Una vita dedicata al design: intervista a Marva Griffin

IL PROFILO

Ritratto di Marva Griffin Wilshire
© Barbara Chandler

Quella di Marva Griffin Wilshire, venezuelana di nascita, cittadina italiana e milanese di adozione, è una vita programmaticamente dedicata al design, in particolar modo vicina a tutte le specificità che hanno caratterizzato il design italiano, mondo intrecciato in modo significativo con la cultura dell’architettura e dell’arredamento.

Una passione e un’energia infinite, le sue, che le hanno permesso di diventare, nel corso di cinquant’anni di lavoro, una presenza fondamentale nel sistema internazionale del design, riconosciuta da tutti gli interlocutori più importanti come la “grande madrina del design” (Paola Antonelli).

Negli ultimi vent’anni, in particolare, il suo lavoro è diventato ancor più vera e propria “missione”, da quando ha ideato e da allora curato il SaloneSatellite. Realtà unica al mondo, realizzata all’interno del Salone del Mobile di Milano, diventata dal 1998 la “palestra” dove accogliere, far crescere e promuovere i nuovi progettisti del design internazionale, mettendoli in dialogo con le migliori realtà produttive, e dando loro la possibilità di realizzare i propri sogni.

In concomitanza con l’edizione 2021 del Salone del Mobile, il Politecnico di Milano le ha conferito la Laurea Magistrale ad Honorem in Product Service System Design – Design per il Sistema Prodotto Servizio.

L’INCONTRO

Manca solo mezz’ora all’inizio della cerimonia di conferimento della laurea ad honorem, la sua.  Marva Griffin, visibilmente emozionata, si destreggia tra i saluti e le prove di vestizione della toga. Nonostante l’attività febbrile del dietro le quinte, accetta di incontrarci, sempre sorridente, sempre disponibile a raccontare le sue passioni. È emozionatissima. E, nonostante questo, risplende nel suo bellissimo vestito fucsia, che fa risaltare la carnagione ambrata e gli occhi vivaci e lucenti. Un originale anello a forma di rosa adorna le mani, che tradiscono la naturale tensione in un giorno così importante.

Marva Griffin Wilshire tiene la lectio magistralis durante la cerimonia di conferimento della laurea ad honorem in Product Service System Design

La ringraziamo per averci dato la possibilità di incontrarla qui, prima dell’evento. Abbiamo poco tempo, ma vorremmo ci raccontasse qual è stato il suo percorso di formazione. Che cosa ha maggiormente influito sulla sua scelta di occuparsi di design?

Fin da bambina ho sempre avuto la passione per la casa, l’arredamento, i fiori. Eravamo otto fratelli: cinque femmine e tre maschi. Mia mamma, mia nonna e le mie sorelle passavano molto tempo in cucina, a fare dolci che portavano in tutte le occasioni da amici e vicini. Io preferivo invece occuparmi dei fiori e spostare i mobili in casa. Mi arrabbiavo se non erano nella posizione in cui li avevo messi io! [ride]

Avevo veramente una passione, e spendevo persino la mia paghetta per acquistare nell’unico emporio del mio paesino, El Callao, in Venezuela, riviste di arredamento come House Beautiful e House and Garden.

Dove ha studiato?

Ho studiato tanto: ho fatto le elementari a El Callao, le superiori a Trinidad, nei Caraibi. Mio papà era nato lì, nell’isola di Nevis, un’ex colonia inglese, e la sua famiglia si era trasferita in quel paesino perché c’erano le miniere d’oro. Poi è stato mandato a studiare in Inghilterra, e io e mia sorella abbiamo ereditato da lui la passione per la lingua inglese. Successivamente sono tornata a Caracas, dove all’Accademia ho iniziato a studiare decorazione d’interni.

E poi c’è stata l’Europa, l’Italia. E in particolare Milano…

Come ogni sudamericano avevo la passione per l’Europa. Il mio premio di fine scuola è stato il tour che desideravo: Roma, Venezia, Vienna, Parigi e Londra. Le mie materie preferite erano geografia e storia, e mi affascinava leggere la storia d’Italia.

