La leggenda Colnago: il ciclismo come arte e ingegno

Ernesto Colnago è una figura leggendaria nel mondo del ciclismo, uno dei più innovativi e influenti costruttori di biciclette da corsa.  Protagonista nella progettazione, nella costruzione e nel collaudo di telai per biciclette da corsa e da strada, ha dato a questo settore un incommensurabile contributo.

Per questo il Politecnico di Milano ha deciso di conferirgli la Laurea Honoris Causa in Mechanical Engineering – Ingegneria Meccanica. Lo scorso 8 maggio, a 93 anni, Colnago ha ricevuto l’ultimo tra i suoi moltissimi riconoscimenti alla carriera, diventando l’Ingegner Colnago.

Gaia Meroni © Lab Immagine Design Polimi 2025 per Frontiere

Noi di Frontiere siamo andati a trovarlo nel museo che ha realizzato a Cambiago, in provincia di Milano. “La Collezione” custodisce 80 opere di ingegno a due ruote, 400 tra fotografie e installazioni e 80 maglie da competizione, in uno spazio di 1000mq. Abbiamo avuto l’onore, il piacere e l’emozione di conversare con lui.

Ingegnere, come ha inizio la sua storia?

Da quando avevo 13 anni e ho “falsificato” di un anno il documento per andare a lavorare.

Le spiego: eravamo figli di contadini, davo una mano durante il giorno, ho fatto prima e seconda media da privatista. Poi un giorno ho detto a mio papà che non era il mio mestiere. Così, ho cercato un posto in paese dove riparassero i trattori, le biciclette, tutte cose che andavano saldate. In effetti sono andato a lavorare per imparare un po’ a saldare.

Come la prese suo padre?

Mio papà mi disse: «Fa quello che vuoi».

Allora sono andato a lavorare, ma per tenermi lì volevano due chili di farina gialla alla settimana perché non potevano mettermi a libri [mettermi in regola NdR]. È così, però, che ho imparato a vivere.

Un saldatore bravo a lavorare mi dice: «Qui alla Gloria non si scherza!».
«Per amor di Dio, cosa devo fare?». Metto su un telaio, lui salda due pezzi, e nel tempo che lui ne salda uno, io ne metto su un altro. Facevo il “pinella” [l’apprendista NdR] insomma. Il giorno dopo torno a casa non troppo contento…

Qualche aneddoto di quel periodo?

Era il 25 novembre, nevicava; nell’azienda non c’era il riscaldamento, e in più c’erano aperte le finestre. Io ho solo 13 anni, mi passa dietro un ragazzo giovane appena preso, però maggiore di me di qualche anno, e mi dà una pedata nel sedere.

Io lo rincorro come dire: «Adesso te la do anche io», ma lui è più veloce di me. E sa perché? Perché lui sarebbe diventato campione olimpionico di pugilato a Londra nel 1948: si chiamava Ernesto Formenti. Capito? Ecco perché era più veloce di me!

© Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

E la passione per il ciclismo?

Sono andato al montaggio, e là ho trovato pane per i miei denti. L’amore è veramente scoppiato. Alla Gloria avevano qualche corridore dilettante e io ero curioso, perché anche a me piaceva correre.

Dopo qualche anno, ho cominciato a vincere qualche corsa. Ho fatto da dilettante la Milano-Busseto e davanti alla casa di Giuseppe Verdi sono caduto. Sono arrivato quarto o quinto, ma dopo il traguardo sono caduto sopra un Guzzino e ho fratturato il perone destro. Mi hanno portato a casa e poi all’ospedale, dove mi hanno messo un asse sotto alla gamba, una benda e del gesso, e mi hanno detto di restare così per 45 giorni, anche 60.

E poi cosa è successo?

Cosa può fare chiuso in casa un ragazzo di 19 anni messo così? Ho chiamato il mio amico Luigi che lavorava con me, per far chiedere al signor Focesi, il titolare, se mi potesse mandare a casa un po’ di ruote da montare, in modo che io con la gamba dritta potessi montare le ruote e centrarle.

Mi mandano a casa il materiale e mio papà si spaventa: «Dove li metti quei cerchi lì?».
Dissi: «Papà abbi pazienza per due settimane, e poi vado a lavorare».

In cinque giorni ho guadagnato tanto quanto un mese. Ho capito che c’era qualcosa in me, qualcosa che stavo facendo con amore e con tanta soddisfazione.

Ma arriva il secondo carico e mio papà mi dice: «O andiamo fuori noi o vai fuori tu!». E sono andato fuori io. Era il 1954.

