La nuova vita dei beni culturali

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Il digitale sta cambiando molte abitudini della nostra vita quotidiana, dallo shopping ai servizi che sono ormai entrati nella nostra quotidianità. Il processo di digitalizzazione ha investito anche uno dei settori più tradizionali, quello delle istituzioni culturali, con risvolti che ne potrebbero amplificare le potenzialità.

Ne abbiamo parlato con la professoressa Deborah Agostino che con l’Osservatorio di Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali analizza le trasformazioni in corso nelle istituzioni culturali.

Cosa l’ha spinta ad occuparsi dell’innovazione digitale del settore dei beni culturali? 

«Ho iniziato a fare ricerca sul tema della digitalizzazione delle istituzioni culturali perché è un settore con grandi potenzialità e ricadute benefiche sulla società. Quando si parla di bene culturale non bisogna pensare solo alla conservazione del patrimonio ma anche alla sua fruizione. Il digitale fornisce molte opportunità di rendere il bene accessibile a una popolazione sempre più ampia con un impatto sociale molto importante se pensiamo a maggiore diffusione della conoscenza, lotta all’emarginazione, coinvolgimento di più fasce demografiche.

Tipicamente la letteratura scientifica sostiene che chi è abituato a fruire di cultura continua a farlo, chi non è abituato a fruirne, continua a non farlo. Questo accade perché soprattutto alcune tipologie di settori culturali vengono viste come elitarie. La tecnologia aiuta a superare questo pregiudizio e a rendere la cultura approcciabile a figure molto più giovani, basti pensare a tutto il tema dei videogiochi e della gamification, che permette di far interagire i bambini e gli adolescenti con le opere, con un linguaggio diverso e coinvolgente».

Un esmepio di supporto digitale nei musei - Frontiere Politecnico di Milano
In passato si è occupata di organizzazione aziendale ed economia. Come si coniugano questi due ambiti?

«Sono un’ingegnera gestionale con un dottorato sulla misurazione dei risultati nelle organizzazioni che collaborano in rete. Successivamente mi sono sempre più interessata al come la tecnologia aiuta a far collaborare le organizzazioni dedicandomi anche a una serie di progettualità legate alle reti di organizzazioni culturali; da qui ho iniziato ad ampliare sempre di più le ricerche su questo tema. L’architetto tipicamente ha come unità di analisi il bene culturale o il monumento, l’ingegnere gestionale, ha come unità di analisi l’organizzazione, l’ente che se ne occupa».

In un paper Lei accenna alla trasformazione che c’è stata del museo, non più solo come luogo di conservazione, ma anche luogo di intrattenimento. La digitalizzazione dei musei sta accelerando questo processo?

«Il museo ha diverse finalità, parla a una pluralità di pubblici molto eterogenei tra loro, quindi deve essere in grado, almeno per le ricerche che stiamo conducendo, di parlare sia alla persona esperta ma anche allo scolaro o a chi nel tempo libero è in cerca di un’attività che lo possa intrattenere. 

Le tecnologie digitali aiutano molto al raggiungimento di questo obiettivo: gli oculus, i contest   online o sui social, la realtà virtuale o la realtà aumentata  permettono di rendere  la visita on site più interattiva, scoprire e divertirsi allo stesso tempo, quello che gli inglesi chiamano edutainment, l’unione di Education e Entertainment». 

Partendo appunto dallo scopo, ci sono degli esempi virtuosi di digitalizzazione dei musei in Italia?

«Con l’Osservatorio di Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali conduciamo annualmente un’indagine su quanto siano digitali musei italiani indagando aspetti molto diversi: dall’approccio strategico agli investimenti in digitale, dalla tecnologia utilizzata all’esperienza, eccetera. Non c’è un museo che spicca sotto tutte queste dimensioni ma ci sono situazioni molto eterogenee, istituzioni che magari hanno già implementato una strategia digitale, hanno un piano digitale e sanno dove vogliono andare. Esse rappresentano circa il 24% dei musei italiani, un numero basso. 

