetto di una mostra monografica a Vienna, abbiamo riutilizzato della pelliccia che veniva dalla sfilata di Prada della stagione precedente, mentre sull’architettura il ragionamento è sempre sull’impatto. Lavorare su una nuova costruzione, permette di avere un’ampia scelta di materiali e tecnologie, mentre lavorare su un progetto di riuso è più complesso, perché è necessario confrontarsi con qualcosa di preesistente. Stiamo quindi cercando di ragionare sulla performance dell’edificio, per esempio utilizzando delle classiche serre alla “Lacaton & Vassal” per controllare il clima oppure ragionare sul riscaldamento all’interno degli edifici. Sono delle cose imprescindibili per chi vuole progettare oggi e sono convinto che, anche a livello di didattica, sia molto cambiato rispetto a quando studiavamo noi e ci sia una maggiore attenzione e sensibilità verso i temi del riuso e del consumo di suolo».

Vi ricordate ancora il vostro primo progetto? 

AB «Sì, era un progetto per la riqualificazione di un’area della città di Porto dove abbiamo vinto un terzo posto. Avevamo proposto una strategia di rigenerazione pragmatica per far tornare la vita nel quartiere con una visione urbana estremamente pragmatica. Ai tempi la zona, che era molto centrale a ovest del centro storico, registrava un 30% abbondante di edifici abbandonati con le classiche villette a tre piani in disuso. Oggi invece è cambiata radicalmente, grazie a una politica che ha spinto a riattivare quasi tutti gli edifici abbandonati». 

Quali sono per voi gli aspetti imprescindibili quando pensate alla riqualificazione di un’area? 

«Lavoriamo sempre a cavallo tra il pragmatismo e la poesia. Cerchiamo di essere molto concreti, diciamo abbastanza disincantati anche quando ragioniamo sia di architettura, sia di strategie per attivarla. Nel caso di Porto partivamo da una presa di coscienza del fatto che ristrutturare un edificio comporta grandissimi investimenti, quindi suggerivamo una strategia a cavallo tra il pubblico e privato, in quel caso una strategia lunga perché purtroppo troppo spesso ci si concentra e si immaginano progetti a 20 anni che però dovrebbero risolvere i problemi di domani e quindi c’è questa discrasia tra i tempi che ci si dà».  

Lecture dei Fosbury a inaugurazione Milano Arch Week - 7 giugno 2023
Lecture dei Fosbury a inaugurazione Milano Arch Week – 7 giugno 2023

E questa sera cosa raccontate agli studenti che verranno? 

AB: «Stasera facciamo vedere Biennale, abbiamo raccolto molto materiale sui 9 progetti attivati nei territori e che ora stanno vivendo la loro vita. Abbiamo tantissimo materiale video, fotografie realizzate da 9 fotografi eccezionali under 40 nei territori prima degli interventi e abbiamo registrato tutto il making of.Quindi faremo vedere un sacco di belle immagini di cosa è successo quasi una controparte immersiva del padiglione, proviamo a portare altrove i ragazzi oltre Venezia. 

GA: «Credo sia una presentazione molto utile anche per noi, perché non abbiamo avuto tanto modo di poter spiegare i progetti locali, perché quello che si vede nel padiglione sono soprattutto le installazioni. Tanti visitatori si sono fermati al livello appunto dell’installazione, senza poi andare a guardare perché abbiamo deciso di utilizzare asset diversi per comunicare cose diverse: il catalogo, il sito, lo spazio. Il catalogo per parlare delle premesse dei progetti, il sito sui progetti locali, mentre nello spazio è rappresentato il processo, volevamo rendere un’idea diversa, anche perché il colpo d’occhio all’interno del padiglione fosse più immediato, non didascalico. L’occasione di questa sera è molto utile per far vedere che esiste tutto un padiglione altrove». 

Emozionati di tornare in questa veste al vostro Politecnico? 

Alessandro e Giacomo: «Ci torniamo pochissimo noi due in realtà, mentre altri due nostri colleghi sono dottorandi qui. Per noi il Patio era proprio “Il Posto” un luogo che raccontiamo anche in giro ai colleghi europei come la piazza pubblica più bella di Milano. Perché siamo affezionati, però lo è davvero, è potente, fresco. Anche la Biblioteca non era così accessibile come è ora. E anche i primi due anni di lavoro avevamo l’ufficio qua vicino non avevamo abbastanza spazio e allora venivamo qui a fare i modellini e a bombolettare…»   

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