E’ così che nasce la Colnago?

Mi sono trovato uno spazio sulla via centrale di Cambiago, tutta sterrata: immaginatevi dopo la guerra com’era conciata! Eravamo tutti poveri, ma tutti contenti; ci accontentavamo di quello che c’era.

Lo spazio era 5 metri per 5 in totale, di fronte all’osteria centrale del paese. Lì comincio a riparare le biciclette, a montare le ruote. Poi, un giorno, il mio vecchio capo della Gloria, Alfredo Focesi, viene a trovarmi e mi dice: «Ma dove lavori? Qui! Sono spaventato, che coraggio che hai!».
Al che gli dico: «Facciamo una cosa: lei mi dà da montare 25 biciclette speciali alla settimana. Io non voglio soldi».
«Oh, tu lavori per nulla».
«Non voglio soldi, voglio materiale».

In questo modo, a me il materiale non costava niente; mi costava il lavoro giorno e notte. Con il materiale riparavo le bici dei miei amici corridori e dei contadini. Era tutto margine che arrivava, però le ore non si contavano!

© Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Quando la svolta?

Mi capita la fortuna di trovare un giorno in bicicletta Fiorenzo Magni, con cui ci fermiamo all’abbeveraggio. Lui in bicicletta, dopo tre giorni partiva per il Giro d’Italia da Milano.

Mi dice: «Ho preso la bicicletta nuova, ma mi fa male la gamba».
Io guardo e gli dico: «Signor Fiorenzo, sa perché gli fa male la gamba? È che c’è qualcosa… la pedalata non è rotonda, è ovale».
Lui dice: «Torniamo indietro, vado dal mio meccanico».
Allora, Albani e Martini lo convincono a passare da me. Lui, vedendo questo bugigattolo, “il 5×5 con camino”: «Ma tu lavori qua? Io non porto le mie biciclette qua! Questo è un bugigattolo!».
«Allora, Fiorenzo abbia pazienza», lo convincono i corridori. Io mi metto lì e cambio le due chiavelle, una gioia per me.

E la gamba non fa più male.

Lui farà il Giro della Brianza e mi manda la sera il massaggiatore a dire: «Domani in mattinata vai a trovarlo, che ti vuole vedere». Non ho dormito tutta la notte.

Con l’osteria davanti a me avevamo in società un Mosquito Garelli. Con quello, vado da lui a Monza, dove mi dice: «Vuoi venire al Giro d’Italia? Ho visto che sei bravo. Guarda che ti do da mangiare e dormire e basta».

Questo è stato il mio inizio.

Vado da Masi, che era il meccanico di Magni. Come arrivo là, questo da buon toscano parte con le bestemmie, non mi fa parlare: «Non si riparano motorini!».
Ma il suo operaio gli dice di ascoltarmi. E lui: «Io ho bisogno di un uomo maturo. Io devo montare per domani 45 ruote. Ma chi me le monta?».
«Io!», ho risposto.

Così, l’indomani mattina ho cominciato alle dieci, e alla sera alle sette e mezza/otto avevo montato 45 ruote centrate.

Sono diventato il suo uomo! Per poco però….

Alla fine, come è andata al Giro?

Sono andato avanti, ho fatto il Giro d’Italia. E Magni vince il Giro d’Italia!

Il secondo anno vado ancora con lui come meccanico, con la Nivea. Arriva secondo perché si rompe la spalla.

Il terzo anno, la Nivea non corre più, e andiamo alla Chlorodont, quella del dentifricio.

Faccio la bicicletta nuova per Nencini, si trova bene e vince il Giro d’Italia. Però con su il marchio Leo, perché non esisteva un mio marchio. Quando il titolare, Mastracchi,  mi chiede il perché, gli rispondo che semplicemente non ce l’avevo, perché l’avevo appena fatta per lui.

Da lì Sono andato allo Molteni. E ho avuto la fortuna di avere Dancelli, Motta, Altig. E dopo è arrivato Merckx.

Come è nato il suo logo?

Quando con la Molteni Dancelli vinse la Milano-Sanremo, dopo 17 anni, alla sera eravamo fermi in un ristorante e Bruno Raschi, che era direttore della Gazzetta dello Sport, la penna d’oro, scrisse: “La bici in fiore: trionfa alla Sanremo Dancelli, con la bici fatta dal suo meccanico Colnago”.

Dopo mi chiede di aspettarlo per mangiare, e a cena mi dice: “Tu devi registrare un Asso di Fiori”. Gli dico che non siamo mica in Toscana. E lui, ridendo: «No, in Toscana è un giglio. Registra l’asso di fiori, che ti porta fortuna!».

