Prevedere il rischio cardiovascolare dei pazienti grazie a modelli computazionali

Questo mese abbiamo incontrato Anna Corti, 29 anni, oggi ricercatrice al B3Lab. La sua ricerca, inserita nell’ambito del progetto AI-CORPS, intende realizzare un modello predittivo della rottura della placca aterosclerotica nelle coronarie, che offrirà grandi vantaggi sia ai pazienti che ai sistemi sanitari.

Anna Corti
Anna Corti al lavoro

Sempre “fedele” al Politecnico, il suo percorso accademico inizia qui con la laurea triennale e quella magistrale in Ingegneria Biomedica, per poi continuare con i tre anni di dottorato di ricerca.

Proprio per gli aspetti innovativi della sua tesi di dottorato, ha ricevuto diversi premi, tra cui il Best Doctoral Thesis Award in Biomechanics da European Society of Biomechanics (ESB), il VPHi Best Thesis Award in In Silico Medicine da Virtual Physiological Human Institute (VPHi) e il premio per la migliore Tesi di Dottorato in Biomeccanica Teorica e Applicata dal Gruppo di Biomeccanica dell’Associazione Italiana di Meccanica Teorica e Applicata (GBMA-AIMETA).

Ciao Anna. Dove hai svolto il tuo lavoro di ricerca qui al Politecnico?

Per la mia tesi magistrale ho iniziato a lavorare al LaBS CompBiomech, il laboratorio di Biomeccanica Computazionale del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta”. Sempre per quella tesi ho svolto un periodo di ricerca all’estero, presso lo Houston Methodist Hospital. Là mi sono appassionata sempre più alla ricerca, e il passo successivo è stato quello di scegliere di svolgere il dottorato di ricerca, e farlo al LaBS, sotto la supervisione dei professori Francesco Migliavacca, Josè Felix Rodriguez Matas e Claudio Chiastra. Ho completato questo percorso nel luglio scorso.

Dopo questo traguardo, che strada hai preso?

Ho continuato la ricerca al LaBS, ma ho iniziato la collaborazione con il B3Lab, laboratorio di biosegnali, bioimmagini e bioinformatica che si concentra sullo sviluppo di metodi predittivi di intelligenza artificiale basati su analisi di segnali biomedici, immagini e dati multi-omici con l’obiettivo di contribuire al miglioramento delle terapie in un contesto di medicina personalizzata e di precisione. Nell’ultimo anno sono ufficialmente passata a questo laboratorio come postdoc, trasferendomi quindi al Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria.

Di cosa ti sei occupata durante il dottorato?

Durante il dottorato mi sono specializzata sulla modellazione multiscala in silico (cioè computazionale) per studiare processi di rimodellamento vascolare durante lo sviluppo di aterosclerosi e restenosi.

Il mio lavoro si inseriva nell’ambito del progetto “TIME – From TIssue to Molecular mechanisms of restenosis after peripheral Endovascular interventions”, finanziato da Fondazione Cariplo e coordinato dal professor Claudio Chiastra. Il nostro team del LaBS era affiancato da altri partner internazionali: University of Florida, Houston Methodist Hospital e del Politecnico di Torino.

In particolare, ho sviluppato un modello paziente-specifico basato su diversi metodi computazionali (simulazioni CFD e modello agent-based) che permette di studiare gli effetti dell’emodinamica locale e del livello di infiammazione sistemica sull’esito delle procedure endovascolari, e quindi sulla restenosi, utilizzando l’approccio emergente della “systems biology”. L’obiettivo era quello di capire i processi alla base della restenosi, che rappresenta attualmente una delle principali cause di fallimento delle procedure endovascolari.

Modello multiscala di restenosi

Di che procedure stiamo parlando?

Sono procedure mini-invasive che servono a ristabilire il flusso di sangue nelle arterie, precedentemente ridotto a causa della formazione di placche aterosclerotiche che determinano restringimenti delle arterie stesse. La formazione di queste placche è dovuta all’aterosclerosi, una patologia vascolare comunemente associata all’invecchiamento e favorita da diversi fattori come alti livelli di colesterolo, pressione, presenza di diabete e cattivi stili di vita: dal punto di vista alimentare, del movimento fisico, di sostanze come alcool e fumo.

