Intervista doppia a Jean-Pierre Bourguignon e Jan S. Hesthaven
Forse non tutti sanno che al Politecnico esiste il laboratorio MOX, sigla avveniristica che indica il laboratorio di Modeling and Scientific Computing nato presso il Dipartimento di Matematica nel 2002 con lo scopo di promuovere la ricerca nel campo della modellistica matematica e del calcolo scientifico, collaborare con partner esterni su progetti di ricerca finanziati e rafforzare la cooperazione con altri gruppi di ricerca dell’Ateneo. Diretto dal Professor Alfio Quarteroni, negli anni si è evoluto in una struttura complessa e dinamica, con un vivace scambio di personale di alta qualità, applicando i modelli di data science, modellistica, machine learning ai più diversi ambiti dalla salute all’ambiente, dalla geofisica ai processi industriali. Giunto al 20° compleanno, ha voluto festeggiare riunendo attorno a sé personalità del mondo matematico, partner, amici e collaboratori. In questa occasione abbiamo avuto la fortuna di fare due chiacchiere con due cervelloni della matematica: Jean-Pierre Bourguignon (IHES-France), che ha tenuto una lectio su The Unity of Mathematics Confronted with the Diversity of its Interactions, e Jan S. Hesthaven (EPFL-Switzerland), che ha parlato dei Trends in Reduced Order Modeling.
INCONTRO con Jean-Pierre Bourguignon
Da cosa è nata la passione per la matematica?
Quando ero uno studente, ancora prima del liceo, mi interessavano la letteratura e la filosofia, non proprio la matematica, anche se avevo dei buoni voti. Fino a quando non ho avuto un insegnante all’ultimo anno di liceo, che era un bravissimo matematico, ma un pessimo pedagogo. All’improvviso non capivo più nulla, ed è lì che c’è stata una svolta, volevo infatti sforzarmi di capire quello che spiegava e ho cominciato a studiare da solo. È stato davvero un momento di cambiamento, ho iniziato a fare altre letture e lavorando da solo avevo un vantaggio strategico sugli altri, tanto che inaspettatamente sono arrivato primo al concorso per le Grandes Écoles.
Il vero inizio della mia carriera è stato all’École polytechnique, dove alcuni dei professori erano mediocri, tanto che nel maggio del ’68 noi studenti ci organizzammo per sostituire i professori e fare lezioni da soli, decidendo di rinchiuderci lì dentro per un intero fine settimana. Anche i militari capirono che la situazione era grave, se degli studenti rinunciavano alle loro uscite serali per protestare contro un cattivo insegnamento.
D’altra parte, è stato molto formativo, perché ci organizzavamo autonomamente, nessun professore ci aiutava, leggevamo tutti i libri a disposizione in biblioteca, americani, russi, tedeschi, francesi per preparare i nostri corsi pirata. È in quei giorni che ho deciso che mi sarei dedicato alla ricerca. I corsi di matematica per fortuna erano ottimi.
E poi dove ha proseguito la sua ricerca?
Dopo, in effetti, la mia generazione è stata avvantaggiata rispetto alle generazioni successive; ci fu un periodo in Francia di espansione della ricerca. Io sono stato assunto al CNRS a 21 anni e poi ho fatto carriera molto giovane; forse sono uno dei dipendenti più longevi del CNRS. C’era una grande flessibilità, ho potuto trascorrere anni all’estero senza perdere il lavoro, e soprattutto, sono riuscito a diventare professore all’École polytechnique venendo distaccato per 6 anni. Poi direttore per 19 anni dell’Institut des Hautes Études Scientifiques, un anno negli Stati Uniti, un anno in Germania, 6 mesi in Giappone, di nuovo un anno negli Stati Uniti, e così via.
Ho ricevuto anche offerte per trasferirmi negli Stati Uniti, ma ho rifiutato ogni volta; ho preferito restare nel sistema francese grazie alla flessibilità che mi permetteva.
