L’innovazione sociale passa dal design

Davide Fassi per vocazione, e per lavoro, vive in mezzo alla gente, quella comune. È docente di Design Methods al Dipartimento di Design del Politecnico e membro del DESIS Network (Design for Social innovation and Sustainaibility). Pazienza e empatia sono tra i suoi “attrezzi del mestiere”, ma dietro c’è tanto studio, tanta competenza e tantissimo entusiasmo. Noi lo abbiamo incontrato a Off Campus Nolo, dove ci ha raccontato il suo percorso.

Lei nasce architetto e passa poi dal design degli interni al design dei servizi. In che modo i suoi interessi si sono evoluti in questa direzione?

Effettivamente ho una formazione da architetto. Quando ho iniziato a insegnare al Politecnico sono partito negli interni, occupandomi più che altro di spazi.

Tutti pensano che quando parliamo di interni intendiamo soltanto gli spazi confinati. In realtà ci siamo sempre occupati dello spazio in senso generale, anche dello spazio pubblico, della città, della dimensione del quartiere, degli esterni.

Inevitabilmente sono venuto in contatto con le attività e i servizi di questi luoghi: seguendo un filone architettonico che vede protagonista l’interno e poi l’esterno ho iniziato a riflettere e capire come fare interagire le persone con i luoghi. Quindi disegnare e progettare le esperienze che queste persone fanno nei luoghi.

A questo si aggiunge il fatto che all’epoca l’offerta formativa era diversa. C’era solo design, ambito di studi che negli anni successivi si è segmentato maggiormente: interni, servizi, prodotto.

Di cosa si occupa in particolare?

Io mi occupo di design per l’innovazione sociale. Coordino un gruppo di ricerca che si chiama Polimi DESIS Lab (Design for Social Innovation Sustainability), un gruppo di circa venti persone che si impegna nell’innovare la società attraverso il design, la ricerca e la didattica, con le persone e per le persone. Negli anni ho cambiato il modo di pensare e di operare, provando a coinvolgere l’utente finale che prende parte al processo progettuale.

E quanto è importante l’approccio innovativo in questo campo?

Come ricercatori e come Politecnico l’innovazione è alla base. Si fa ricerca per individuare e prototipare delle innovazioni, per poi implementarle nella vita reale.

La ricerca serve a creare innovazione tecnologica, sociale, di materiale, di processo e anche lavorando e ricercando con le comunità le dimensioni del quartiere. Oggi siamo qua in questo posto, abbiamo prototipato questo spazio perché di fatto abbiamo messo a posto un luogo che era disabitato da vent’anni. Un modello che ci aspettiamo che contagi un po’ tutto il resto. Finché non fai vedere come può essere una cosa nuova, è difficile immaginarla. Questo vale per lo spazio, ma anche per le attività che fai con le persone.

Assolutamente. E quali sono le competenze trasversali necessarie per lavorare, per fare ricerca per il sociale?

Innanzitutto empatia, perché con le persone se non hai un rapporto empatico è molto difficile generare credibilità.

Poi la pazienza: per lavorare in contesti sociali, di comunità, luoghi che ospitano persone con degli interessi comuni – che sia il quartiere o un parco – bisogna entrare un po’ in punta di piedi. Lavorare col design e l’innovazione sociale vuol dire mettere in conto che tu fai un percorso in cui ascolti, ti fai conoscere, capisci, proponi, magari fallisci, ricominci da capo. Ci vuole tempo, altrimenti rischi di entrare a gamba tesa come un pachiderma, soprattutto quando ti porti dietro un nome altisonante come quello del Politecnico in contesti che sono micro-locali. A volte la gente si chiede che cosa vogliano “questi del Politecnico” in una realtà così piccola? Quando capiscono che le competenze che uno porta, che sono quelle del design, dell’architettura e dell’ingegneria, possono essere messe al servizio del quartiere, incominci a costruire un rapporto.

Milano, uno scorcio del quartiere di NoLo
Cos’altro serve, oltre a empatia e pazienza?

Serve capacità di envisioning. Cioè creare visioni, scenari e soluzioni per il luogo in cui la gente vive quotidianamente, fuori dagli schemi. È necessario quindi andare aldilà delle cose più piccole, come i cestini dei rifiuti, e riflettere sul progetto dello spazio.

