Scoprire come progrediscono i tumori grazie a un semplice uovo

Ad aprile di quest’anno, due ricercatori del Politecnico di Milano hanno ottenuto l’ERC Advanced Grant, il finanziamento assegnato dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) a studiosi affermati nel proprio settore, per portare avanti progetti innovativi e ad alto rischio.

Questo tipo di finanziamenti europei sono molto ambiti: per ottenerli bisogna superare la concorrenza scientifica in una selezione molto competitiva. Quest’anno, ad esempio, due nostri docenti si sono distinti tra i 1.735 progetti presentati, di cui solo il 14,6% ha raggiunto l’importante traguardo.

Abbiamo incontrato la prima dei due ricercatori, la professoressa Manuela Raimondi del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta”. Lavorerà al progetto BEACONSANDEGG, che combina la bioingegneria, l’oncologia, la genetica, la microtecnologia, la biofisica e la farmacologia. L’obiettivo è sviluppare una piattaforma innovativa in grado di replicare la progressione tumorale in laboratorio, sfruttando la vascolarizzazione di un organismo vivente.

Manuela Raimondi
Manuela Teresa Raimondi

Buongiorno prof.ssa Raimondi. Iniziamo con una presentazione del suo gruppo di ricerca.

Siamo il gruppo di Meccanobiologia del Politecnico di Milano, e siamo prima di tutto bioingegneri. La nostra passione è la ricerca. Nel laboratorio lavorano ricercatori di tutti i livelli, insieme a dottorandi e tesisti.

Qui al laboratorio di Meccanobiologia lavoriamo su modelli sia sperimentali, che computazionali, che riproducono funzionalità biologiche. Sono vent’anni che lo facciamo, studiando vari aspetti del funzionamento dell’organismo.

Cos’è la meccanobiologia, in una frase?

La Meccanobiologia è la scienza che studia l’influenza delle forze sulla risposta biologica. Ad esempio, l’influenza di forze sulla formazione o guarigione di un tessuto, o l’influenza delle forze sull’adesione fra cellule in un tessuto vivente. Può essere vista come la scala microscopica della tradizionale biomeccanica.

Ci parli del progetto BEACONSANDEGG

Ci proponiamo di realizzare un modello di come avviene un fenomeno legato alla progressione del tumore al seno, ovvero la fibrosi tumorale. Definiamo questo fenomeno anche come indurimento fibrotico, proprio perché è caratterizzato dalla formazione di un tessuto rigido come quello che si forma in un nodulo al seno.

Perché è così importante studiare l’indurimento fibrotico?

Il verificarsi di un indurimento fibrotico, un fenomeno complesso che coinvolge una reazione immunitaria, può annunciare la progressione del tumore. E nel tumore al seno l’aggressività è correlata proprio all’irrigidimento fibrotico del tessuto tumorale.

A causa dell’indurimento fibrotico, i farmaci chemioterapici fanno progressivamente più fatica a colpire le cellule tumorali: arrivano al tumore con la circolazione sanguigna, ma non riescono ad arrivare fino alle cellule perché il tessuto fibrotico progressivamente agisce da barriera fisica alla loro penetrazione nel tessuto. Si crea una forma di resistenza ai farmaci, che in ultima istanza è quella che causa la progressione del tumore.

Quali sono le difficoltà nello studiare questo fenomeno?

Non si possono semplicemente mettere delle cellule in un piattino di coltura per riprodurre la fibrosi. Si tratta di un fenomeno complesso, in cui partecipano i vasi sanguigni e il sistema immunitario del paziente.

La difficoltà principale nel creare un modello cellulare della fibrosi è che la gerarchia e la permeabilità della rete vascolare del tumore non sono riproducibili in coltura. Inoltre, la fibrosi è molto difficile da riprodurre perché è un processo lento, che può durare mesi, ed è impossibile da studiare anche nel modello animale per così tanto tempo. Negli stessi pazienti, ci possono volere diversi anni per osservarlo.

Il team di ricerca di BEACONSANDEGG

Da qui nasce l’idea del vostro modello. Quali sono le caratteristiche che lo rendono innovativo?

L’idea è stata quella di realizzare un modello dell’indurimento fibrotico che sia a metà strada fra un modello cellulare in coltura, e un modello nell’animale.

In pratica modellizzeremo dei micro-tumori a vari livelli di fibrosi. Utilizzeremo cellule di cancro al seno umane facendole aderire a micro-supporti polimerici tridimensionali. Impianteremo i micro-tumori nella membrana respiratoria di uova embrionate, al fine di suscitare una reazione fibrotica da corpo estraneo nei micro-tumori. Questo è un indurimento fibrotico molto simile a quello che si verifica nel tumore, e che quindi è adatto ai nostri scopi, che sono quelli di realizzare un modello di questo fenomeno.