Sono rimasto all’Institut des Hautes Études Scientifiques: è una Fondazione e come direttore avevo la responsabilità di trovare fondi, donazioni su scala internazionale che però non influenzavano la nostra ricerca che rimaneva indipendente. Siamo stati in grado di farlo a livello internazionale, trovare denaro negli Stati Uniti, in Cina, in Giappone, ma anche in Francia.
Qual è il suo campo di ricerca?
Mi occupo di geometria differenziale, che ora è chiamata analisi globale all’interfaccia tra matematica e fisica teorica. Quindi mi interesso di relatività generale, fisica, ma sempre come matematico. Conosco la fisica teorica, ma non sono un fisico, sono un matematico, questo è il mio campo.
Qual è stato il momento più importante della sua carriera?
È difficile da dire, perché nella mia vita ho avuto diversi momenti. Il mio miglior risultato scientifico, ottenuto con un matematico americano Blaine Lawson, è quando appena prima del 1979 abbiamo risolto una congettura che i fisici teorici stavano cercando da tempo. È lo studio per dimostrare che le soluzioni stabili delle equazioni di Yang-Mills sulla sfera S4 sono ciò che chiamiamo soluzioni autoduali o antiautoduali, questa è l’affermazione matematica. La prima volta è sempre molto bella e dà tanta soddisfazione.
Un altro momento importante è stato quando abbiamo fatto la prima raccolta fondi per l’Istituto: ci eravamo posti l’obiettivo di trovare 3 milioni di euro e ne abbiamo trovati 5! Buono, no? Ma è stato un lavoro lungo, di squadra, che è durato 3 o 4 anni.
E poi un’altra cosa che mi è capitata e che non era prevista è stato diventare presidente del Consiglio Europeo della ricerca, dopo essere stato direttore dell’Institut des Hautes Études Scientifiques. Sono stato a Bruxelles sei anni. Poi, anche dopo aver finito il mio mandato, mi è stato chiesto di tornare, perché avevano bisogno di qualcuno che avesse capacità politiche e di gestione di bilancio. Sono stati momenti molto intensi, devi saper mediare fra i migliori scienziati d’Europa.
Cosa ne pensa del dottorato di ricerca?
In primo luogo, se desideri intraprendere la strada del dottorato non dovresti farlo per obbligo, ma per passione. Dopodiché, dipende un po’ dalle scelte personali e anche dalle possibilità.
Se ripenso alla mia esperienza, io ho superato la mia tesi di dottorato nel 1974 a 27 anni, ma avevo già pubblicato molti articoli, e la tesi era ancora piuttosto un potenziamento. Fino ai primi anni ’90 in Francia, quando stavi facendo una tesi di dottorato in matematica, quasi certamente significava che saresti rimasto all’80-90% nel mondo accademico, oggi non è più così, circa la metà delle persone dopo va nelle aziende o inizia una propria attività.
La situazione poi è diversa da paese a paese, più o meno facile; sto parlando dei matematici che cercano lavoro in un’azienda di buon livello. Da questo punto di vista la Francia è un po’ più lenta di altri paesi. Vedo in Germania, per esempio, che qualunque sia la formazione iniziale in matematica, le persone possono entrare nell’industria perché spesso gli industriali amano i matematici, perché hanno una formazione e una maturità che li aiuta a risolvere problemi e sono persone che sanno lavorare in squadra.
Chi pensa che la matematica non serva si sbaglia di grosso: gran parte dell’economia si basa sulle competenze matematiche. Tutte le aziende dicono di voler aumentare il loro personale con profili che abbiano competenze avanzate in matematica, che possono far crescere considerevolmente, comprese le aziende il cui settore specifico non è la matematica, aziende che si occupano di intelligenza artificiale, elaborazione dati, aziende chimiche, tutte vogliono che una percentuale significativa dei loro ingegneri siano persone che abbiano competenze avanzate in matematica.
