Salvare la biodiversità partendo dalle città

Maria Chiara Pastore

Secoli di arte e letteratura sono testimoni di un rapporto ambivalente tra uomo e natura, quest’ultima croce e delizia, generosa ma al tempo stesso grave minaccia verso l’essere umano. Con l’avvento della crisi climatica, si è avviata una discussione su questo rapporto: è possibile convivere pacificamente con l’ambiente o addirittura renderlo un alleato per la nostra salute?

L’indagine è in corso anche qui al Politecnico di Milano, dove Maria Chiara Pastore, docente e ricercatrice in urbanistica al Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, è tra le ideatrici di Forestami, progetto ambizioso che punta a piantare 3 milioni di alberi nella Città Metropolitana di Milano, ed è principal investigator al Centro Nazionale per la biodiversità (Spoke 5, Biodiversità urbana, insieme a Massimo Labra, Università Bicocca).

«Mi sono laureata al Politecnico di Milano in architettura con una tesi sul tema dell’abitare in una zona rischiosa come il Vesuvio – spiega la ricercatrice- Nei primi anni duemila, infatti, c’erano delle politiche regionali che incentivavano lo spostamento dei 600 mila abitanti dell’area in un’ottica di rischio eruzioni. Il tema dell’abitare legato alla natura e ai suoi rischi mi ha accompagnato anche durante il dottorato in Spatial Planning and Urban Development sul rapporto tra lo sviluppo della città e sistemi idrici. La natura, in questo caso, era analizzata come risorsa naturale da gestire.

Ho continuato a occuparmi del tema cercando di andare aldilà dell’urbanistica, la mia specializzazione, lavorando con il dipartimento di ingegneria dell’University College di Londra e successivamente con una tesi di dottorato a Dar es Salaam in Tanzania, una delle città più popolose al mondo. Proprio in questa città ho avuto modo di approfondire ancora di più il rapporto tra crescita della popolazione e natura come risorsa per la città».

Forestami a Cesano Boscone
Forestami a Cesano Boscone

A proposito di natura come risorsa urbana, come nasce Forestami?

«In occasione del primo Forum Mondiale delle Foreste Urbane, organizzato dal Politecnico di Milano a Mantova nel 2018 insieme alla FAO e alla Società Italiana di Silvicultura, ci siamo occupati della relazione tra la natura e la città (a ottobre 2023 il secondo a Washington DC, organizzato da Politecnico, FAO, Società Italiana di Silvicultura e Arbor Day Foundation). 

Il Forum Mondiale ha inaugurato una stagione. Si parla da moltissimi anni, da decenni, sia in urbanistica che in altre discipline, dell’importanza del verde ma la novità è il legame tra forestazione urbana e biodiversità: gli alberi ci sono sempre stati nelle città, ma dobbiamo riconoscere sempre di più l’importanza di questi come ‘dispositivi naturali’ che contribuiscono alla nostra salute, un’importanza della natura che ci viene insegnata fin da piccoli ma che crescendo viene persa.

Da questa nuova consapevolezza nasce Forestami, un progetto di ricerca del Politecnico di Milano, che nasce alla fine del 2018. Il progetto nasce sulla scia della partecipazione del Comune di Milano al C40 – Cities Climate Leadership Group, in cui affrontano, tra le altre, le questioni ambientali attraverso confronto con città appartenenti a nazioni diverse. A questo si aggiunge il fatto che la Città Metropolitana di Milano, come tutta la Pianura Padana, soffre di bassa qualità dell’aria, soprattutto nei mesi invernali.  Come Polimi abbiamo ragionato su come tra le diverse politiche da attuare ci potessero essere delle soluzioni basate sulla natura, che insieme a altre politiche, contribuiscono a migliorare la qualità dell’aria.  Lo studio è stato condotto dal Dipartimento di architettura e studi urbani, con un sostegno della Fondazione Falck e di FS Sistemi Urbani. 

La nostra ricerca è partita dall’analisi del territorio cercando di capire innanzitutto quali erano le problematiche, dalle isole di calore ai suoli permeabili e impermeabili passando per il ruscellamento (water run off), mettendole poi in relazione con il tree canopy cover (la superficie fogliante delle chiome degli alberi), che nel 2018 non avevamo come dato di partenza. Per noi era fondamentale capire la distribuzione territoriale delle piante, la tipologia: ecco quindi un’indagine sulle chiome, attraverso le quali si valuta lo stato di benessere dell’albero. Abbiamo studiato non solo il patrimonio pubblico, ma anche il patrimonio privato: ogni albero conta, tutti contribuiscono al benessere della città. 

