Satelliti interplanetari: la missione di Alessandra Mannocchi

Alessandra Mannocchi ha 26 anni e viene da Cossignano, un piccolo paesino di soli 969 abitanti sperduto tra le colline marchigiane. Si è trasferita a Milano nel 2015 per studiare al Politecnico Space Engineering e ha frequentando anche l’Alta Scuola Politecnica. Dal 2021 lavora al DART Lab dove ha iniziato come assegnista di ricerca lavorando ad IMPRESA, un progetto nato dalla collaborazione fra il Politecnico di Milano e la Marina Militare Italiana. A novembre 2021 ha iniziato invece il suo percorso da dottoranda, concentrandosi su un argomento più vicino alla sua tesi magistrale, scopriamo quale dalle sue parole.

Alessandra, come nasce la sua passione per la ricerca?

“Alla fine dell’orale della mia maturità nel 2015 dissi al presidente della commissione che mi sarebbe piaciuto fare ricerca. All’epoca non avevo idea di cosa significasse davvero: non sapevo cosa fossero i paper, che “faccia” avesse un laboratorio, avevo solo una vaga idea del fatto che esistessero i congressi. Eppure vi aspiravo perché ho sempre avuto una curiosità vorace per ciò che non conoscevo e essere alla frontiera della conoscenza mi sembrava l’unico modo per sapere davvero perché “funziona così il mondo” e contemporaneamente dare libero sfogo alla mia creatività.

Ora che vi sono immersa posso darmi ragione solo in parte: la ricerca è sì indipendente, libera, e quindi adatta a me, ma la frontiera della conoscenza si rivela più colma di domande che di risposte e tutto ciò è, spesso, frustrante. Ho scoperto, a malincuore, che non si può conoscere in maniera definitiva”.

Alessandra Mannocchi
Alessandra Mannocchi
Perché Ingegneria Aerospaziale?

“Ho sempre avuto una propensione per le materie scientifiche: la matematica mi dà una rassicurante e familiare sensazione d’ordine mentre la fisica, che ho odiato a primo impatto perché approssimazione della realtà di cui non mi capacitavo, ho imparato ad amarla per il senso di incredulità con cui mi lasciava ogni volta che mi spiegava il mondo con regole semplici ma precise, quasi ovvie una volta apprese. Oltre a ciò, ho sempre avuto una spinta verticale verso lo spazio, le stelle, verso tutto ciò che è infinitamente grande e lontano, perché il non riuscire a concepirlo mi dà una sensazione di vertigine che dà senso a tutto quello che faccio, mi ridimensiona e mi dà da pensare allo stesso tempo. Ingegneria aerospaziale, ma ancor più Ingegneria spaziale è per me la possibilità di raggiungere quello spazio lontano e l’idea di essere capace di guidare satelliti attraverso la sua immensità mi appassiona”.

Lei fa parte del DART Lab, di cosa vi occupate?

“Noi del DART Lab lavoriamo tutti con unico obiettivo: portare la completa autonomia nella navigazione e nel controllo di satelliti interplanetari. Ad oggi si fa affidamento ad input da Terra, ma questi input sono una più che dispendiosa parte del prezzo totale delle missioni spaziali. Il nostro laboratorio fornisce una visione del loro futuro più democratica ed accessibile permettendo di abbattere i costi d’ingresso nello Spazio, con l’ottica di renderlo quindi accessibile anche ad entità di ricerca più piccole e non solo alle grandi agenzie governative come oggi. Il nostro laboratorio è nato da poco, ma si sta allargando rapidamente e gira attorno alla figura del Prof. Topputo, che per primo mi ha parlato della sua visione. Una visione che ho fatto mia dal momento in cui me ne ha parlato nel suo ufficio ormai quasi tre anni fa, innamorandomene: quella di una miriade di satelliti interplanetari in miniatura, i CubeSats, che in futuro navigheranno e si guideranno in piena autonomia nello spazio profondo, aprendo al nostro settore opportunità scientifiche oggi solo immaginate”.