Ho cominciato a lavorare, mi sono sposata molto giovane, ho avuto un figlio, e ho deciso di venire in Italia, a Perugia, all’Università per stranieri, dove ho imparato anche l’italiano. Pensavo poi di spostarmi a Roma, ma un amico che mi conosceva bene mi ha consigliato Milano: «È la tua città», mi disse.

Ed effettivamente lo è diventata.

Per pura coincidenza, un fratello diplomatico fu mandato a Ginevra, e dopo aver scoperto che da Milano erano solo quattro ore di viaggio, con mio figlio andavamo spesso a trovarlo. Sono tornata in Venezuela per sei o sette mesi, ma poi ho deciso di tornare in Italia.

A Milano un’amica mi ha segnalato due annunci di lavoro sul Corriere. Uno era della C&B di Cassina e Busnelli (oggi B&B): è lì che sono stata selezionata ed è lì che ho scoperto veramente il design italiano. Erano gli anni ’70, ed è stata un’esperienza meravigliosa: ero assistente e interprete, mi occupavo della comunicazione.

Com’era lavorare in un ambiente così?

Lì erano di casa personalità come Mario Bellini, Afra Bianchin Scarpa, Gaetano Pesce. Lì ogni giorno respiravo quell’aria creativa. Per me è stata proprio una grande scuola.

Busnelli voleva che la mia scrivania fosse accanto alla sua perché potessi ascoltare tutto, viaggiare, comunicare all’esterno in inglese quello che succedeva in azienda. Pensate, lui parlava solo in dialetto.

Arrivavano veramente tutti, perché l’azienda C&B era leader negli anni ’70, aveva una tecnologia che si basava sul connubio e sull’innovazione tecnologica di Busnelli e Cassina. Le aziende venivano a trovarci, e poi noi andavamo da loro, aprendo mercati a New York, in Brasile, in Australia – sia Sidney che Melbourne – e poi in Giappone. Abbiamo girato il mondo non in ottanta giorni, ma in venticinque!

Marva Griffin con i suoi mentori: Piero Busnelli e Manlio Armellini
A quel punto lei era ormai nota a livello internazionale.

Mi hanno chiamato per lavorare come corrispondente per le riviste Maison & Jardin e American House & Garden

Busnelli era molto geloso, perché pensava che io andassi a lavorare con un altro brianzolo. Poi ha capito, e mi ha permesso di lavorare per la rivista, mentre per lui continuavo a fare le pubbliche relazioni da freelance.

Ho cominciato poi a organizzare mostre, molte a Venezia a Palazzo Grassi, come una sul tessuto con Beppe Modenese, che organizzava a Como la mostra della seta.

E poi è arrivato il Salone del Mobile…

Un giorno Manlio Armellini [futuro amministratore delegato e per molti anni anima del Salone di Milano – NdR], che avevo conosciuto il primo giorno alla C&B, mi ha detto: «Marva, ho bisogno di te!», e ho cominciato a collaborare con lui per dirigere i rapporti con la stampa internazionale del Salone del Mobile.

Lì ho capito che c’era un’esigenza forte e collettiva da parte dei giovani designer di avere un loro spazio e un loro riconoscimento, di mostrare la loro creatività agli espositori, ai fabbricanti, alle aziende. Armellini mi ha lasciato carta bianca e mi ha detto «Guarda cosa puoi fare per questi ragazzi». E così l’anno dopo, nel ’98, nasce il Salone Satellite.

Marva Griffin circondata da un gruppo di designer al SaloneSatellite 2016 di Shanghai
E com’è cambiato negli anni?

Non è cambiato nella sostanza, ma si è evoluto con il tempo. I ragazzi sono stati bravi fin dall’inizio: adesso c’è il mondo digitale, c’è la stampa 3D, è un’evoluzione continua. La mia grande soddisfazione è che tantissimi giovani che hanno iniziato con me sono diventati grandi designer nel mondo.

