Camillo Boito tra modernità e storia

Per chi fa parte della comunità del Politecnico di Milano, Camillo Boito rappresenta la storia dei nostri fondatori, quelli a cui affidiamo il compito di definire le radici della tradizione milanese e lombarda, che oggi portiamo con orgoglio nel confronto con la nostra dimensione internazionale. Per questo vogliamo raccontare su Frontiere la sua storia e l’influsso che ha avuto sul nostro ateneo e sull’architettura italiana.

Camillo Boito nasce a Roma nel 1836. Segue i corsi dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, tra cui quello di Pietro Selvatico, fondamentale per la sua formazione. Da lui, nel 1856, è chiamato come professore aggiunto alla cattedra di architettura. A fine anno viaggia in Toscana e a Roma per dedicarsi allo studio dell’arte cosmatesca e dei monumenti del gotico. Ritornato a Venezia nel 1859, raggiunge ben presto il fratello Arrigo a Milano, dove, nel 1860, assume la cattedra di architettura all’Accademia di Brera, diventando uno dei maggiori promotori del rinnovamento della cultura architettonica italiana. Nello stesso periodo diventa presidente dell’Accademia, carica che mantiene sino alla morte. A Brera, fra gli altri, sarebbero stati suoi allievi Luca Beltrami, Luigi Broggi, Gaetano Moretti e Giuseppe Sommaruga.

Al Politecnico di Milano

Quando, nel 1863, Francesco Brioschi inaugura il primo anno accademico del Politecnico, l’istituto è diviso in due sezioni: una per gli studi in ingegneria civile e l’altra per l’ingegneria industriale. Ma solo due anni dopo, nel 1865, una terza sezione è aggiunta alle prime due: quella degli architetti.

Il regista dell’operazione, sostenuta da Brioschi, è proprio Camillo Boito, allora non ancora trentenne. La sua sfida, all’avanguardia in Italia e in Europa, testimonia al meglio lo slancio progettuale caratteristico dello “spirito politecnico”: integrare i percorsi artistici dell’Accademia e gli indirizzi scientifici dell’Istituto tecnico superiore, con l’obiettivo di preparare una figura professionale in grado di rispondere efficacemente alle nuove necessità nel settore delle costruzioni.

Boito diventa docente del nostro ateneo nel 1865, con la cattedra in Storia dell’architettura e rilievi e restauri di edifici; dal 1867 insegna stili classici e del medioevo, dal 1877 al 1908 architettura. Dirige la Facoltà, oggi Scuola di architettura del Politecnico per oltre quarant’anni, dalla fondazione ai primi del Novecento, e tra i suoi allievi possiamo citare numerosi artefici della Milano moderna.

L’attività pratica, di progettazione e di intervento.

Boito architetto sostiene con coerenza il bisogno di abbandonare l’eclettismo per coltivare un nuovo stile italiano, in cui la modernità si sposi con la tradizione, intesa nel senso inteso da Gustav Mahler: “Custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. Per Boito il passato è un bisogno dell’anima: perché un’architettura sia monumento di un’età e di un popolo bisogna che si annodi intimamente al passato. Il carattere nazionale viene dal carattere storico, oltre che dal carattere naturale. Per questo trova l’essenza della “lingua” dell’architettura italiana in quella lombarda e nelle maniere municipali del Trecento, per lui profondamente legate alla storia del nostro Paese.

Al 1861 risale il suo primo intervento: il restauro della Pusterla di Porta Ticinese. La porta ad arcata unica, eretta nel 1171 e fiancheggiata da due torri cui erano state addossate le case, è liberata e trasformata mediante l’apertura, per il passaggio pedonale, di due fornici laterali archiacuti alla base delle torri. La scelta rivela una completa aderenza all’immagine ancora romantica del medioevo.

A Gallarate, nel 1865, costruisce nel nuovo cimitero le cappelle di recinzione e il sepolcro Ponti, improntati alla sua caratteristica sincerità costruttiva. Nel 1869, sempre per Gallarate, prepara il progetto dell’ospedale civico (finito di costruire nel 1874), che rivela una raggiunta maturità e nel quale appare evidente la ricerca di un rinnovamento linguistico e la tendenza a trarre da elementi strutturali una ragione di espressione estetica.

Nel 1872 vince il concorso per il restauro del palazzo provinciale di Treviso, ma il suo progetto non viene eseguito. Fra il 1873 e il 1880 esegue a Padova tre opere d’impegno: il palazzo delle Debite (1873-74); la sistemazione del piazzale, l’edificio d’ingresso e lo scalone del Museo civico (1879); le scuole elementari alla Reggia Carrarese (1880). Solo quest’ultimo fabbricato, forse perché libero da vincolanti situazioni ambientali, risulta più vicino alle sue idee innovatrici.

Lungo e meditato è lo sforzo di rilettura per la ricomposizione dell’altare di Donatello nella basilica di Sant’Antonio a Padova. Sebbene sia convinto di aver recuperato alle sculture di Donatello la collocazione originaria, la critica posteriore avrebbe chiarito che aveva inserito sculture non facenti parte originariamente dell’altare, e anche che, per una lettura errata delle fonti, aveva completamente ignorato il problema della strutturazione architettonica donatelliana dell’altare. Sempre per la basilica del Santo disegna, nel 1895, le porte bronzee.

Le scuole elementari di via Galvani a Milano

Le scuole elementari di via Galvani a Milano

Le scuole elementari di via Galvani a Milano, del 1888, segnano uno sviluppo e un approfondimento dei temi funzionali e distributivi che appaiono giunti a definizioni di indubbia chiarezza. L’edificio esalta i caratteri costanti di una periferia perennemente indeterminata, tuttavia capace di assorbire e resistere a violente trasformazioni urbane con una propria identità, dai primi nuclei industriali e agli edifici per l’assistenza e l’istruzione, agli stravolgimenti ingenerati dalla grande fabbrica della Stazione Centrale, fino alle moderne densità a torre del centro direzionale.

