Prove tecniche di missione lunare

L’esplorazione e lo studio dello spazio, fin dall’antichità ha affascinato gli esseri umani e l’avvento della tecnologia negli ultimi decenni ha permesso all’uomo di raggiungere risultati inimmaginabili, come l’allunaggio oltre cinquant’anni fa. Ma come ci si prepara alle future missioni spaziali? Esattamente come per le gare sportive e gli spettacoli teatrali: provando e riprovando, simulando l’impresa. Esattamente come gli atleti e gli attori, gli scienziati si preparano alle future esplorazioni attraverso delle simulazioni qui sul suolo terrestre.

Nell’ambito del progetto Kinosomno finanziato da dall’Agenzia Spaziale Italiana, Sarah Solbiati, ricercatrice del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria (DEIB) del Politecnico di Milano, ha partecipato a un esperimento di simulazione di permanenza in habitat lunare, per il programma International Lunar Exploration Working Group (ILEWG) EuroMoonMars, tramite le missioni EMMPOL .

Durante la permanenza in ambiente confinato per 7 giorni, i membri dell’equipaggio hanno condotto attività di ricerca per analisi di dati, test e sviluppo di strumentazione. I membri dell’equipaggio sono stati isolati dalla luce naturale durante la permanenza (così come gli astronauti durante il volo spaziale), con implicazioni sui cicli circadiani metabolici, sul sistema immunitario, sulla qualità del sonno e sulla performance.

Sarah Solbiati racconta a Frontiere il suo percorso e la sua esperienza nell’habitat lunare.

Com’è nata la passione per lo spazio?

«Ho iniziato ad interessarmi di spazio con le mie tesi di laurea triennale e magistrale svolte nell’ambito di ricerca sulla fisiologia spaziale e l’applicazione di dispositivi indossabili per le missioni.

Durante il percorso di studio ho seguito un corso presso la l’Accademia dell’Agenzia Spaziale Europea sulla fisiologia nello spazio e dopo la laurea ho continuato ad occuparmi del tema, prima con un assegno di ricerca e ora con un dottorato finanziato dal Politecnico di Milano e Consiglio Nazionale delle Ricerche, su progetti dell’Agenzia Spaziale Italiana».

Sarah Solbiati
Sarah Solbiati
Come è nato il tuo coinvolgimento in questo progetto?

«Oltre alla ricerca ‘classica’ sono sempre stata interessata al coinvolgimento in prima persona nello studio del cosmo: l’opportunità di un’esperienza di simulazione di missione spaziale per me era una grande occasione. Ad aprile ho avuto l’opportunità di partecipare a due missioni di simulazione di permanenza in habitat lunare che si chiamano EMMPOL 10 ed EMMPOL 11, dove EMMPOL sta per EuroMoonMars Polonia, perché queste missioni vengono realizzate grazie alla collaborazione tra EuroMoonMars, un’associazione che supporta questa tipologia di studi, e l’Analog Astronaut Training Center a Cracovia, in Polonia. Entrambe le missioni sono durate sette giorni. Durante la prima ero remote mission control, quindi ho aiutato dall’esterno le persone che stavano nell’habitat. In EMMPOL 11 ho partecipato come membro dell’equipaggio insieme ad altri 5 ricercatori e studenti di diverse nazionalità e background scientifici. 

Noi come equipaggio eravamo ‘analog astronaut’ perché stavamo testando un analogo di simulazione di permanenza in un contesto spaziale.

Durante entrambe le missioni ho avuto la possibilità di portare avanti la mia ricerca e di monitorare continuativamente per 7 giorni su tutti i membri dell’equipaggio (11 soggetti in totale divisi in due gruppi separati) i segnali elettrocardiografico (ECG, attività elettrica cardiaca) e seismocardiografico (SCG, attività meccanica cardiaca) tramite sensori innovativi messi a disposizione dall’azienda Movisens. Posizionati in contatto con il torace, i dispositivi rilevano il movimento del torace dato dal battito del cuore. Da questo segnale è possibile osservare sia la frequenza cardiaca sia altri parametri importanti per la meccanica del cuore».

Come ti sei preparata per le missioni?