Ce n’è qualcuno che ricorda con particolare riguardo?

Non amo citarne solo alcuni. Però tra i tanti ricordo un ragazzo giapponese, Oki Sato, dello studio di design Nendo, che è un vero genio creativo. Per intenderci, è quello che ha disegnato la fiamma dei giochi olimpici di Tokyo; ma fa di tutto, e qui in Italia è conteso da tantissime aziende.

Poi ci sono gli italiani, come Paolo Ulian, che ha creato recentemente l’allestimento della mostra di Enzo Mari in Triennale.

La cosa emozionante è il legame che si crea, perché poi continuo a rimanere in contatto con tutti loro.

Ma quanto è importante la ricerca in questo settore? Cercare di conciliare la tradizione manifatturiera da un lato con le innovazioni tecnologiche…

Per i ragazzi è fondamentale unire tradizione e innovazione: loro sono molto bravi, molto attenti a tutto questo. Anzi, adesso che si parla tanto di sostenibilità, io notavo già dai primi anni la cura che avevano, per esempio, quando disegnavano sul legno. C’era un ragazzo cinese, tra gli altri, che ha realizzato lo stand ormai dieci anni fa, e addirittura aveva già presentato il vestito di sua moglie in 3D.

Marva Griffin riceve il Compasso d’Oro alla carriera (2014)
“Progettare per i nostri domani” era il titolo dell’anno scorso del Salone Satellite, che poi non è stato fatto.

Sì, l’idea era di porre l’attenzione su tutti coloro che hanno delle difficoltà, delle disabilità; sui più fragili, i bambini, gli anziani. Il domani resterà come tema anche per la prossima edizione, quella del 2022, con una riflessione sul disegnare un mondo in cui sia possibile vivere meglio.

Passione, tenacia, talento, curiosità. Quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere un designer, secondo lei?

Penso prima di tutto la curiosità. Poi bisogna scegliere una scuola che dia una buona preparazione. Infine leggere, vedere, non copiare ma informarsi su tutto quello che succede, aggiornarsi.

Lei ha ricevuto anche l’Ambrogino d’oro dal sindaco, come donna e professionista dalla visione internazionale e cosmopolita, ma dall’animo profondamente meneghino. Come l’ha accolta Milano, e come ha visto cambiare la nostra città negli anni?

Io sono grata a Milano e ai milanesi che mi hanno accolto, che mi adorano e che io adoro. Prima hanno dato il Compasso d’oro al Salone Satellite, poi l’Ambrogino d’oro, che adoro perché è un riconoscimento di questa città. Il coronamento di una vita dedicata al design è arrivato con questa laurea, che proprio non mi aspettavo [si commuove]

Marva Griffin riceve l’Ambrogino d’Oro dal sindaco di Milano Giuseppe Sala (2017)
A un giovane designer che si affaccia al mondo per fare carriera cosa consiglia?

Come in tutte le cose bisogna avere pazienza. Non ci si arriva dall’oggi al domani, non è che uno dice: «Voglio diventare Philip Stark» e raggiunge subito la vetta. Ci vogliono pazienza, costanza, curiosità. E soprattutto sviluppare il talento. Inoltre, come dicevo prima, bisogna studiare, essere curiosi, girare, informarsi, visitare i musei, i luoghi belli. L’Italia è un museo a cielo aperto e ha una produttività industriale pazzesca.

Oggi il design all’italiana è design internazionale: Philip Stark ne è un esempio. L’ho ribadito anche in una conferenza a Parigi: l’industriale italiano è aperto al dialogo; anche le aziende più piccole coltivano il design.


Ringraziamo Marva Griffin, per averci mostrato, oltre al suo immenso talento che oggi viene premiato, la sua grande umanità. Ci sorride ancora una volta mentre, indossato il tocco, si accinge a varcare la soglia del palco dove qualche minuto dopo terrà la sua lectio magistralis.

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