Quindi, ritornando al dottorato, ritengo che le persone con elevate capacità matematiche saranno considerevolmente corteggiate. Tuttavia, come puoi immaginare, gli stipendi offerti dalle aziende per le persone qualificate non sono gli stessi di quelli offerti dal mondo accademico.
Quindi il timore è che nella prossima generazione mancheranno matematici accademici, perché in troppi avranno scelto per delle buone ragioni di entrare in azienda: non solo saranno pagati di più, ma avranno problemi interessanti da affrontare.
È un argomento davvero importante e pericoloso per la comunità scientifica e per quella matematica in particolare, soprattutto perché molte aziende hanno capito che devono fare transizioni estremamente veloci per affrontare le sfide dell’ambiente e della digitalizzazione. Naturalmente formeranno il loro personale per adattarsi meglio a queste esigenze, e avranno bisogno molto rapidamente di assumere persone con elevate capacità.
E in Italia?
In Italia c’è il grande problema dei giovani che se ne vanno, anche prima di concludere il dottorato. Il 15% farà il suo dottorato all’estero, è la percentuale più alta di tutti i paesi europei, e non sono certo i peggiori quelli che se ne vanno, anzi. Il secondo paese è l’Ungheria con l’8%, la Francia invece è al 3%. È un fenomeno da combattere. Significa anche che i giovani italiani hanno voglia di andare a vedere cosa sta succedendo altrove, il che è anche una cosa positiva. La vera sfida è riuscire a riportarli indietro. Se le persone tornano dopo tutto, allenarsi altrove è sempre un valore aggiunto, ma devi attirarli con migliori guadagni.
Lei ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della matematica su scala europea, non solo come direttore di un prestigioso istituto quale IHES, ma anche come primo presidente della European Mathematical Society e come Presidente dello European Research Council (ERC). Come valuta lo stato della ricerca europea in matematica, e dei suoi finanziamenti rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti? Quali ritiene saranno le prospettive future?
Non sono tanto gli Stati Uniti a preoccuparmi, quanto i paesi asiatici. Cina, Corea, Giappone, Singapore: è lì che le cose accadono davvero. E la Cina ha appena aumentato il sostegno alla ricerca di base del 7% all’anno. Se guardiamo anche agli articoli più citati, gli articoli che hanno più influenza, la Cina era al 2% nel 2000, ed è salita al 21% nel 2020: quindi non solo hanno investito in denaro, ma hanno migliorato incredibilmente e molto rapidamente anche la qualità della loro ricerca. La scorsa settimana ho tenuto una conferenza strettamente matematica e sono andato a consultare gli ultimi articoli usciti: ebbene, i 2/3 degli articoli che ho consultato erano scritti da cinesi! E ovviamente da giovani cinesi.
È qui la concorrenza, stessa cosa per la Corea. Sono nel Consiglio Scientifico dell’Istituto coreano chiamato IBS (Institute for Basic Science), che è nato come una sfida del governo coreano, perché la Corea non aveva una tradizione di ricerca di base. Così hanno investito in questo istituto circa $ 10 miliardi in 10 anni. Ora i 10 anni sono passati, hanno attirato ricercatori di ottimo livello da tutto il mondo e la gestione è molto professionale.
Il Giappone sta attraversando una contrazione della sua popolazione con le conseguenti contrazioni di bilancio che la accompagnano e indeboliscono, ma è tornato comunque in espansione. Sono pronti a investire cifre come 100 milioni di euro che per noi sono inimmaginabili.
È qui che l’Europa non sta facendo la cosa giusta, sono troppi i Paesi che non stanno investendo abbastanza in ricerca e questo è un errore strategico per le future generazioni, anche se alla fine della mia lezione di questa mattina, due giovani sono venuti a dirmi esattamente che ha senso fare un dottorato e cercare di rimanere nel mondo accademico.
