L’ingegneria dietro al rubinetto

La produzione e l’utilizzo dei prodotti che usiamo tutti i giorni, come i vestiti, le bottiglie, le padelle, i cosmetici, i farmaci, ecc., comportano l’inquinamento delle acque e questo può avere un impatto sulla salute umana attraverso l’acqua e il cibo. In questo contesto, dobbiamo essere pronti ad affrontare le future sfide ambientali del pianeta che sempre più metteranno alla prova il mantenimento degli standard della qualità dell’acqua e renderanno necessario il suo riutilizzo in un’ottica di economia circolare. Beatrice Cantoni è una ricercatrice del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale del Politecnico di Milano che ha vinto diversi premi e finanziamenti individuali su questi temi. La sua ricerca si concentra sul destino dei contaminanti emergenti lungo il ciclo dell’acqua. Da un lato, uno scopo è lo sviluppo e l’applicazione di una procedura di valutazione quantitativa del rischio chimico dovuto all’impatto di questi inquinanti sulla salute umana e sull’ambiente. Dall’altro lato, il secondo scopo è lo studio di diverse tecnologie per ridurre tali rischi nelle acque potabili, nelle acque reflue anche in ambiti di riuso agricolo e potabile delle acque reflue trattate. Fin dal suo dottorato collabora con diversi servizi idrici, centri di ricerca, università, esperti di tecnologie e tossicologi per trovare soluzioni multidisciplinari nella gestione sostenibile della risorsa idrica.

«Inizialmente ero più proiettata verso ingegneria matematica ma, dopo aver letto il piano di studi di ingegneria ambientale ho deciso di iscrivermi a quest’ultima – racconta la ricercatrice – Già dalla prima tesi triennale ho capito che la mia strada era di occuparmi del trattamento delle acque. Ecco, quindi, la scelta di intraprendere il percorso del dottorato, nel gruppo di ricerca della Professoressa Manuela Antonelli, sul tema del trattamento delle acque potabili per minimizzare il rischio potenziale per la salute del consumatore.

Abbiamo sviluppato una procedura per analizzare questo potenziale rischio dovuto alla presenza di ‘contaminanti emergenti’, nuovi contaminanti che sono stati rilevati in ambiente solo recentemente e di cui non si sa molto, né sul loro potenziale effetto sulla salute umana, né su come trattarli al meglio o su che concentrazioni aspettarsi nelle acque potabili.

L’obiettivo è ridurre le concentrazioni di questi contaminanti con un lavoro multidisciplinare: sono stata la maggior parte del tempo qui al Politecnico, ma poi ho trascorso un periodo all’Agenzia per la protezione ambientale tedesca (Umwelt Bundesamt, UBA) e alla Technical University di Berlino, dove abbiamo studiato una tecnologia per ridurre alcuni di questi contaminanti emergenti. Poi sono andata invece in Olanda, al KWR (Water Research Institute), istituto di ricerca sulle acque molto importante a livello europeo, dove abbiamo collaborato con tossicologi, esperti di tecnologie, data analyst, esperti con delle formazioni diverse. Questo mi ha permesso di vedere il problema da varie angolature.

Alla fine del dottorato, pur rimanendo nello stesso gruppo di ricerca, ho allargato l’orizzonte di ricerca includendo anche le acque reflue, sia civili che industriali, sempre con l’obiettivo di ridurre questi contaminanti ma nell’ottica di un maggiore riuso delle acque a causa della crisi climatica, basti pensare all’impatto sull’agricoltura e quindi sul cibo».

Il suo lavoro, quindi, è fatto di modelli ma anche di esperimenti in laboratorio.

«In laboratorio andiamo a testare in scala ridotta il trattamento delle acque che avviene in un impianto. Questo consente di andare ad osservare più velocemente, nel giro di giorni, quello che succederà in scala più grande nel giro di mesi. Così, possiamo valutare come funziona il trattamento in diverse condizioni in un tempo limitato.

Poi, grazie alle simulazioni con modelli, riusciamo a predire quale sarà la performance anche in situazioni che non abbiamo potuto testare, magari perché non si sono mai verificate ma potrebbero succedere in futuro, per esempio a causa dei cambiamenti climatici».

A proposito di crisi climatica e scarsità di acqua, il suo dottorato è stato finanziato da Metropolitana Milanese. Come è la situazione delle falde acquifere a Milano?

«A Milano siamo molto fortunati, questi contaminanti sono a livelli molto bassi non preoccupanti per la salute umana, però la ricerca serve proprio a capire se e come in futuro questa situazione potrebbe evolvere. Il cambiamento climatico potrebbe portare a un innalzamento delle concentrazioni di contaminanti o un peggioramento della qualità della falda. Noi dobbiamo prevenire e anticipare queste criticità, dando ai gestori tutti gli strumenti utili per poterle gestire.