E da lì siamo andati sempre avanti, abbiamo vinto tante corse.

© Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Quale è stata la sua sfida più grande?

A quei tempi non si utilizzava ancora il carbonio. Si facevano in acciaio, in alluminio. Poi si è arrivati al titanio. Ma io sono sempre stato un ricercatore e ho cercato un gancio per poter incontrare Enzo Ferrari.

Non è stato facile avere l’appuntamento. Sono arrivato là, lui è seduto, io sono a capo tavola, e gli spiego quello che voglio fare: la bici in carbonio.

Lui chiama i suoi quattro ingegneri più importanti, tra i quali c’era uno che usava una bicicletta Colnago, pensa un po’.

Ferrari dice: «È impossibile, ma credo in lui. Lui è giovane. Quanti anni hai?».

Io non immaginandomi di avere davanti un uomo di più di ottant’anni, gli faccio: «Eh, tanti!».
«Quanti?».
«54».
Allora picchia la mano sul tavolo.
«Vergognati! Io, alla tua età ho cominciato a fare la Ferrari! E per pagare cinque operai sono andato al Monte di Pietà: per pagare cinque operai! Capito? Non aver paura. Alla tua età andrei da Maranello a Roma a piedi! Ti do una mano io».

E da lì è cominciata la sfida del carbonio.

La bicicletta sensorizzata per i test al Politecnico – © Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Non è stata una passeggiata…

No, non è stato facile, perché ho speso un paio di anni a fare ricerche. Il Politecnico ha fatto tutti i test di vibrazione, di oscillazione, per trovare e risolvere i problemi.

Tutto questo per fare un telaio che pesava la metà di quello d’acciaio. Ho gestito tutto e ho realizzato la bicicletta in carbonio!

Una bici così non esisteva. Abbiamo organizzato la presentazione di quella bicicletta con Mike Bongiorno a Milano. C’erano giornalisti, sindaci, tantissima gente. Gianni Brera scrisse: “Ernesto Colnago, il Cellini della bicicletta”. E raccontò tutta la mia storia.

© Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Qual è stata la reazione?

La bicicletta in carbonio è stata criticata da tutti. La Federazione Ciclistica Internazionale, che era legata ai potenti che facevano corse in quantità (americani, giapponesi, cinesi) dissero che bisognava bloccarmi perché ero troppo avanti. Loro producevano le biciclette in anticipo di un anno per poterle vendere.

Ho lavorato con Giorgio Squinzi, titolare della Mapei. Andiamo alla Parigi – Roubaix. Porto le biciclette in acciaio, porto anche le biciclette in carbonio, con la forcella dritta.

Ho fatto fare i test a Saronni, a Savoldelli in discesa, al Politecnico. Non si rompeva. E quindi la porto là.

Purtroppo, io ero a casa, perché non stavo tanto bene. Quindi mando lì a vedere mio fratello, tutti i tecnici e gli ingegneri, là a vedere. E avevano paura che si spaccasse tutto.

Purtroppo, io ero a casa, perché non stavo tanto bene. Quindi mando lì a vedere mio fratello, tutti i tecnici e gli ingegneri, là a vedere. E avevano paura che si spaccasse tutto.

Hanno perfino detto a Giorgio Squinzi: «Guardi, dottore, se si rompe un telaio per l’inferno su al nord, dove c’è il pavé, la colpa è vostra, perché cadono tutti i nostri corridori”.
Lui la sera mi chiama, e gli dico: «Giorgio, cosa c’è sotto?».
«C’è sotto che vogliono montare sulla nostra bicicletta una forcella ammortizzata».
Allora spiego: «Come facciamo a montare la forcella ammortizzata, che è più lunga di 12 centimetri? Dove va il corridore? Fidati di me!». E difatti si è fidato. Non ho dormito tutta la notte. Quando è passato l’inferno del nord, le altre tappe, è uscito un gruppo di corridori, abbiamo vinto la prima delle cinque Parigi-Roubaix.

Questa è stata la sfida che ho vinto contro tutti. E Colnago è diventato Colnago, ricercato in tutto il mondo!

La bici del Record dell’ora di Eddy Merkcx (1972) – © Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Che rapporto ha con Eddy Merckx?

Con Merckx ho contatti, non dico tutti i giorni, ma una volta al mese ci sentiamo.

Ai tempi della Molteni ho trovato un amico in Merckx. Gli ho fatto la prima bicicletta. Ci siamo trovati in inverno: lui andava a fare le cure alle Terme di Montecatini, mentre io e il mio direttore Albani eravamo a Barberino di Mugello. A Montecatini ha provato la bicicletta ed è rimasto soddisfatto.