«Sono stata contattata a fine gennaio dagli organizzatori per iniziare a pianificare questa missione.  Da lì a inizio aprile, quando è partita la prima campagna, ci siamo incontrati ogni settimana da remoto per definire e programmare bene le missioni dal qualsiasi punto di vista: tecnico, organizzativo, scientifico…. Ci siamo incontrati per la prima volta l’8 Aprile, a Cracovia, luogo della missione per iniziare a monitorare i primi segnali e insegnare ai membri dell’equipaggio come utilizzare il dispositivo. Sono tornata il 19 Aprile per la mia missione. È stato il primo momento in cui abbiamo conosciuto gli altri membri dell’equipaggio (la missione iniziava il 21). Abbiamo avuto un giorno e mezzo di preparazione e training. La prima sera, dopo aver firmato tutti i moduli del Comitato etico, si è svolto il pre-addestramento, che consisteva in una camminata veloce per arrivare al punto più alto di Cracovia, al buio e senza telefoni cellulari. Per poter comunicare tra di noi potevamo usare soltanto il linguaggio del corpo. È servito per testare il comportamento in team e la forma fisica.  Dovendo stare in silenzio e ascoltare tutti i suoni che ci circondavano, una volta arrivati in cima ci è stato chiesto quanti aerei erano decollati, atterrati o passati sopra… e tutti abbiamo risposto correttamente a questo: c’eravamo già adattati bene alla situazione.

Il giorno seguente si è svolta una seduta di crioterapia di gruppo, prima a -60°C e poi a -120°C. Prima e dopo l’esperimento sono riuscita ad effettuare registrazioni con il Movisens. La crioterapia è importante nella ricerca spaziale, perché ha un effetto di riduzione del metabolismo. Se pensiamo ai futuri viaggi di lunga durata, quando necessariamente si dovranno portare limitate scorte di acqua e cibo, sarà necessario in qualche modo abbassare il proprio metabolismo per consumare meno risorse. È interessante valutare come si comporta il sistema cardiovascolare in risposta alla crioterapia. Si simula a terra per essere più pronti a quello che si dovrà fare nelle missioni reali. La seconda parte del training consisteva nella permanenza in un lago ghiacciato (e noi siamo riusciti a rimanerci ben venti minuti).

La sera del 20 aprile, dopo aver acquistato le provviste per la settimana, siamo andati all’interno dello Storberg habitat, a Rzepiennik, a due ore e mezza da Cracovia, isolato nei boschi.

Dopo aver sistemato le provviste, ci è stato fatto un addestramento su come muoverci nei diversi moduli dell’habitat per gli esperimenti scientifici e qualsiasi altra necessità. Poi è iniziato ufficialmente l’isolamento».

Esperimenti durante la missione lunare
Com’era l’habitat della missione?

«L’habitat era diviso in moduli. Nel primo, all’ingresso, chiamato Geolab, si realizzavano esperimenti di biologia. Poi c’erano un modulo-bunker, un bagno, una piccola palestra con cyclette e tapis roulant, una sala con cucina e la camera con sei posti letto.
In queste stanze, senza finestre e di conseguenza senza luce e aria naturale, dovevamo necessariamente distribuirci per evitare di accumulare CO2. Infatti già al primo giorno abbiamo avuto un livello troppo alto di anidride carbonica e abbiamo dovuto modificare il sistema di ventilazione: è stata la prima sfida, risolvere un problema cavandosela con le sole risorse presenti all’interno dell’habitat. La gravità, invece, era la stessa della terra ma nella missione EMMPOL 10 c’era un piccolo macchinario per riprodurre la microgravità con all’interno dei campioni biologici».

Com’era la vostra giornata-tipo?

«La nostra ricerca indagava l’aspetto psicosociale e la variazione dei ritmi circadiani nelle missioni spaziali. La nostra giornata era molto densa, basata su tutte le attività che dovevamo fare, ed era scandita con un sistema orario che iniziava con la sveglia T0 e ogni ora successiva era di T0+1, T0+2, etc.

Sui dispositivi elettronici dovevamo impostare una time-zone definita dal centro di controllo esterno, per esempio, abbiamo iniziato con quella di Chennai, India e poi dopo due giorni siamo passati alla time-zone di Oakland, in Nuova Zelanda.

Il sistema era importante per misurare la percezione soggettiva del tempo: già al secondo giorno le nostre giornate non erano più scandite da mattina, pranzo, pomeriggio, cena, sonno, ma da T0+X e l’attività pianificata… Sono stati molto stressati i nostri ritmi circadiani: le giornate erano molto intense, avevamo tanti esperimenti da fare, io i miei con il dispositivo Movisens ma anche gli altri, che si occupavano di studi dalla fisiologia alla biologia, alla socio psicologia, all’ingegneria e alla robotica…

Al risveglio effettuavamo un’ora di test medici: ci misuravamo temperatura, pressione, frequenza cardiaca, peso, esame delle urine (a giorni alterni) e qualità del sonno e svolgevamo un test per la percezione soggettiva del tempo fornito online. Quest’ultimo consisteva nel cliccare sul monitor ogni 5 secondi.