Una delle procedure più utilizzate in questi casi per tenere pervio (aperto) il vaso, è l’impianto di uno stent, una sorta di piccola impalcatura a maglie metalliche, che viene fatto arrivare al vaso attraverso un catetere. Lo stent si può auto-espandere oppure può essere espanso attraverso il gonfiaggio di un palloncino che verrà poi sgonfiato ed estratto.

Il problema è che in alcuni casi l’arteria reagisce all’intervento con un processo infiammatorio che determina una crescita anomala della parete dell’arteria stessa, riportando il vaso ad una condizione di parziale o totale occlusione (com’era precedentemente). In questi casi parliamo di restenosi: si tratta di un fallimento della procedura, e lo stiamo analizzando con queste ricerche.

Che cosa ha rappresentato per te questo studio?

Ha dimostrato come i modelli matematici e le simulazioni computazionali siano strumenti dotati di alte potenzialità, che, offrendo un ambiente virtuale per testare ipotesi cliniche, possono contribuire alla comprensione dei complessi processi alla base della patologia e guidare lo sviluppo di più efficaci terapie, volte al miglioramento dell’esito post-chirurgico.

Un’importante innovazione dello studio ha riguardato l’integrazione di dati paziente-specifici di espressione genica con un modello che replica le dinamiche cellulari, che ha gettato le basi verso lo sviluppo di un approccio multiscala di medicina “in silico”.

Quindi, non è focalizzandosi solo su un singolo fattore, ma sull’integrazione di molti di questi – dalla scala molecolare a quella cellulare e tissutale – che possiamo comprendere i complessi meccanismi biologici che entrano in gioco nella risposta a un impianto di stent.

Come sei passata al Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria?

La ricerca svolta durante il dottorato aveva come obiettivo quello di comprendere i meccanismi multiscala e multifattoriali meccano-biologici alla base di questi processi vascolari e la loro interazione. Siamo riusciti a sviluppare un framework che, attraverso l’integrazione degli effetti infiammatori (tramite un network di espressione genica) ed emodinamici sulle dinamiche cellulari, è stato in grado di predire la restenosi in arterie stentate paziente-specifiche fino a un anno dall’intervento. Validando il framework dunque abbiamo confermato le ipotesi del modello basate sull’integrazione di questi fattori come elemento fondamentale nello sviluppo di restenosi. Lo studio era quindi basato principalmente su un approccio di biomeccanica computazionale. A quel punto, ero convinta che un contributo per spingerci oltre nello sviluppo di un modello predittivo potesse darlo l’integrazione con i metodi dell’intelligenza artificiale.

Sono entrata in contatto con i docenti Luca Mainardi e Valentina Corino del B3Lab per poter integrare il mio background biomeccanico con conoscenze di AI.

Qual è il progetto su cui ora stai lavorando al DEIB?

Il progetto si chiama AI-CORPS – “Trustworthy, integrated Artificial Intelligence tools for predicting high-risk CORonary PlaqueS” ed è finanziato dalla Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica. Lavoriamo su questo progetto assieme al Centro Cardiologico Monzino, al Policlinico San Matteo e all’Ospedale San Raffaele.

L’obiettivo è quello di sviluppare un modello predittivo della rottura della placca aterosclerotica nelle coronarie, integrando biomarcatori clinici (come presenza di diabete e altre comorbidità), genomici, biomeccanici e radiomici (estratti da immagini radiologiche).

L’ipotesi alla base è che un approccio che integra fattori di diversa origine consenta una migliore identificazione dei pazienti a rischio cardiovascolare e quindi avanzamenti in termini diagnostici e terapeutici, contribuendo allo sviluppo di trattamenti personalizzati nell’ambito della medicina di precisione.

Modello predittivo di vulnerabilità della placca

Che cosa apprezzi in questo approccio?

È un progetto che mi affascina molto, perché integra fattori biomeccanici come fluidodinamica, stress in parete (ottenuti con simulazioni computazionali) con dati clinici, genomici e provenienti da analisi di immagini. Il tutto viene integrato con metodi di intelligenza artificiale.  

L’elemento alla base è la multidisciplinarità, che è uno degli aspetti della ricerca biomedica che mi stimola di più. Queste complesse problematiche richiedono una forte integrazione tra mondi diversi – quello dei medici, dei chimici, dei biologi, degli ingegneri – che usano linguaggi diversi.

Collaborare è l’unico modo che c’è per trovare soluzioni dopo aver compreso i fenomeni che stanno alla base.