Successivamente ci siamo concentrati sul potenziale, abbiamo calcolato quanti alberi potessero essere piantati nella Città Metropolitana e abbiamo cominciato a lavorare con i 133 comuni dell’area milanese.

A cinque anni dall’inizio del progetto, stiamo traendo dei primi bilanci. Il primo è che è assolutamente necessario costruire un coordinamento sul tema della natura, che non riguarda solo chi si occupa di servizi e ambiente ma anche di chi si occupa di bonifiche, pianificazione, urbanistica, ricerca… settori che gestiscono questo tema solo da un punto di vista e con pochissime capacità di confronto con gli altri. Attraverso il punto di incontro tra i diversi specialisti miriamo a una visione poliedrica che sfrutti questa complessità al fine di migliorare la qualità dell’aria e degli spazi piantando alberi. 

In questo momento stiamo facendo i calcoli della prossima stagione agronomica: ogni anno si pianta tra novembre e marzo in città metropolitana. Adesso siamo in una fase di programmazione, con sopralluoghi per capire quali saranno le prossime aree in cui pianteremo. Ad oggi il progetto Forestami ha un fondo gestito da Fondazione di Comunità e si finanzia con donazioni che alimentano le nostre piantagioni da noi seguite in maniera diretta. C’è un comitato tecnico composto dal Comune di Milano, Città Metropolitana, Parco Sud e Ersaf, che valuta i progetti, un comitato scientifico per i pareri economici e delle cooperative sociali che fanno progettazione, piantagione e manutenzione per 5 anni. 

Con questi fondi diretti abbiamo piantato oltre 50.000 alberi. Con la Città Metropolitana stiamo lavorando a progetti finanziati dal Pnnr per fare forestazione urbana. Non solo, come Politecnico cerchiamo di lavorare come facilitatori e connettori di altri bandi. Ad esempio, abbiamo collaborato con l’Università degli Studi di Milano che, tramite la sua ricerca, voleva lavorare sulla città Metropolitana di Milano. Abbiamo quindi collaborato per immaginare che una parte della ricerca europea potesse essere sviluppata in Città Metropolitana, facilitando il rapporto con i comuni dal momento che noi lavoriamo su quadri territoriali».

Forestami a Cormano
Forestami a Cormano

Un grande lavoro anche di squadra. 

«È entusiasmante lavorare con persone che si occupano di natura, anche con competenze molto diverse. L’ho appurato personalmente nel progetto del Centro Nazionale di Biodiversità, di cui il Politecnico è partner, una struttura che si occupa di mare, terra, città attraverso la collaborazione tra istituzioni e imprese. Io sono il principal investigator, insieme a Massimo Laura dell’Università Bicocca, sulla biodiversità urbana.  È una sfida molto appassionante perché la biodiversità in città è qualcosa che non si può “restaurare”. Uno dei temi dell’ultima COP (Conference of Parties, la riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici – United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC) è l’accordo Kunming-Montreal che pone come obiettivo entro il 2030 portare il 30% delle aree ad essere protette e il 30% dei suoli riportati allo stato di natura a livello globale. 

Evidentemente questo approccio è molto complicato in città, perché i suoli degradati non si possono riportare a uno stato naturale perché i suoli di partenza e le specie non sono quasi mai delle specie autoctone tout-court.

Il problema è che la diversità è intrinseca nella città, c’è il tema della relazione tra specie autoctone e specie alloctone.

Il punto è portare la biodiversità in una dimensione inedita: è una sfida ambiziosa, ma cerchiamo di farlo in un modo molto specifico, lavorando a dei temi (suolo, progettazione, servizi ecosistemici), con un approccio multidisciplinare e collaborativo. 

Il film Dont’ look up mi ha fatto molto riflettere, con la sua satira sull’indifferenza dei governi e dei media nei confronti dell’emergenza. È una situazione che vivo molto nel quotidiano, per quanto riguarda il tema di scollamento tra quello che stiamo vivendo e quello che succederà domani e che non vediamo. Siamo consapevoli dell’emergenza ambientale, lo riconosciamo dagli eventi climatici estremi che viviamo e che 5 anni fa non registravamo, con giornate a luglio che hanno battuto ogni record di calore, eppure da un lato non stiamo mettendo in atto azioni o modifiche ai nostri stili di vita, dall’altro sembra che qualsiasi azione sembri essere inutile.