In seguito c’era la colazione con un briefing. Il nostro equipaggio era composto da sei membri, ognuno con un ruolo: comandante, vicecomandante, medical officer (responsabile dell’acquisizione dei parametri fisiologici), space engineer, public outreach officer, (responsabile della comunicazione con il pubblico generalista)… Io avevo il ruolo di Communication officer: dovevo riassumere come avevamo passato la giornata o la notte al centro di controllo. Non solo, comunicavo anche l’agenda della giornata ed eventuali problemi al centro di controllo, mantenendo una comunicazione continua con il centro di controllo in caso di emergenze. Dopo il briefing mattutino iniziavamo gli esperimenti.

Avevamo un’ora di sport al giorno e la sessione di sport comprendeva la misurazione di parametri fisiologici come frequenza cardiaca, pressione, ma anche la percezione del tempo.

Un altro momento della giornata era il Da Vinci Power Nap, un sonnellino rigenerativo ispirato a quello di Leonardo su un tessuto elastico appeso al soffitto come fosse un’amaca. Una persona dall’esterno dava una oscillazione e si stava lì dentro per 10 o 20 minuti a luci spente… tutti ci addormentavamo (era davvero rilassante!). I miei colleghi lo stavano studiando per valutarne gli effetti positivi per il sistema cardiovascolare (che io monitoravo con Movisens) e per la performance cognitiva. Anche qui l’attività era seguita da test fisiologici, un test di percezione del tempo e lo svolgimento di un sudoku per misurare il grado di concentrazione.

Dopo il pranzo, il pomeriggio era caratterizzato da esperimenti o sport (per chi non l’aveva fatta al mattino). Dopo cena c’era un’altra serie di esperimenti e test fisiologici, di cui uno con il tè kombucha (te fermentato). A pranzo ne bevevamo 100 ml e dopo cena tre di noi applicavano una maschera fatta con questo tè (altri tre un’altra crema): prima e dopo l’applicazione misuravamo i parametri della pelle per vederne gli effetti.

Durante tutto il giorno ogni due ore eseguivamo delle misurazioni circadiane e quindi misuravamo temperatura corporea, peso e stato d’animo, quest’ultimo con la compilazione di questionari.

La sera inoltre realizzavamo anche un esperimento di realtà virtuale per capire se induce stress o rilassamento. Sto collaborando con l’autore di questo studio per accompagnare alla misurazione soggettiva una misurazione oggettiva con Movisens».

Cosa andava a percepire la persona nella realtà virtuale?

«Per questo esperimento di realtà virtuale c’erano tre persone di controllo, che non indossavano il visore, e tre persone che invece partecipavano all’esperimento, io ero tra queste. Le prove, di 10-15 minuti, si svolgevano ogni sera con scenari diversi ma legati allo spazio: la navigazione della Stazione Spaziale Internazionale, il paesaggio lunare… Dopo l’esperienza dovevamo compilare il mood barometer una scala per misurare lo stato d’animo. Inoltre abbiamo trascorso gli ultimi tre giorni a riempire dei questionari sociopsicologici ricevuti dall’esterno relativi a come percepivamo il team e il comandante».

Quali tipi di esperimenti avete effettuato?

«Gli esperimenti erano molto vari: colture di batteri, test di frizione di un rover su diversi materiali (polveri che riproducono il suolo di comete o suolo lunare…), o ancora coltivazione delle piante, analisi delle urine tramite spettroscopia (pre e post colazione e alla sera) per andare a ricercare degli indicatori di stress.

Un esperimento prevedeva la raccolta delle diverse tipologie di lacrime: lacrime di controllo (dove mettevamo dell’acqua distillata nell’occhio e poi la raccoglievamo dall’altra parte), di felicità, di tristezza, di irritazione (banalmente con una cipolla). I dati raccolti saranno analizzati da un altro Ente di ricerca.

Un’altra sperimentazione era il test sulla luce polarizzata in cui dovevamo guardare un’immagine su monitor e poi descrivere che cosa vedevamo per capire se si percepiva o meno la luce polarizzata.

Un’altra prova è stata di far indossare sulla schiena un piccolo sensore di movimento per analizzare la postura del soggetto con lo scopo di elaborare un modo per riconoscere la cattiva postura prolungata. Gli astronauti, infatti, in assenza di gravità, spesso lavorano in posture non usuali con possibili ricadute negative nel tempo.

Durante la missione abbiamo fatto diverse attività di coinvolgimento al pubblico, tra cui un evento in streaming su YouTube in cui si parlava delle nostre attività all’interno dell’habitat».

Com’è stato lavorare nel team della tua missione?