INCONTRO con Jan S. Hesthaven
Come hai iniziato la sua carriera? Perché ha scelto la matematica?
Ho studiato in Danimarca all’Università Tecnica (la DTU, Technical University of Denmark), che è molto simile al Politecnico di Milano. Non avevo intenzione di studiare matematica, ma la matematica è sempre stata molto facile per me. Quando ero studente ho fatto uno stage nel Regno Unito e lì in un laboratorio di ricerca ho scoperto cose molto interessanti e stimolanti. Quando sono tornato ho pensato di aver trovato quello che mi piaceva e ho continuato.
Cosa le piaceva?
Mi piaceva analisi e capire come costruire modelli computazionali del mondo; mi piaceva ed ero bravo. È diventato un hobby. Non era un lavoro per me. Poi dopo aver finito gli studi è stato naturale fare un dottorato e seguire quella traccia. Quindi non ho mai fatto nient’altro, ho seguito la mia passione.
E quali sono le aree della sua ricerca?
Finiti i miei studi, mi sono trasferito negli Stati Uniti e sono stato per 18 anni alla Brown University [a Providence, nel Rhode Island. NdR]. Ero in un gruppo che si è concentrato sulla costruzione di modelli ottimali per la collaborazione con l’industria e la difesa e ho lavorato molto ad esempio sulla comprensione delle applicazioni radar per gli aerei e sulla modellazione dei buchi neri, su cosa succede quando si scontrano. Questo era prima che le onde gravitazionali venissero scoperte.
In genere lavoro in gruppo, non da solo, ma con persone che hanno problemi interessanti da risolvere.
E poi uso le mie skills per aiutarli a rispondere alle loro domande. Quando il progetto è finito passo a qualcos’altro. Quindi ho un insieme di abilità particolari che applico, e che mi hanno permesso di lavorare con le persone più diverse: fisici, chimici, economisti, ingegneri. In definitiva, la mia area di competenza è lo sviluppo di modelli computazionali, cercando di assicurarmi che mi dicano effettivamente qualcosa di utile.
E ricorda uno o più momenti speciali della sua carriera?
Come in qualsiasi carriera di ricercatore, penso che ci siano vari momenti in cui ho detto “Eureka!”. Per esempio, quando ero studente e stavo lavorando alla mia tesi di Master ho avuto quella prima esperienza in cui dici: “Ok, in questo momento io so qualcosa che nessun altro sa”. Che è molto stimolante, e penso che sia in qualche modo ciò che spinge molti di noi a lavorare su problemi anche molto difficili. Perché a un certo punto vedi che il problema si risolve da solo davanti ai tuoi occhi e ti rendi conto che l’hai fatto proprio tu! Non accade spesso, è un processo molto lungo, ho lavorato su problemi per anni e poi improvvisamente la soluzione si è svelata.
Un esempio?
Forse il più semplice è quello che ho fatto da studente, quando studiavo alcuni fenomeni nell’atmosfera. A volte, anche in Europa, abbiamo un sistema meteorologico, che è molto, molto stabile per molto tempo. E questo succede perché ci sono delle strutture nell’atmosfera che sono molto, molto stabili. Non era chiaro il perché, e questo è stato l’argomento della mia tesi di laurea: riuscire a spiegare perché avviene questo fenomeno.
Secondo lei, il dottorato di ricerca (e in particolare per le “scienze dure”, come la matematica), rappresenta il terzo livello di formazione o il primo passo nella ricerca? E soprattutto, la scelta giusta solo per chi vuole restare in accademia, oppure una scelta valorizzante per tutti?
Penso che sia più di una scelta arricchente. La matematica per me è un modo di pensare. È come pensi a un problema, come lo formuli, come è la tua mente. Ti alleni a essere molto disciplinato sul problema che stai cercando di risolvere, e questa è un’abilità che è utile avere ben oltre il mondo accademico. Quando insegnavo al primo anno la matematica ai non matematici, era una matematica molto rigorosa, e gli studenti venivano da me a chiedermi: “Perché devo imparare tutto questo se non la userò mai?”. E la mia risposta era sempre che la matematica è prima di tutto un modo di pensare, che deve essere molto logico, e allo stesso tempo la matematica riguarda il sapere di sapere.