Generiamo questi modelli di micro-tumore volutamente a diversi gradi di fibrosi, poi iniettiamo nella circolazione dell’embrione un farmaco antitumorale ed esaminiamo l’effetto barriera al farmaco, che causa una mortalità cellulare diversa nei diversi micro-tumori.

All’interno dei microtumori riusciamo a vedere con il microscopio i vasi sanguigni e il collagene, che è il costituente fondamentale della reazione fibrotica, come avviene nelle cicatrici. Più collagene troviamo, più questo è denso e orientato, più difficile sarà per i farmaci chemioterapici raggiungere le cellule tramite il circolo sanguigno.

Potremo inoltre variare la geometria dei micro-supporti polimerici per condizionare l’infiltrazione dei micro-tumori da parte dei vasi e delle cellule dell’embrione.

Quale sarà la fase successiva alla realizzazione del modello?

Il modello di fibrosi tumorale verrà validato verificandone la druggability, ossia di come i farmaci colpiscano le cellule tumorali all’interno del microambiente fibrotico. Testeremo sul modello alcuni farmaci antitumorali approvati, il cui risultato clinico è noto dipendere dal livello di fibrosi tumorale.

Il lavoro fornirà inoltre una piattaforma standardizzabile ed etica per promuovere la traslazione clinica di nuovi prodotti terapeutici in oncologia.

Il vostro modello supera infatti alcune criticità di altre metodologie sul piano etico…

Quello che facciamo è aprire una finestra attraverso cui vediamo la progressione della fibrosi tumorale direttamente in un organismo vivente. L’uovo viario embrionato non è però considerato un animale dal punto di vista normativo. Il nostro metodo è quindi molto più accettabile dal punto di vista etico, rispetto ai tradizionali animali da esperimento.

Le uova che utilizziamo sono gallate, ovvero fecondate dal gallo, con al loro interno l’embrione. È un metodo di studio utilizzato da tantissimi laboratori nel mondo, anche in università come il Politecnico, dove non è presente una struttura per la gestione degli animali per la sperimentazione.

Vita di laboratorio

Da dove nasce il nome BEACONSANDEGG?

Delle uova abbiamo già parlato… Con il termine “beacon”, in inglese, si intende un punto di riferimento luminoso, come un faro.

Beacon è anche un termine molto usato in biofisica per indicare i punti di riferimento fluorescenti che servono nelle osservazioni al microscopio, per riuscire a orientarsi nello spazio e nel tempo, per seguire un processo che avviene nell’organismo.

È quello che facciamo noi, impiantando la struttura con le cellule tumorali nell’embrione di pollo e poi mettendo tutto il sistema su un microscopio, per seguire nel tempo l’evoluzione della fibrosi.

I beacon formano una struttura tridimensionale regolare che offre punti di riferimento nello spazio su vari livelli. Su ogni livello conosciamo esattamente la distanza fra i vari beacon anche in altezza. Abbiamo bisogno proprio di questi punti di riferimento nello spazio per poter riposizionare il campo visivo del microscopio nel tempo, e per poter correggere eventuali aberrazioni dovute al fatto che studiamo in profondità un organismo vivente che evolve molto velocemente.

La struttura che ospita le cellule tumorali comprende anche questi punti di riferimento, i beacons appunto, che ci servono a ricostruire fuori dal sistema sperimentale un modello computazionale che ci possa far predire quale sia la concentrazione dei farmaci chemioterapici che arrivano alle cellule in funzione del grado di fibrosi.

Il progetto attuale ha radici lontane…

Un precedente progetto ERC che ho coordinato, denominato NICHOID (cioè “nicchioide”), è stato fondamentale. Si è svolto negli anni scorsi ed è riuscito a far passare l’idea che con micro-strutture artificiali, si potesse simulare un fenomeno biologico complesso in un modello esterno al corpo umano. Ai tempi di quel progetto, il fenomeno biologico complesso che ho modellizzato era il microambiente delle cellule staminali mesenchimali, cioè le cellule che si trasformano nel nostro tessuto connettivo muscolo-scheletrico.

Siamo partiti facendo l’ipotesi che si riuscisse, grazie a queste microstrutture, a realizzare fuori dal corpo umano un modello della nicchia staminale naturale, e ci siamo riusciti.

Molte nostre pubblicazioni hanno dimostrato che le cellule staminali, vivendo e dividendosi adese alle microstrutture artificiali, mantengono una funzionalità molto simile a quella che hanno nelle loro nicchie naturali nel nostro organismo. E dunque aperto la strada alla modellizzazione di altre nicchie complesse, come la nicchia fibrotica tumorale.

Modello di nicchioide

Ci spiegherebbe il concetto di nicchia?

Con nicchia si intende un microambiente, siamo su una scala di poche cellule. Tutto quello che facciamo in laboratorio non si vede a occhio nudo. Per questo lavoriamo tanto con i colleghi del Dipartimento di Fisica, e tra di noi c’è una biofisica strutturata che si occupa della parte di microscopia e di fluorescenza.