Con Merckx ho vinto tutto. Merckx è uno che veniva qua la mattina e mi aspettava fino la sera. Magari stava qui a dormire e il giorno dopo portava via la bicicletta. Ne ho fatte più di un centinaio per lui. La mia specialità era fare i telai su misura.

Erano i tempi della Molteni con Merckx che vince il Giro di Francia e mi dice: «Ernesto, voglio fare il record dell’ora». Non c’era la tecnologia di oggi, per alleggerire la bicicletta. Ho fatto quello che si poteva: forare il manubrio, fare le gomme leggere, fare i raggi in titanio, tutte cose che costavano soldi. Nessuno in Italia era capace di farmi un attacco manubrio in titanio. L’ho fatto fare in America: due attacchi manubrio per metterli sulla bici di Merckx, che alla fine pesava poco più di cinque chili e mezzo!

Siamo andati a Città del Messico e lì c’erano il Re Baldovino con la moglie, con i figli, una cosa meravigliosa, che ti resta dentro. E Merckx arriva con la bicicletta in spalla; c’erano colleghi di fianco a me, belgi, francesi, che mi chiedevano come avevo fatto la bicicletta. Ma io non potevo rispondere perché guardavo come girava Merckx, avevo paura che forasse. Ed era il 25 ottobre 1972 quando vince il record dell’ora. E quando abbiamo vinto, io sono crollato.

Merckx mi è sempre stato grato. E ogni 25 ottobre, la mattina, se non sono io, è lui che mi chiama per ricordarmi. L’ultima volta mi ha chiamato per farmi gli auguri di compleanno , mentre  il 25 ottobre l’ho chiamato io, mentre era a Parigi per la presentazione del Tour.

«Ernesto, scusami se non ti ho chiamato, ma oggi è un giorno particolare per noi! Ti saluto, ti abbraccio tanto, lo sai».

Se di Merckx ce n’è uno solo, Pogačar lo sta seguendo! Io ho avuto l’onore con Saronno, di portare Pogačar, e vincere i primi due Giri di Francia. Pogačar è un amico fraterno per me. È un idolo.

La bici di Tadej Pogačar, Tour de France 2020 – © Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Quante vittorie ha collezionato la “grande Colnago”?

Ho vinto 16 Olimpiadi; ma le Olimpiadi una volta non le facevo i professionisti, le facevano i dilettanti, quelli che andavano forti erano quelli dell’Est. E alla Russia, all’Ucraina, alla Polonia ho dato le biciclette per farmi pubblicità. Era la Colnago “piccola”.

Cosa ho fatto quindi? Alla Fiera di Parigi i produttori venivano da me dicendo che dovevano fare biciclette, ne dovevano fare, poniamo caso, 80. Io rispondevo: se volete partecipare, mi date selle gratis, manubri gratis, ruote gratis. E vinciamo tutte le Olimpiadi.

E così mi sono fatto un nome nel mondo, vincendo i giri d’Italia, di Francia, la Milano-San Remo, tutte le grandi corse. Ne ho vinte più di 700!

© Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

E poi?

Ho trovato una squadra che si chiama Alfa Lum di San Marino.  Mi dicono che volevano fare lo sponsor per tre anni. Avrebbero trovato materiale trafilato in alluminio nell’Est, perché loro facevano serramenti in alluminio.

È nata così l’Alfa Lum Colnago. E da lì sono passati tutti i corridori e sono diventato piano piano quello che sono diventato.

Un ricordo cui tiene in particolare?

Facevo 50 anni di matrimonio. Con mia moglie eravamo insieme da quando eravamo ragazzini di 14 anni. È stata l’unica donna nella vita.

Un giorno mi ha detto: «Perché non fai una bici per me?».
Io la guardo e le dico: sono 50 anni di matrimonio, come devo fartela?».
«Fammela con le farfalle».
«Con le farfalle?».
«Sì, perché 50 anni sono volati!».

Così, ho fatto 50 biciclette. Una è qua nel museo e 49 l’abbiamo vendute in un anno a un prezzo speciale.

© Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Come è nata l’idea di questo museo dei suoi gioielli?

Il museo nasce quando abbiamo ceduto l’azienda, prima in parte, poi tutta. E mio nipote Alessandro mi ha detto: «Con tutte le nostre bici originali che abbiamo in giro, facciamo un museo».

Questo luogo sorge dove prima era l’azienda vecchia. Qui si facevano i telai, si montavano le biciclette.