Lei ha avuto anche esperienze internazionali. Quanto ha inciso sulla sua formazione da ricercatore il confronto con l’esterno?

Ha inciso molto. La cosa bella è che pur lavorando in contesti super locali, la ricchezza che ti porti dietro ti arriva da un panorama internazionale. Porto quindi nel quartiere tutte le competenze accumulate all’estero.

Ci racconti qualcuno di questi luoghi.

Sono stato tre anni in Cina come visiting professor a Shanghai, dove stava iniziando un progetto di coinvolgimento del quartiere intorno al campus. Quella è stata una buona palestra, perché con una barriera linguistica non indifferente (io non parlavo cinese, ma solo inglese), un contesto e dinamiche totalmente diversi, ho acquisito delle modalità d’azione che mettevano in atto i docenti e i ricercatori del posto, cercando di capire quali erano quelle attuabili anche in altri contesti come questo. 

A mia volta, ho portato anche un po’ del mio vissuto a supporto della situazione. Ad esempio, tutta l’esperienza che avevamo accumulato con “Coltivando”, l’orto condiviso che abbiamo implementato in Bovisa, è servita a Shanghai, perché l’abbiamo riproposta con il coinvolgimento della comunità per fare orti anche lì.

Quindi ha portato con sé qualcosa di quei luoghi? Quali sono le idee e ispirazioni migliori che ha trovato all’estero?

Mi ha arricchito molto lavorare in un contesto come la Cina in cui le risorse destinate alla ricerca sono economicamente importanti, sia quelle pubbliche, grazie al PIL, sia quelle dei partner privati. Non solo, ho scoperto che l’innovazione sociale può essere accompagnata da innovazione tecnologica.

Alla Tongji University avevano aperto il FabLab, un laboratorio che dava sulla strada e che permetteva ai passanti di osservare tecnologie molto avanzate, dalla stampa 3D, all’intelligenza artificiale, al taglio laser. Le persone che passavano vedevano cose che non erano abituati a vedere. Innovazione, quindi, non solo legata alla progettazione.

A proposito: quali sono i prossimi progetti? Le prossima ricerche che vuole intraprendere? 

Abbiamo partecipato ad un bando di Creative Europe l’anno scorso, con un progetto che si chiama Human Cities – Creative works with small and remote places

Il progetto punta a portare le competenze del design in luoghi piccoli, remoti, dove di solito non arrivano, con il coinvolgimento di dieci partner europei (università, Associazioni di designer, startup). Ognuno di questi è un nodo di creatività che adotta un territorio piccolo e remoto del proprio contesto nazionale e cerca di portare un processo di progettazione, trovare delle soluzioni e lasciare un’eredità sul territorio, con il coinvolgimento delle persone. Questo perché ci siamo resi conto negli anni che ci sono dei contesti molto indagati e applicati, come la città di Milano e i suoi dintorni, o in genere le grandi città dove ci sono centri di competenza di creatività. C’è tutta una serie di realtà sparse e non direttamente connesse con i centri che invece necessitano di un po’ di spinta, soprattutto perché sono quei centri che magari sono depositari di una conoscenza e di tradizioni del “saper fare”, di conoscenze che vanno un po’ a perdersi a causa dello spopolamento e dell’invecchiamento della popolazione. Purtroppo la pandemia ci ha stravolto i piani, ma cercheremo di recuperare le attività sul posto. 

L’ingresso dell’Off Campus di NoLo
E poi c’è Off Campus…

Esatto. Uno di questi è il luogo dove ci troviamo, che ha passato la prima selezione del PoliSocial Award sul tema dello spreco alimentare.  

In pratica cerchiamo di mettere in rete i negozi di vicinato per recuperare l’eccedenza di cibo fresco o in scadenza e rimetterlo nel circuito di solidarietà. Una volta a settimana ospitiamo la “spesa sospesa” che è riuscita a raccogliere per tutta l’estate venti spese da trenta euro con prodotti freschi del mercato. Questo è stato possibile grazie a donazioni di persone del quartiere sulla piattaforma di Radio Nolo, nostra partner. 

A tale scopo abbiamo contribuito alla nascita di due associazioni dei commercianti, a cui si aggiunge l’attività al mercato rionale del venerdì con l’associazione Recup che si occupa proprio di recuperare la frutta e la verdura invenduta puntando sul concetto di economia circolare.