Forestami ha un obiettivo semplice, comprensibile, vicino – migliorare la qualità dell’aria piantando nuovi alberi e arbusti in Città Metropolitana- con un impatto su un luogo molto specifico.

In termini generali siamo tutti a favore di misure e strategie per mitigare il cambiamento climatico, il problema sta nell’atto pratico, nel rinunciare a dei comfort. Tutti vogliamo più alberi in città ma siamo disposti a sacrificare i parcheggi? Eppure, se piantassimo tanti alberi al posto delle soste auto, staremmo molto meglio, innanzitutto perché useremmo meno l’auto, non creeremmo l’isola di calore, faremmo moto andando a piedi e passeggiando. Su un viale alberato sei al riparo dal sole battente. I vantaggi sono tanti ma la perdita di un comfort, è un grande ostacolo. Nel nostro sentire comune il verde non è visto come una pubblica utilità, su questo noi stiamo cercando di lavorare moltissimo perché la natura viene vista non come il nostro migliore alleato, ma come una risorsa che va solo manutenuta e crea disagi (fango, foglie d’erba etc.).

Prima di iniziare questo progetto, pensavo che la mancanza di alberi fosse un problema perlopiù di competenze, di coordinamento, di finanziamenti, non culturale.

Il progetto Forestami in questo caso si è evoluto moltissimo rispetto a questo aspetto, lavorando con le scuole, con l’Academy, facciamo al massimo delle nostre possibilità non tanto per promuovere il progetto, ma per spiegarne le ragioni: dobbiamo essere sicuri che la gente capisca perché stiamo facendo questo».

Anche le scelte economiche per favorire la transazione ecologica stanno vivendo le stesse resistenze

«In questo senso parliamo di una nuova economia. Le transizioni sono sempre molto complicate: passare da uno stato all’altro crea disequilibrio, si fa molta fatica. 

Il botanico Edward O. Wilson nel suo libro “Metà della Terra” sostiene che per salvare il futuro della vita, metà delle terre deve essere preservata: questo è un obiettivo. Questo secondo me inquadra molto bene anche la necessità di avere una visione anziché tante visioni. Forestami, al netto di tutte le difficoltà che possiamo avere nella trasformazione culturale, è una sfida dove la gente riesce a sentirsi parte».

Forestami a Vuittone

Sono i temi che poi sono messi sul piatto della discussione durante la COP 27.

«Io seguo con grandissima attenzione la COP, perché è un sistema ampio che fotografa un trend geopolitico molto interessante. Per noi italiani il riferimento è l’Unione europea che sta lavorando a una strategia per la biodiversità con la Nature restoration law.

Queste direttive, che fanno fatica a essere approvate coralmente, sono dei passi in avanti sulla biodiversità e sull’incremento del capitale naturale che cambieranno le nostre politiche. Il senso di queste politiche è darci una direzione che magari dal punto di vista nazionale non sempre abbiamo, riuscire ad avere una traiettoria molto forte che possa essere quella che ci porta verso la transizione ecologica.

Anche la COP ha tra gli obiettivi entro il 2030 il recupero del 30% delle aree terrestri e marine che devono essere conservate e gestite. 

La competizione sul suolo è una competizione sfrenata: i sistemi urbani sono il 3,5 % delle superfici emerse, ma il problema è che poi abbiamo i campi coltivati, gli allevamenti, le aree destinate ai trasporti, all’industria, alla logistica… l’impatto è devastante.

Pensiamo alla COP 21 di Parigi che aveva stabilito la soglia del 1,5 °C di surriscaldamento globale da non superare: nei fatti si sta facendo molta fatica a centrare l’obiettivo, non basta aver raggiunto l’accordo storico.

Quando gli Stati Uniti si erano sfilati dagli accordi di Parigi, le città americane fondarono un movimento per ribadire la loro adesione. Questo aspetto è interessante: le città assumono una dimensione di “lobby nazionale”, che era prima oggetto solo dei governi. Il ruolo delle città è sempre stato di portare innovazione, ma non è mai stato così forte dal punto di vista dell’influenza sulle persone e sui governi. Che le città anticipino i cambiamenti, basta guardare alla mobilità sostenibile: Parigi, Barcellona, Londra sono state apripista. Non possiamo non tenerne conto: guardare ai cittadini come parte di ascolto attiva è qualcosa su cui sempre di più dobbiamo lavorare». 