Quali saranno i benefici dello strumento che state concependo?

Con questa nuova ricerca, il focus è quello di fornire uno strumento al clinico che lo aiuti a valutare se una placca è più a rischio di un’altra.

I benefici sarebbero, da un lato, di identificare i pazienti a rischio di evento cardiovascolare acuto (come l’infarto), quindi intervenire più rapidamente e con maggiori probabilità di avere esiti positivi per il paziente; dall’altro lato, di evitare l’eccesso di trattamento di pazienti non veramente a rischio e quindi di ridurre gli interventi inutili. Da qui, una migliore prevenzione, diagnosi e gestione della patologia, con riduzione dei rischi per il paziente e una riduzione dei costi e del carico sul sistema sanitario.

Oggi esistono già alcuni metodi clinici per la valutazione del rischio, ma la loro accuratezza non è ancora elevata. Lo sviluppo di questi modelli predittivi basati su IA sarà un importante supporto decisionale per identificare pazienti più a rischio di altri.

Hai già dei progetti chiari per il futuro?

Il prossimo anno sono qui al DEIB, e continuerò ad occuparmi di questo progetto.

Devo essere sincera, ho valutato di intraprendere la carriera accademica, e mi piacerebbe. Sono una persona curiosa, creativa e credo che la curiosità stia alla base del mondo della ricerca. La conoscenza può solo aumentare, non si ferma. E perché ciò avvenga, collaborare è fondamentale.

Ho anche già avuto esperienze di didattica, con esercitazioni. È un altro aspetto che mi appassiona. Perché stimolare gli studenti e suscitare il loro interesse ti gratifica molto. Formare gli ingegneri del futuro deve essere una bellissima missione.

Siccome la carriera universitaria unisce questi due aspetti è quello che spero di continuare a fare.

Come hai scelto il Politecnico, e come ti stai trovando?

Da un punto di vista scientifico è un centro di riferimento e di prestigio, riconosciuto a livello mondiale, anche negli Stati Uniti, dove sono stata per la tesi.

Umanamente, mi sono sempre trovata bene, sia al LaBS che al B3Lab. È un luogo dove si lavora volentieri.

Anna Corti

Come è nata la tua passione per l’ingegneria?

In realtà come liceo ho fatto il linguistico. Ma penso che a 13 anni ancora si debba scoprire che cosa ci piace. Ho avuto una professoressa di matematica e fisica che mi ha motivata molto quando ho deciso di scegliere questa strada.

Un po’ di titubanza iniziale c’è stata: ero l’unica in tutto l’istituto a intraprendere una facoltà scientifica ingegneristica. È stato ovviamente più faticoso il primo anno, ma con forza di volontà e impegno ho recuperato le basi, mi sono messa in pari, e oggi posso dire che è un percorso fattibile anche per chi non ha fatto il liceo scientifico, se è la propria passione.

Essere una donna e fare ingegneria, è ancora considerato qualcosa di non comune? Come l’hai vissuta?

In realtà, biomedica è uno di quei corsi di studio in ingegneria in cui la situazione è abbastanza equilibrata, dal punto di vista del genere degli iscritti. Anche al LaBS c’è una componente femminile molto presente, così come al B3Lab.

Ma credo che questa situazione di disparità si vada sempre più assottigliandosi. Durante questi anni ho frequentato congressi, convegni, in ambito europeo e internazionale, e sono tantissime le donne premiate per la qualità del loro lavoro di ricerca. Non ho mai assistito a nessun episodio di discriminazione in questo campo.

A chi fosse ancora indeciso o indecisa, consiglieresti di iscriversi a ingegneria?

Certamente, indipendentemente dal genere e dal percorso di studi che si è fatto. L’unica cosa che non può mancare è la motivazione, ce ne vuole tanta. Ognuno ha il suo percorso, siamo tutti diversi. Ma nel momento in cui realizzi qual è il tuo, se sei motivato vai dritto fino all’obiettivo.

Per quanto riguarda biomedica, quello che mi stimola molto nella ricerca in questo campo è l’impatto diretto che abbiamo sulle vite umane. Può darsi che quello che sto studiando sia molto lontano cronologicamente dal momento in cui avrà la sua applicazione. Ma sapere che sviluppare metodi che migliorano la diagnostica, la gestione della patologia e l’outcome avrà un impatto diretto su tutti noi, sulla società, sulla medicina moderna, mi stimola tantissimo.

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