La dimensione urbana di questo edificio esalta l’apparente semplicità dello schema distributivo, con il gioco dei volumi allineati lungo il fronte stradale, in un grande volume, ma ancora conforme alle misure caratteristiche del tessuto milanese. Il corpo lungo delle aule è spezzato ritmicamente dai camerini di servizio, con il corpo centrale della palestra e delle aule speciali, le testate di ingresso con i corpi scala e altre aule speciali. All’interno, i corpi scala si aprono come spazi vuoti intermedi, consentendo nel suo percorso prospettive multiple dei lunghissimi piani che dividono i livelli dei corridoi.

Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi

Casa di riposo Giuseppe Verdi. Credit: Paolobon140 su licenza CC BY-SA 3.0

L’ultima opera architettonica di Boito è la Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi a Milano, del 1899. Nel trattamento delle superfici murarie e delle decorazioni si possono avvertire echi di motivi preraffaelliti ed una misurata adesione al floreale nell’uso di materiali naturali e nella libera combinazione di memorie stilistiche di epoche diverse.

In quest’ultimo edificio viene rappresentato uno “scatto” planimetrico e distributivo assolutamente nuovo. Se il primo progetto segue un tracciato geometrico pur elaborato, ma conosciuto nella sua genesi anche simbolica, il secondo progetto procede per logiche quasi dissonanti, antiromantiche, per scarti volumetrici, negli angoli, nei fianchi, nel corpo allungato, in una percezione perimetrale accelerata. L’impianto è generato a partire da un’iniziale simmetria, poi cinematicamente distrutta dalla visione d’angolo sempre spostata di periferia continua, in costruzione, in una nuova città.

Questo carattere stereometrico prelude significativamente alle futuriste combinazioni spaziali che lo introducono già nel Novecento, slancio che Boito non riesce più a trattenere, neanche rispetto all’impalcatura scenografica con cui si sente di dover rivestire la facciata, quasi come un omaggio alle scenografie e alle ambientazioni romantiche – il clima shakespeariano trascritto dal fratello Arrigo per i libretti di Verdi – forse ben al di là delle necessità, del mandato e del gusto intimamente verdiano.

Boito narratore

Non si può fare a meno di menzionare il Camillo Boito scrittore della Scapigliatura lombarda, di cui restano due volumi di racconti: Storielle vane (1876) e Senso. Nuove storielle vane (1883). Molti di noi lo conoscono indirettamente in questa veste, poiché, come è noto, Luchino Visconti trasse dal racconto eponimo della seconda raccolta un film che accentua l’intimo, amaro decadentismo della sua narrativa.

Tra le righe dei suoi noti racconti, più o meno esplicitamente, notiamo una tensione che non si spiegherebbe altrimenti se non a partire da una formazione di architetto e anzi, in grado di spiegare, quasi in una sorta di psicologia del transfer, alcuni aspetti centrali della sua opera architettonica.

Nonostante il successo attestato dalle numerose edizioni, la sua fortuna critica fu stentata e tarda.

Boito morì a Milano nel 1914.

L’eredità di Boito

Camillo Boito rimane nella memoria come un sacerdote dell’innovazione e allo stesso tempo un difensore della continuità tra la storia del nostro paese e l’architettura, che è chiamata ad esprimere in ogni fase del suo sviluppo lo spirito del proprio tempo, ma anche le sue profonde radici. Era un vero intellettuale, in cui l’attività di architetto non era fine a sé stessa, ma un aspetto importante di una battaglia politica, filosofica, letteraria, combattuta con una fede costante e paziente per far sì che una nazione appena creata diventasse una parte d’Europa all’avanguardia nel campo della cultura e dell’arte. Voleva dare all’architettura un ruolo cosciente del civile.

Dentro all’Accademia, Boito si è battuto per l’invenzione di una moderna metodologia del restauro, per l’adesione alle problematiche “industriali” della produzione artistica e per un rinnovamento espressivo dell’architettura più legato alla materia costruita, “romanticamente” intesa nel recupero della tecnica muraria del Romanico, quasi dimenticando il ferro, materiale troppo coinvolto nell’ingegneria moderna.

Dentro il Politecnico, Boito ha cercato di rinsaldare una nuova cultura fedele alla tradizione architettonica (classica e romantica) alla quale ritiene oramai indispensabili l’apporto delle conoscenze tecniche e soprattutto necessaria una disciplina razionale aperta alle problematiche della nuova città, colte dall’ingegneria “civile”, cercando di fissare nuovi compiti dell’architettura, rigenerata negli stilemi municipalisti neo-medievali come caratteri della città italiana, contro una delegittimazione latente e continua, inserita sotto le vuote decorazioni dell’architettura eclettica e classicista corrente, di maniera e di facciata.

Nella cerimonia di congedo dall’insegnamento, tenuta il 21 marzo 1909, il successore di Brioschi, Giuseppe Colombo, celebra la brillante carriera di Camillo Boito sottolineando la “sua duplice manifestazione di scrittore e di artista, pari a quei meravigliosi artisti del Rinascimento che maneggiavano altrettanto facilmente la matita o la stecca o il pennello o la penna”. E ancora, leggiamo della “sua eloquenza grandiosa e pittoresca, così elegante e veramente classica nella forma e profonda nei concetti, aiutata dalla aitanza della persona, dalla sonorità della voce e dalla larghezza del gesto”. Infine, per quanto riguarda l’esercizio dell’architettura, Colombo cita “una dote ancor più rara, i suoi preventivi erano esatti e non sorpassati dai consuntivi”.

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