«Il team è stato un aspetto importante per la missione. L’oggetto di analisi della simulazione non riguardava solo aspetti fisiologici ma anche psicosociali: era fondamentale analizzare il comportamento di un gruppo di persone costretto a convivere per un periodo di tempo prolungato nello stesso ambiente, isolato, confinato dal resto del mondo, senza comunicazioni con i propri cari. Anche questo influisce ancora una volta sulla percezione di quello che c’è fuori, senza tutto il flusso di notizie a cui siamo sottoposti ogni giorno.

L’ultimo giorno abbiamo eseguito una simulazione di emergenza e, seguendo i protocolli standard, abbiamo finto di essere stati colpiti da una pioggia di meteoriti. Dal centro di controllo ricevevamo costantemente le informazioni sulle procedure da seguire ed è stato fondamentale il lavoro di squadra. Era un team molto collaborativo, produttivo,  che poteva lavorare in maniera serena».

Hai attività in programma per il prossimo futuro?

«Dopo la missione sono rimasta in contatto con gli organizzatori e presenteremo i dati raccolti a due eventi internazionali: l’assemblea del Committee on Space Research (COSPAR) e l’International Astronautical Congress. Ci saranno pubblicazioni su riviste scientifiche e di conferenza.

Le mie analisi rientrano nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana sull’utilizzo di dispositivi indossabili per il monitoraggio di parametri fisiologici nello spazio. Mi concentrerò in futuro sia sullo studio delle variazioni dei ritmi circadiani registrati durante le missioni che sull’attività elettrica e meccanica cardiaca. Valuterò anche l’evoluzione della variabilità cardiaca durante i 7 giorni di isolamento per avere un bio-marcatore correlato allo stress e sarà interessante andare a vedere gli effetti del da Vinci Power Nap sul sistema cardiocircolatorio. Sarà stimolante andare analizzare gli effetti della crioterapia del pre-training sul sistema cardiovascolare. Inoltre, collaborerò per il progetto che ha utilizzato i visori per realtà virtuale per esaminare anche lo stress o il rilassamento indotto dall’esperimento».

Il team della missione EMMPOL 11
Il team della missione EMMPOL 11
Spesso alcune intuizioni e tecnologie nate in ambito spaziale sono entrate anche nell’uso civile. C’è un potenziale utilizzo di questi dati anche nella vita di tutti i giorni?

«Movisens è un dispositivo comodo, leggero, indossabile da chiunque senza provare fastidio: può contribuire a monitorare parametri cardiovascolari anche in soggetti a terra. Questi dati acquisiti (avendo acquisito tanti dati, su 15 soggetti per 7 giorni continuativi) verranno utilizzati per creare degli algoritmi di apprendimento automatico in grado di riconoscere dei biomarcatori, delle caratteristiche costanti, relativi all’attività cardiovascolare, in particolare relativamente alla meccanica cardiaca, aprendo le porte a nuove applicazioni.

Questa tipologia di ricerca è molto innovativa perché si sta scoprendo sempre di più l’importanza dei ritmi circadiani e del ritmo giorno-notte. Sappiamo che l’isolamento o il lavoro ad orari diversi durante la settimana, che non seguono le normali alternanze luce buio, provocano alterazioni dei ritmi circadiani che favoriscono la comparsa di una serie di patologie croniche.

Non solo, i diversi parametri fisiologici misurati possono essere analizzati anche dal punto di vista metabolico».

Cosa ti porti a casa da questa esperienza? Qual è il tuo bilancio personale?

«Quest’esperienza mi ha aiutato a crescere, dal punto di vista psicologico, nel rapporto con me stessa, con gli altri e con il mondo, e dal punto di vista lavorativo perché sono molto più concentrata e consapevole di quello che devo fare per ottenere determinati traguardi.

Una cosa interessante che è successa durante la missione: per coprire un po’ il rumore della ventilazione e per dare un ritmo alle giornate avevamo sempre la musica di sottofondo. Il quarto giorno abbiamo tutti sentito un po’ la necessità di abbassare il volume anche nel parlare e durante la mia sessione di sport, nel riposo tra un esercizio e l’altro, è passato un elicottero sopra l’habitat. In quel momento ci siamo chiesti cosa ci mancasse del mondo esterno. Durante il lockdown eravamo sì isolati fisicamente ma comunque connessi col resto del mondo, qui no. Questo mi ha portato a una maggiore consapevolezza e connessione con la terra».

Quali sono i progetti a lungo termine?

«Sicuramente mi piacerebbe partecipare a un’altra campagna di simulazione perché mi porta uno step sempre più vicino a quello che è la realizzazione di un sogno: diventare astronauta! Quest’anno ci sono state le selezioni, però purtroppo non avevo il requisito dell’esperienza lavorativa di almeno tre anni. Però attraverso simulazioni come questa mi preparo in vista delle future selezioni».

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