DART Lab
Il DART Team
Che ricerca sta svolgendo al momento?

“La mia ricerca si focalizza sull’elaborare un algoritmo che permetta ai satelliti di calcolare la propria traiettoria a bordo, facendo affidamento solo sul loro computer di bordo e su eventuali librerie di dati pre-caricate. Attualmente il calcolo e ri-calcolo delle traiettorie viene fatto a terra da personale dedicato che lavora a ritmi serrati e con un inevitabile ritardo rispetto allo stato del satellite. Il mio algoritmo vorrebbe bypassare questo step. In particolare, il mio dottorato nasce da una proposta di collaborazione, vinta nel 2021, fra il Politecnico di Milano e l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) con lo scopo di progettare il primo esperimento di guida spaziale interplanetaria autonoma. L’idea è di portare l’algoritmo a bordo di M-ARGO, il primo CubeSat ideato dall’ESA per percorrere in maniera autonoma il suo viaggio fra la Terra e il suo asteroide target. La mia tesi di laurea magistrale ha riguardato proprio il calcolo delle particolari traiettorie di questo satellite, di cui il DART Lab si occupa da tempo”.

 Il satellite M-ARGO. (Credits to ESA)
 Il satellite M-ARGO. (Credits to ESA)
Quanto l’hanno aiutata i suoi studi per fare ricerca qui?

“Molto. Mi sono trasferita nel 2015 a Milano per studiare al Politecnico, dove ho conseguito con lode sia la mia laurea triennale in Ingegneria Aerospaziale, nel 2018, che quella magistrale in Space Engineering, nel 2020, in piena pandemia, con una tesi dal titolo “A Homotopic Direct Collocation Approach for Operational-Compliant Trajectories Design”. Nel corso dei miei studi magistrali ho preso parte anche al progetto Alta Scuola Politecnica, che mi ha permesso di ottenere una seconda laurea magistrale in Ingegneria Aerospaziale al Politecnico di Torino. Vorrei poter mentire, e dire che tutto questo è stato facile, ma semplicemente non è la verità. Ho sostenuto esami per i quali ho passato notti insonni per studiare e con nomi che alla me stessa di sette anni fa sarebbero parsi incomprensibili e pretenziosamente nerd. Ho sofferto in maniera indicibile esami come Fondamenti di Meccanica Strutturale o Dynamics and Control of Space Structures dell’ultimo anno. Ma, nonostante l’ansia esagerata, ho superato tutti quei terrificanti ed infiniti momenti d’attesa che separavano la fine delle lezioni e l’inizio della sessione, oppure che separavano la consegna di un esame e la pubblicazione del suo voto. Ma grazie agli esami ho conosciuto ciò che amo e ora spero di continuare a fare nei prossimi anni con la mia ricerca: programmare, ideare algoritmi di guida. Un bel passo avanti per chi, sette anni fa, nemmeno sapeva cosa fosse un codice o come funzionasse un satellite”.

Progetti, di ricerca, per il futuro?

“A febbraio 2023 partirò per l’Olanda per poter lavorare all’ESTEC, la sede a Noordwijk dell’ESA. Ancora non ho pienamente realizzato che avrò l’opportunità di accedere ai suoi laboratori con un cartellino col mio nome sopra. Ho sempre ammirato da lontano l’ESA senza credere di potervi effettivamente accedere. Ora invece potrò collaborare con chi è in questo settore da molto più tempo di me per poter dare vita al mio algoritmo. Non vedo l’ora”.

Come coniuga la vita lavorativa con quella personale?