Tornando agli obiettivi COP 27, molti movimenti ambientalisti l’hanno definiti insufficienti. 

«Nella sostanza dei fatti mediare tra le diverse posizioni è molto complesso e non la definirei un fallimento. Abbiamo stabilito degli obiettivi quantitativi. È sempre importante fissare un valore fisso, un obiettivo misurabile perché fa capire alle persone di cosa stai parlando: il 30% è una soglia forse non è sufficiente, ma in accoppiata all’obiettivo dell’1,5 °C aiuta ad arrivare a qualcosa di concreto per il clima. L’emergenza ambientale è valutata come la vera emergenza? Forse è questo il punto dolente della questione: non dimentichiamo che dall’emergenza climatica derivano povertà, non accessibilità alle risorse, migrazioni e guerre. Non bisogna pensare solo all’aspetto ecologico.

Un altro aspetto è che a partire dal 2015 siamo stati molto esposti al tema della crisi climatica, ci siamo assuefatti e di conseguenza cullati. Stiamo già passando dalla mitigazione dei cambiamenti climatici all’adattamento, perché come sempre siamo abituati a lavorare in emergenza».

Quanto è importante la biodiversità? A volte nei contesti urbani viene percepita come un intralcio alla vita cittadina.

«La biodiversità e la sua tutela sono talmente importanti che l’abbiamo inseriti nella nostra Costituzione. Nel libro La sesta estinzione. Una storia innaturale, Elizabeth Kolbert intervista un esperto che per spiegare la perdita di biodiversità utilizza una serie di vasche di vetro, immaginando che ognuna di esse sia riempita da un diverso composto organico. Immaginiamo poi che ogni vasca sia collegata a quelle vicine da tubi lunghi e sottili con dei rubinetti dei tubi lasciati aperti anche solo per un minuto al giorno: le varie soluzioni inizieranno a diffondersi e gli elementi chimici a ricombinarsi, formando nuovi composti. Alcuni dei composti originali nel tempo si perderanno. Il sistema raggiungerà l’equilibrio, tutte le vasche conterranno la stessa identica soluzione e la varietà sarà eliminata, il che è proprio quello che si può aspettare che accada mettendo in contatto piante e animali isolati da lungo tempo, cosa che noi umani stiamo facendo. Al momento non siamo ancora in un sistema di equilibrio, evidentemente, ma stiamo andando in quella direzione, la perdita di biodiversità porterà ad avere le stesse specie ovunque, come i parrocchetti, che noi vediamo cinguettare in giro per Milano, ma che prima nidificavano a Roma». 

Quali sarebbero le azioni più impattanti per salvare il salvabile?

«La prima, sicuramente fare spazio alla natura, uscire dalla comfort zone e pensare che i sistemi naturali sono strutturali del nostro vivere e dobbiamo aumentarli dentro e fuori dalla città, connettendoli tra di loro.  Bisogna lavorare su grandi azioni di ripristino, conservazione e protezione perché quello che noi facciamo sulla natura è molto dannoso.

In secondo luogo, bisogna lavorare su una trasformazione culturale. Il Politecnico è un’università, quindi il tema della relazione del problema con l’educazione è fondamentale: bisogna fare in modo che i corsi di laurea siano un ambiente operativo dove questi temi siano sempre più discussi ed elaborati.

Lo scorso anno nell’ambito del progetto europeo U Forest, per portare il tema della forestazione urbana all’interno della didattica, ho tenuto un corso che ha raggiunto i 70 iscritti, che sono tantissimi per un insegnamento opzionale. Abbiamo realizzato anche un MOOC (corso online aperto e di massa) con 1000 partecipanti attivi. Questi sono segnali di una necessità di apprendimento su questi temi, i corsisti sono stati molto proattivi. È stato un percorso molto bello, con diversi ospiti anche di altre discipline, ad esempio degli agronomi.

Ma bisogna lavorare anche all’esterno dell’università, far uscire questi temi dalla dimensione esclusivamente scientifica per diffondere progetti, idee, informazioni che arrivino molto chiare e corrette alla popolazione. Insomma, un grandissimo lavoro di trasferimento di conoscenze e una grande dose di ottimismo: la sensazione è sempre quella di spostare l’oceano col cucchiaino ma non dobbiamo venir meno a questa sfida».

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