La matematica ha qualcosa che nessun’altra scienza ha: la prova. Che è qualcosa di molto speciale nell’allenarti a quella mentalità, è molto preziosa, anche se nel corso della tua vita, la maggior parte di noi, me compreso, si allontana dalla dimostrazione perché il mondo fuori dalle finestre è troppo complicato.
Ma questo non significa che non dovresti usare questa abilità una volta che l’hai acquisita come matematico, come studente di dottorato. È un bene prezioso che anche l’industria riconosce, l’industria che ha bisogno di studenti PhD, ovviamente in campo finanziario, delle assicurazioni, dell’industria high tech, dell’ingegneria. È alla ricerca di persone che sappiano pensare in astratto, per passare a un livello successivo e non rimanere bloccati nel loro modo tradizionale di fare le cose.
Quindi dico sempre ai miei studenti che non è così importante quale problema risolvi come studente di PhD, non si tratta di risolvere un problema, si tratta di sapere come risolverli. È questa la chiave, ed è ovviamente qualcosa che puoi portare con te. Quindi lo fai lavorando a fondo su piccoli problemi e speri che alla fine del dottorato tu ti renda conto di aver fatto qualcosa che nessuno ha mai fatto prima. Per alcuni questo è un processo difficile, che può essere frustrante, ma quando riescono, ecco che hanno acquisito la consapevolezza di potercela fare, perché si sono allenati e potranno risolvere altri problemi, acquisendo fiducia in sé stessi.
Lei, oltre a essere uno scienziato di fama mondiale, è vicepresidente dell’EPFL. Con l’EPFL il Politecnico ha un accordo di doppio master nell’indirizzo Computational Science and Engineering. Come valuta la preparazione degli studenti del Politecnico che vengono a Losanna per questo percorso di studi?
Beh, penso che la migliore testimonianza sia che la maggior parte dei miei studenti di dottorato proviene da quel programma: sono tutti molto bravi, preparati e molto richiesti all’estero.
E che consiglio darebbe agli studenti: è meglio andare all’estero o ritornare?
Ho lasciato la Danimarca nel ‘95 e non ci sono più tornato in modo permanente. Stare all’estero penso che sia estremamente arricchente. Inoltre, la scienza, la matematica, sono internazionali, le trovi ovunque, sono un linguaggio universale. È fondamentalmente una lingua che abbiamo addestrato, su cui ci siamo allenati molti anni per impararla bene. È un linguaggio che ci permette di discutere in un modo molto specifico, una grammatica globale. Siamo tutti d’accordo che questa è la lingua, quindi puoi andare ovunque ed è sempre la stessa.
Riguardo all’andare all’estero, penso che chiunque dovrebbe provare questa esperienza, anche se potrebbe non essere da tutti vivere fuori per molti anni. Anche io non avevo programmato di andar via dalla Danimarca, ma sono andato negli Stati Uniti per fare un post dottorato e sono rimasto lì 18 anni, per poi trasferirmi in Svizzera… È successo, è la vita. Ma penso che ognuno debba provare. Se aspiri a una carriera accademica devi essere disposto a farlo, e questo può essere difficile per molti, lo capisco. Devi essere disposto a viaggiare, a muoverti in altri contesti, con persone diverse, ma è un’opportunità che ti permette anche di mantenere la tua indipendenza. L’università celebra l’individuo, non celebra il gruppo. Non sono sicuro che sia giusto, ma è così, e quindi devi essere in grado di dimostrare che puoi distinguerti in ambienti diversi. E poi ovviamente ricevere stimoli diversi è arricchente.