Agli eventi di divulgazione o all’Open Day chiediamo al pubblico se si è mai chiesto da dove arriva l’acqua del rubinetto. Spesso diamo l’acqua corrente per scontata, non ne si conosce l’ingegneria, il design e la progettazione del trattamento e della distribuzione: tutto molto ben pensato e controllato in tempo reale, affinché l’acqua sia sempre sicura al 100% nel presente ma sempre pronti anche per il futuro. L’ingegnere ambientale in fondo è ‘nascosto’ dentro al rubinetto». 

Sta lavorando sul tema del cambiamento climatico con dei progetti di ricerca. Di cosa si tratta?

«Ho partecipato all’avvio del progetto “SafeCREW” finanziato dall’Unione Europea nell’ambito dei bandi Horizon Europe, progetto triennale partito a novembre in cui è coinvolto il mio gruppo di ricerca con diversi partner europei, tra cui proprio Metropolitana Milanese. L’obiettivo è quello di capire l’impatto del cambiamento climatico sulle risorse idriche disponibili e di come dovremo adattare la disinfezione delle acque potabili per minimizzare qualsiasi tipo di rischio: microbiologico da un lato, e chimico dall’altro. Infatti, ci troviamo davanti ad un trade off: bisogna disinfettare per ridurre microrganismi nell’acqua ma nello stesso tempo si potrebbero generare dei sottoprodotti. La gestione di questo processo è attualmente molto ben controllata anche con strumenti in real time. Ma questo progetto vuole valutare cosa bisognerà fare in futuro. Per esempio, alcuni partner tedeschi, che non disinfettano le acque attualmente, hanno altre strategie, ma col cambiamento climatico potrebbero dover ricorrere a questo processo, vogliono essere pronti per capire quando e come dovranno agire.

L’anno scorso ho ricevuto l’Individual Fellowship di AXA Research Fund (la Fondazione per la ricerca di AXA). Il bando era specifico sull’impatto del cambiamento climatico sulla salute umana. Il progetto che ho proposto, e che è stato selezionato tra gli 8 progetti finanziati al mondo, analizza come il cambiamento climatico possa influenzare il ciclo dell’acqua e portando ad un impatto sulla salute umana dovuto al consumo di acqua e cibo. Dobbiamo capire quali potrebbero essere le azioni che nel futuro dovremo attuare per minimizzare il rischio.

E proprio di rischio mi occupo nel progetto PNRR RETURN Extended Partnership finanziato dall’Unione Europea Next-GenerationEU, in cui sono stata coinvolta da marzo 2023. L’obiettivo è sviluppare nuove tecniche per valutare, gestire e minimizzare il rischio per la salute umana in contesti complessi come il ciclo acqua-cibo».

È stata selezionata per partecipare alla European Talent Academy di quest’anno, ci racconti in cosa consiste? 

«La European Talent Academy coinvolge una ventina di giovani ricercatori di tre università, il Politecnico di Milano, la Technical University di Monaco e l’Imperial College di Londra. Del Politecnico siamo in 8 da diversi dipartimenti. Il tema anche qui è la salute umana e dal 29 al 31 marzo scorso qui nel nostro ateneo ci siamo incontrati con gli altri ricercatori e ognuno ha presentato la propria ricerca per cercare delle collaborazioni e proporre dei progetti in comune tra le diverse università. È una iniziativa molto utile per ricercatori giovani come noi all’inizio della carriera, perché il progetto prevede anche visite agli altri atenei e ai loro laboratori. È un momento molto stimolante perché i problemi come la salute sono affrontati con delle competenze diverse, per esempio con gli architetti, i designer, gli ingegneri, i medici, i tossicologi»

Quali sono i contaminanti più studiati e attenzionati in questo momento?

«Nella ‘classifica’ metterei i PFAS perché le normative iniziano ad includere questi contaminanti emergenti nelle regolamentazioni per le acque potabili, i corsi d’acqua e le acque reflue. Per intenderci i PFAS sono quelli utilizzati per produrre i nostri vestiti con tessuti waterproof, ma anche per rendere le padelle antiaderenti. A settembre partirà un progetto LIFE-CASCADE di quattro anni in cui è coinvolto il mio gruppo di ricerca per valutare e ridurre la possibile contaminazione sia di PFAS che di microplastiche dovute alle industrie tessili. L’obiettivo è valutare se conviene lavorare alla depurazione direttamente a livello di industria o nei depuratori centralizzati che raccolgono le acque sia dalle industrie che dalle nostre città.

Un altro contaminante di cui si sente spesso parlare e che è già presente nella normativa europea sull’acqua potabile è il bisfenolo A (BPA), che è un additivo nella produzione di diversi materiali, in particolar modo plastiche e rivestimenti in resina dei metalli: spesso sulle borracce troviamo l’indicazione “BPA free” perché c’è maggiore consapevolezza su questi inquinanti che troviamo anche negli scontrini e nelle bottiglie di plastica». 

Noi nel nostro piccolo cosa possiamo fare?  