Un secondo gruppo invece applica e fa leva sulla trasformazione digitale a livello di singolo progetto, dal rinnovo del sito alla scelta di una APP piuttosto che una serie di eventi online. I primi sono i musei strategic oriented o strategic driven perché hanno già una strategia digitale da intraprendere, i secondi molto più project driven senza una visione strategica di lungo periodo.

Questa differenza comporta una serie di risvolti a livello organizzativo e gestionale interno, dalle risorse umane al budget.

Molti bandi che finanziano lo sviluppo di progetti per il mondo culturale cominciano a sottolineare l’importanza di una strategia e di un piano di capacity building: non si chiede solo di gestire il progetto tecnologico, ma adattare ad esso strategie, obiettivi e modello di organizzazione». 

AR nei musei - Frontiere Politecnico di Milano
In un suo studio sottolinea come i qr-code e le audioguide siano tra gli strumenti più utilizzati in loco. 

«QR code e audioguide sono gli strumenti più diffusi ma con la pandemia è cambiato lo scenario, si è inserita la fruizione online. Il digitale può supportare la visita in loco attraverso il sito, le app, le audioguide, eccetera… ma può essere utilizzato per far fruire dell’offerta culturale a distanza, con il tour virtuale, la lezione di formazione in streaming, eventi online o podcast.  Il digitale ha un duplice ruolo: un aiuto nella visita in loco (onsite) e un connettore con i pubblici a distanza (online). 

Durante il primo lockdown, tra marzo e maggio 2020, secondo le nostre analisi la vita sui social dei musei è esplosa. Abbiamo assistito ad una grande dinamicità sia delle attività dei musei sui social, sia delle risposte dei pubblici. 

I musei hanno iniziato a offrire sui propri siti web una serie di esperienze: il tour virtuale online con il direttore, la masterclass su un determinato argomento… C’è chi ha colto l’occasione per rilanciare e strutturare un’offerta digitale e chi invece ha un po’ tamponato l’emergenza del momento ma è tornato poi a quello che faceva pre-pandemia». 

Un aspetto meno visibile del digitale è quello dei big data. Tra i progetti che ha coordinato c’era anche uno che riguardava proprio l’integrazione tra i big data e i dati tradizionali… Da questi progetti è emerso un trend o un aspetto interessante?

«Più che un trend sono emerse tante potenzialità. Un bando del Ministero per la Cultura nel 2018 ha finanziato un nostro progetto di integrazione dei dati per l’analisi della reputazione online dei musei. Il nostro era un team interdisciplinare, coinvolgeva non solo me o altri ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Gestionale ma anche alcuni del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria per tutta la parte di analisi web.

Abbiamo sviluppato una vera e propria piattaforma, con delle dashboard per poter monitorare in tempo reale il comportamento dei musei online. Questo cruscotto aveva più livelli di visibilità: dal singolo direttore di museo al Ministero, dove quest’ultimo poteva avere una vista d’insieme e fare benchmarking sui singoli musei, raccogliendo i dati in tempo reale.  I dati erano aggiornati nelle 24 ore e misuravano ad esempio la viralità dei post social o le recensioni su Trip Advisor, con un sistema molto dinamico che permetteva di ‘navigare’ i risultati in modo diverso. Il progetto ci ha permesso di studiare sia il  comportamento dei musei sia dell’utilizzatore.

Anche in questo caso c’è stato chi ha saputo gestire i dati, analizzandoli e sfruttandoli per i processi decisionali e chi ha fatto fatica a seguire il progetto bloccato da un approccio troppo burocratico».

Quale ruolo giocano i budget e i background degli addetti ai lavori?