La ‘spesa sospesa’ organizzata per combattere lo spreco alimentare e aiutare le famiglie del quartiere
Diciamolo, agli aspiranti designer, quanta curiosità deve avere un ricercatore…

Serve tanta curiosità, perché se non ti fai stimolare da quello che succede fuori, non riesci a innovare. Per questo devi sempre essere curioso.

Non solo: devi anche imparare a guardare le cose da un altro punto di vista, che è la cosa più faticosa. Abituarsi a non vedere la realtà solo per com’è, ma provare a metterti nei panni di qualcun altro. Per fare questo devi essere molto stimolato anche dalle persone intorno, che provengono dai contesti più disparati, sia socialmente che culturalmente: nel nostro team di otto persone questa è una vera e propria ricchezza. 

Abitare la città in senso pieno e sostenibile è spesso una sfida. Che consiglio può darci? 

Io mi auguro che ci sia sempre di più partecipazione nella cosa pubblica, nella cura del bene comune; cura intesa anche come progettazione del bene.  Tradotto invece nella quotidianità, è il non girarsi sempre dall’altra parte, ignorando ad esempio un rifiuto a terra, ma raccogliendolo.

È giusto che il netturbino o le istituzioni in generale facciano il loro dovere, ma non bisogna demandare tutto agli altri: anche noi dobbiamo fare la nostra parte.

Nel suo lavoro, lei incontra ogni giorno tante persone comuni. C’è una persona o un episodio che le è rimasto più impresso? 

Sicuramente un episodio curioso è quello accaduto a Coltivando, l’orto in Bovisa curato da un gruppo di venti abitanti del quartiere. Inizialmente molti non solo erano scettici sul progetto, ma anzi lo avevano criticato sostenendo che le cose non andavano fatte così, che insomma non sapevamo quello che stavamo facendo. Molte di queste persone, piano piano, hanno iniziato ad oltrepassare il recinto, passando da una sterile critica ad una partecipazione attiva. Uno di loro è Guarino, 86 anni, che oramai è lì tutti i giorni dalle 7 del mattino! Guarino prima passava le sue giornate solo in casa, con sua moglie inferma, o al bar. L’orto gli ha cambiato la vita. Ecco: innovare, per me, significa anche cambiare la vita della gente con le piccole cose

Coltivando, l’orto condiviso in Bovisa
Ma quali sono le resistenze più comuni che avete incontrato? 

Sicuramente inizialmente il cambiamento crea frizione. Se penso a quello che abbiamo fatto in questo quartiere, dalla sperimentazione delle piste ciclabili al supporto ai locali per i tavolini all’aperto, noi abbiamo restituito molti spazi alla cittadinanza.  

Purtroppo, quando tocchi temi come la viabilità e i parcheggi, alcune persone partono sulla difensiva, perché magari abituati al parcheggio sotto al balcone o a fare tutte le commissioni in auto, nonostante il quartiere sia servito dal bike sharing e da ben tre fermate di metropolitana.  

Quando abbiamo realizzato degli interventi a Rovereto, ci siamo ritrovati la gente a protestare con i megafoni, per non parlare delle polemiche sui social network.  A questo aggiungiamo il fatto che, arrivando come Politecnico, c’era il pregiudizio dei “professori che credono di sapere tutto”. Puoi ben immaginare quali siano state le difficoltà.

Il restyling a NoLo tra via Venini e via Spoleto
E come avete fatto a superarle?

Innanzitutto abbiamo cercato di mantenere un profilo basso, soprattutto all’inizio, anche quando ci chiedevamo chi ce lo facesse fare. Il pregiudizio nei confronti del mondo accademico, se possiamo chiamarlo così, possiamo combatterlo solo con un maggior coinvolgimento della gente e una maggiore comunicazione della ricerca e di ciò che facciamo. Per questo ben vengano iniziative come la “Notte dei ricercatori” e una maggiore divulgazione fuori dall’ambito universitario, attraverso strumenti come Frontiere.


Aggiornamento. Dopo la pubblicazione dell’articolo, Davide Fassi ci ha comunicato con grande soddisfazione che il progetto di Off Campus NoLo è stato inserito nell’ ADI DESIGN INDEX 2021, la selezione del miglior design italiano compiuta ogni anno dall’Osservatorio permanente del Design ADI, che completa la preselezione per il prossimo Compasso d’Oro. Complimenti!

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