«Bisogna informarsi e scegliere in modo consapevole i prodotti che utilizziamo. A proposito di acqua potabile, l’Italia è il secondo paese al mondo per consumo di acqua in bottiglia (Fonte: Report Beverage Marketing Coorporation 2022). Agli eventi di divulgazione il pubblico sostiene che l’acqua del rubinetto è troppo dura o si hanno dubbi sulla sua sicurezza e ci si fida di più dell’acqua in bottiglia. In realtà, all’interno del progetto “ASAP! – Acqua Sostenibile Al Politecnico!” finanziato dalla Fondazione Cariplo, grazie a degli assaggi alla cieca di diverse acque in bottiglia e del rubinetto, fatti su più di 50 persone, abbiamo capito che la maggior parte dei partecipanti hanno dei preconcetti contro l’acqua del rubinetto che spesso non coincidono nemmeno con i propri gusti, ma che nascono proprio dal fatto che non si conosce il processo di controllo della qualità.

Abbiamo condotto uno studio rispetto ad alcune famiglie di questi contaminanti, usate come plastificanti, alchilfenoli e ftalati, e abbiamo osservato che seppur in basse concentrazioni sono più presenti nelle acque in bottiglia, perché sono in plastica e a volte non sono conservate bene, magari lasciate al sole o in condizioni non ottimali durante il trasporto.  L’acqua del rubinetto è controllata in modo costante al 100%, sappiamo da dove arriva e che trattamento riceve. A questo aggiungiamoci anche le emissioni di CO2 risparmiate nel trasporto e nella gestione dei rifiuti derivanti dalle bottiglie e cerchiamo di andare verso un consumo dell’acqua più sostenibile.

L’altro modo per avere minore impatto riguarda, invece, la scelta dei nostri prodotti, a partire dai cosmetici e vestiti: adesso sono sempre più i marchi PFAS free, leggendo bene le etichette o l’INCI per i cosmetici, ci sono le tabelle a cui fare riferimento. Noi ci occupiamo anche dei farmaci perché solo una parte viene assimilata nel corpo, tutto il resto finisce nelle acque reflue e di conseguenza nell’ambiente. Anche qui un consumo consapevole e ridotto al necessario può fare la differenza. Altri inquinanti di cui ci occupiamo sono i pesticidi, per esempio, tutti quei prodotti chimici utilizzati nell’agricoltura convenzionale che vanno a impattare non solo sulla salute umana dell’agricoltore ma anche sull’ambiente. Li troviamo nell’acqua e di conseguenza possono tornare a noi attraverso il cibo o l’acqua potabile. Scegliere un cibo coltivato nel rispetto della natura è anche un modo per tutelare la nostra salute.

Non servono allarmismi ma una buona consapevolezza non fa male: i contaminanti di cui sappiamo esattamente l’effetto sulla salute sono già normati e i gestori hanno dei limiti da non superare per garantire la sicurezza». 

In Europa abbiamo anche delle normative anche abbastanza stringenti rispetto al resto del mondo. 

«Rispetto al resto del mondo l’UE è avanti; per esempio i PFAS sono già all’interno della nostra legge sul trattamento e sulla qualità delle acque potabili, mentre nel resto del mondo stanno iniziando ad includere con tempi più lunghi.

Ci sono poi delle ‘watch list’, liste di contaminanti emergenti da monitorare, su cui la ricerca in pochi anni sta facendo dei passi avanti enormi grazia alla tecnologia. Da un lato l’avanzamento tecnologico serve per valutarne le concentrazioni: infatti, sono presenti a delle concentrazioni bassissime, nanogrammi per litro, un po’ come sciogliere una zolletta di zucchero nell’idroscalo. Dall’altro lato, i tossicologi si stanno chiedendo se tali concentrazioni sono pericolose o se lo saranno in futuro e se ci sono delle soluzioni più convenienti di altre».

Che progetti ha per il futuro?

«In futuro mi piacerebbe continuare nella carriera accademica, mi piace la combinazione ricerca e didattica. La nostra ricerca ha un impatto sociale diretto perché dà ai decisori politici i dati su cui poi costruire la normativa, e mi piacerebbe poter avere un impatto anche verso nuovi orizzonti, sapendo che ad oggi al 40% della popolazione mondiale non è garantita un’acqua potabile sicura.

Per esempio, l’Africa è stata la molla che mi ha fatto scegliere ingegneria e rimane quindi un obiettivo a lungo termine. Ad oggi, sono più focalizzata su questi contaminanti che sono più comuni nelle zone industriali, nelle nostre città più ‘avanzate’. Ci sono, però, diverse possibilità di andare a declinare quello che facciamo adesso per questi contaminanti in altre situazioni perché stiamo assistendo a una decentralizzazione delle industrie che prima erano solo in Occidente. Noi ci occupiamo dell’inquinamento idrico che questo processo porta.

L’anno scorso sono stata in Canada per qualche mese di post dottorato. Lì stanno studiando una tecnologia per trattare le acque reflue e riutilizzarle subito come acque potabili, perché nelle situazioni di comunità che vivono in aree remote e con sempre più scarsità d’acqua può essere una tecnologia utile. Certo è stata pensata per il Canada, ma in Africa potrebbe essere una soluzione molto utile. Molte malattie derivano anche dal mancato accesso all’acqua potabile, stabile e sicura. La nostra priorità è rendere l’acqua sempre più accessibile e sicura per tutti». 

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