Qui c’erano 49 persone a lavorare. Si faceva tutto qua, fino al 2020. E dopo, abbiamo deciso di buttare giù tutto, sistemare e fare questo tipo di collezione che rappresenta tutta la mia vita.

Era l’anno del Covid, io ero un po’ demoralizzato, il lavoro era calato. Servivo già la squadra degli arabi di Dubai. Mi hanno chiesto su due piedi se volessi vendere l’azienda. Cosa fare? Vedendo tutto il contesto, il mondo, come sarebbe andata a finire… Ho preso la palla al balzo!

Però ho detto loro che dovevano continuare a lavorare e loro hanno risposto che avrebbero continuato a correre per almeno 5-6 anni, sempre con la bicicletta Colnago. E devo dire che stanno onorando questo accordo.

Certamente, questo museo l’abbiamo fatto per rappresentarmi, per tenermi in vita. Mi alzo e al mattino, faccio quattro passi, poi entro a casa. C’è gente che arriva, il museo è gratuito, ci sono tanti stranieri. Spesso ci sono visitatori che passano e io sono contento, perché almeno mi sento ancora vivo, altrimenti… Sono otto anni che è mancata la mia Vincenzina. È mancato tutto…

C’è qualche pezzo particolare nella Collezione?

Quando ho incontrato Papa Wojtyla, nel 1979, lui mi ha detto: «Mi spiace di non poter andare a Roma in bicicletta».

C’era il Cardinal Ruini di fianco a me; mi ha detto: «Gli faccia una bicicletta sportiva, che andrà a Castel Gandolfo a pedalare».

Dopo due mesi, sono ritornato da lui: ha ricevuto me, la mia famiglia, due corridori polacchi che correvano con me, che avevano vinto i mondiali; e lui mi ha fatto una festa. Una cosa meravigliosa.

La cosa più bella è che mi ha invitato la mattina, alle cinque e mezza, con dieci persone a fare la comunione da lui. Essere confessato da lui e aver fatto la comunione dalle sue mani è una cosa immensa.

La cosa più brutta, sa qual è stata? Era l’accordo che, quando lui fosse morto, la bicicletta sarebbe andata all’asta. Ed effettivamente andò all’asta. Una persona tirò su il prezzo d’asta e ritirò la bicicletta.

© Emanuela Scolamacchia 2025 per Frontiere

Un giorno poi mi chiama una signora dall’università Bocconi e mi dice: «Sono la segretaria della Dottoressa … che vorrebbe parlare con lei». Dopo essermela fatta passare, ho capito che era una donna di cultura. Mi disse che sarebbe venuta far firmare un suo libro per papà, che era innamorato delle cose uniche e aveva avuto la fortuna di ritirare la bicicletta del Papa”.

Io mi sono messo a piangere, ma veramente. Lei ha capito. «Poi convinco il papà». È venuto a trovarmi, mi fa vedere quanto ha speso. Io resto lì, guardando il prezzo. Ne valeva veramente la pena? Non erano noccioline. Però mi sono detto: se un domani metto su un museo…

La sua vita lavorativa le ha portato tanti riconoscimenti, vero?

Si, sono Cavaliere del Lavoro, Ambasciatore dei valori della bicicletta delle Nazioni Unite. Ma l’unica che mi ha onorato, che mi ha fatto soffrire prima di arrivarci e che avevo timore di non meritare, perché andavo a prendere una cosa che io non avevo fatto, è la Laurea ad Honorem dal Politecnico.

Però, parlando con personaggi importanti, mi sono sentito dire: «Ernesto, non ce l’ho neanche io. La laurea non l’ha presa neanche Ferrari. E tu prendi una laurea ad honorem: io sarei onorato non una volta, ma cento volte a essere te, davanti a quel pubblico! Cerca di essere onorato per tutta la vita, perché come te non c’è nessuno!».

Ho ricevuto duecento telefonate dopo la laurea. Ero distrutto.Ma dentro avevo l’adrenalina. Mi sono affaticato, ma tutto questo, dentro, mi ha ringiovanito.

Gaia Meroni © Lab Immagine Design Polimi 2025 per Frontiere

Voglio ringraziare la Rettrice, l’ingegner Sala, tutti gli ingegneri e tutti quelli che erano presenti nel pubblico, perché è stata una cosa grande. Alla mia età credo sarà l’ultima, ma è stata la cosa più bella che ho ricevuto. Si vede che l’ho meritata.

Grazie mille al Politecnico, mi ha onorato, è una cosa che non mi aspettavo. Non ho parole.

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