“In generale non sento di dover suddividere la mia vita in questi due aspetti, in quanto sono la stessa persona che li vive entrambi, senza contraddizioni od opposizioni. Quello della ricerca è un bel settore per la libertà che concede, ma questo stesso aspetto può essere pericoloso, in quanto potenzialmente si può non staccare mai. A differenza di chi ha orari fissi, nessuno mi vieta di pensare al mio progetto la sera o nei weekend per puro interesse personale. Eppure, sento che è importante per il mio benessere mentale stabilire dei confini entro i quali dar spazio e giusta dimensione agli intoppi che posso incontrare nel corso della mia ricerca. Penso che ciò sia una giusta filosofia per ogni aspetto della vita, che non può essere reso totalizzante, ovvero non può diventare un focus dal quale risulti alla fine impossibile prendere le distanze, che prevarichi sul resto, e che castri la nostra creatività e possibilità di cambiare. Ho imparato quindi negli anni a coltivare tanti interessi: frequento in maniera accanita la palestra, quasi ogni giorno la mia sveglia è puntata alle 6/6.30 per poter andare a sollevare ghisa all’alba. Inoltre mi piace molto camminare, sia in città, quasi ogni sera mi perdo fra le strade di Milano con un podcast nelle orecchie, che in montagna, dove cerco di sfidare la mia resistenza ogni volta di più cercando di raggiungere una cima più alta, di percorrere una strada più in salita. Viaggio molto, pratico lo yoga e la meditazione, entrambe in maniera amatoriale. Le mie più grandi passioni però sono la lettura e la scrittura. Ho la casa invasa di libri, ovunque vada ne ho almeno uno con me, e ho un blog dove condivido le mie poesie. Non mi dispiacerebbe riuscire a pubblicarle un giorno, ma fino ad allora rimarranno segrete ad occhi indiscreti”.

Alessandra Mannocchi
È più difficile la ricerca per una donna secondo lei?

“Si ha la percezione che, soprattutto nel campo dell’ingegneria aerospaziale di cui io posso dare testimonianza diretta, sia ancora a prevalenza maschile. A partire dai miei corsi universitari la presenza femminile è stata sempre in netta minoranza, anche se le cose stanno lentamente cambiando. Personalmente sono cresciuta con l’assenza più assoluta di pregiudizi e con il totale sostegno dei miei familiari verso le mie scelte, e quindi non ho mai percepito la mia propensione verso il mondo scientifico come una differenza o un’anomalia, e tuttavia sono consapevole che è stato il mio particolare contesto a portarmi dove sono ora, un luogo inteso soprattutto a livello mentale. Ancora oggi lo stigma del lavoro di ingegnere come prettamente maschile è fortemente radicato: lo percepisco dallo stupore che evoca ogni volta il rivelare il mio lavoro a chi non mi conosce. Questo stesso stigma, oltre a crearmi fastidio, allontana il genere femminile dal campo, in un circolo fino ad ora vizioso: pensando che esso sia un mondo solo maschile, le ragazze non vi sono iniziate e quindi non nasce in maniera naturale in loro l’idea di entrarvi; non entrandovi, la rappresentazione femminile rimane esigua, facendo scarseggiare gli esempi.

Quindi in generale no, non è più difficile per una donna la ricerca nel mio campo in quanto tale, ma è invece più difficile immaginare una donna nella ricerca nel mio campo. Noto come negli ultimi anni siano cresciute in maniera esponenziale le iniziative indirizzate ad avere una maggior componente femminile. Le ritengo necessarie e tuttavia non eque: non vedo l’ora di vivere i tempi, verso i quali mi sembra ci stiamo muovendo, in cui queste iniziative non saranno più necessarie in quanto la ricerca e il lavoro in generale, verrà considerato su un livello prettamente professionale. Non vedo l’ora di essere semplicemente una persona che lavora e che il mio esser donna, uomo, o altro, non faccia più scalpore, perché non più rilevante”.

Quale è la sua più grande ambizione?

“Non ho specifiche ambizioni al momento, sono soddisfatta di ciò che ho. Mi auguro di continuare ad avere la possibilità di crescere come persona, di imparare, di immagazzinare più esperienze possibili, ad esempio vivendo per un po’ all’estero, ma non mi do obiettivi precisi: so che, data la mole di informazioni che sto recependo relativamente a questo campo, potrebbero cambiare da qui ad un anno. La mia più grande ambizione riguarderebbe il mio sviluppo personale, e sarebbe quella di diventare più matura, trovare un mio equilibrio, e semplicemente, essere serena”.

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