«Spesso I direttori mi dicono che ci sono tanti profili di umanisti all’interno dei musei. Chiaramente va benissimo, ma la figura dell’umanista da sola adesso non è più sufficiente. Nel momento in cui entri in una serie di processi analitici e tecnici serve una figura un po’ più ibrida che chiaramente conosca il contesto dei musei e il comparto, ma allo stesso tempo sia in grado anche di gestire tutto ciò che è l’aspetto organizzativo e di gestione del dato.  L’ideale sarebbe formare gli attuali umanisti che hanno già le competenze tecniche sulla materia con competenze gestionali e inserire figure ex novo con una formazione ingegneristica gestionale, di project management e di gestione del dato».

Uso di uno smartphone durante una visita a museo - Frontiere Politecnico di Milano
Ha curato una ricerca proprio sulla valorizzazione dei dati dei social media nel processo decisionale del Teatro alla Scala. Come si inseriscono i social nella strategia di digitalizzazione e soprattutto anche in un’ottica di Metaverso? 

«I dati social si inseriscono a due livelli. Il primo è a livello di pura comunicazione ovvero come l’istituzione teatrale o museale interagisce e comunica ai propri pubblici tramite i social con la misurazione dell’efficacia di queste azioni.

Il secondo livello è l’analisi del testo e del sentiment di ciò che gli utenti postano sui canali social, da cui si possono ricavare degli spunti per supportare invece delle decisioni.

Abbiamo condotto un’analisi del testo dei post e delle recensioni di Trip Advisor dei musei italiani dove  è emerso, ad esempio, che i visitatori stranieri sono quelli che si lamentano di più delle code all’ingresso (ovviamente prima del Covid-19), mentre per gli italiani questo disagio non emerge mai.

È un tema interessante, perché  un direttore di museo nella fase di progettazione del servizio può  organizzare la visita in modo differenziato in base a questo dato.

Rispetto invece al Metaverso, al NFT, le nuove tecnologie che stanno emergendo, le stiamo studiando con l’obiettivo di capire quali sono le potenzialità effettive. Siamo in una fase di scouting di progetti già esistenti per comprendere come le istituzioni culturali, nazionali e internazionali, stanno accogliendo queste occasioni». 

Ha condotto una ricerca sulle good practice dei musei. Cosa è emerso da questo studio?

«Il progetto coinvolgeva quattro realtà museali che ci hanno chiesto un supporto per raccogliere dei dati e costruire un cruscotto di analisi dei propri pubblici e dell’organizzazione interna, le informazioni chiave che servono al direttore del museo per sapere dove andare. 

Lo spunto più interessante che è emerso è l’analisi del “non pubblico”. Abbiamo raccolto dei dati in giro per la città del museo, focalizzandoci sui residenti che non lo avevano mai visitato per capire il perché e quali interessi avessero.  Il dato interessante emerso è che alla fine accede ai musei chi è abituato a fruire di cultura, altri semplicemente preferiscono coltivare altri interessi nel tempo libero».

Tecnologie digitale per coinvolgere i bambini in un percorso museale - Frontiere Politecnico di Milano
E come si fa quindi ad attrarre questo pubblico “disinteressato”?

«Gli inglesi dicono one size does not fit all ovvero una sola taglia non veste bene tutti. Questa metafora spiega bene il fatto che una fruizione unica non va bene per tutti. La soluzione è “su misura” sfruttando la possibilità che dà il digitale di profilare i pubblici: se il museo ospita il capolavoro, il grande artista, può declinare la visita in modo diverso a seconda del pubblico. Non si può organizzare la stessa esperienza per l’esperto, per le famiglie, per le scuole, ma bisogna costruire in modo modulare offerte diverse ricorrendo alle nuove tecnologie o alla gamification. Ad esempio ci sono musei che hanno sviluppato dei percorsi dedicati ai bambini con personaggi dei fumetti o dei cartoni animati in realtà aumentata da fruire con i tablet. Nello stesso momento il bambino e l’adulto seguono lo stesso percorso, ma con esperienze completamente diverse».

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