Forti di questa nuova competenza sulle nicchie, abbiamo voluto fare un salto di livello, occupandoci di un’altra nicchia, sempre più complessa, quella fibrotica dei tumori solidi.

Non sarei mai arrivata qui se non mi avessero finanziato NICHOID, e altri due progetti ERC collegati ma di trasferimento tecnologico. Noi siamo partiti cinque anni fa da 3 microstrutture e oggi possiamo farne 8000 in 24 ore grazie alle basi tecnologiche che abbiamo sviluppato.

L’idea del nicchioide ha avuto successo anche fuori dal Politecnico…

Il nicchioide è ormai in commercio grazie ad una start-up che abbiamo fondato nel 2019. Ci sono voluti 12 anni e tre finanziamenti ERC per arrivare a questo risultato.

Abbiamo anche lavorato con la European Space Agency (ESA), che ci finanzia per esplorare l’utilizzo del nicchioide per fare esperimenti di biologia in microgravità. Abbiamo sviluppato in collaborazione con iiT una versione del nicchioide scritta con il laser su un polimero, anziché su vetro. Gli esperimenti a bordo della stazione internazionale orbitante sono sul glioblastoma multiforme, una forma molto aggressiva di cancro al cervello; utilizziamo cellule di tumore disseminate sul nicchioide e collocate in una piccola cartuccia a perfusione. Il set-up sperimentale è piccolo, pesa poco, e si può usare come bidimensionale per l’operatore anche se è tridimensionale per le cellule.

Bioreattore miniaturizzato MOAB per la coltura di organoidi

Parliamo un po’ del suo percorso professionale… Com’è nata questa passione per la ricerca?

Io mi sono laureata in ingegneria meccanica, ho poi scelto di fare il dottorato di ricerca in bioingegneria, e da allora ho sempre fatto la bioingegnera. Ho iniziato alla fine del dottorato di ricerca con le colture cellulari e mi sono buttata dentro in maniera pressoché totale nella biologia.

Io intendo il bioingegnere secondo l’accezione più internazionale del termine, rispetto a quella invalsa in Italia. All’estero, infatti, per i bioingegneri non si distingue la competenza in ingegneria da quella in biologia. I bioingegneri sono scienziati a metà strada fra i biologi e gli ingegneri. In Italia c’è ancora un rigido controllo disciplinare che fa si che il bioingegnere resti un ingegnere, e di biologia si occupino il biologo o il medico. Questo certamente non migliora la competitività dei bioingegneri italiani sull’ottenimento di finanziamenti ERC.

Quanto è difficile vincere un finanziamento ERC?

Sono finanziamenti molto competitivi. I finanziamenti ERC che ho ottenuto con più fatica sono stati i due progetti di ricerca fondamentale cioè il Consolidator, NICHOID e quest’ultimo Advanced, BEACONSANDEGG. I due finanziamenti ERC di trasferimento tecnologico sono stati progetti più ridotti, meno difficili da ottenere.

Nel 2012 feci la mia prima richiesta per il progetto NICHOID, e non mi fu finanziato perché secondo i valutatori non avevo sufficiente indipendenza scientifica sugli aspetti biologici della ricerca.

Allora io volevo fortissimamente avere questo finanziamento, volevo rendermi indipendente e attivare un mio laboratorio di meccanobiologia. È così che mi iscrissi a medicina. All’epoca avevo 44 anni. Feci il test di ammissione con i ragazzi di 18 anni, lo passai, seguii tutti i corsi e diedi vari esami del primo anno di medicina qui a Milano.

Dopodiché, non riuscii ad andare avanti perché a medicina è richiesta la frequenza obbligatoria, che era incompatibile con i miei impegni accademici. Quel primo anno, però, mi servì molto a colmare tutte le lacune che avevo.

Riproposi quindi il progetto, e finalmente me lo finanziarono.

Lei si sente più biologa o più ingegnera?

A livello di competenza, mi sento veramente a metà tra le due figure. Come mentalità sono un po’ più ingegnera. Ci tengo a progettare, le tecnologie mi interessano molto.

Però capisco la mentalità dei biologi, simile a quella dei chimici, in cui c’è una complessità estrema da affrontare, e la dipendenza da centinaia di parametri, in tutti i fenomeni. Per l’ingegnere è qualcosa di difficile da gestire. Di solito noi abbiamo pochi parametri da controllare, ben definiti.

In biologia, invece, i fenomeni sono molto complessi, bisogna quindi riuscire a semplificare, a ridurre il numero dei parametri, e aprire delle piccole finestre di osservazione semplificate su fenomeni di una complessità stravolgente. Stiamo iniziando solo ora a inserire modelli di studio teorici.

Laboratorio di Meccanobiologia

È un po’ quello che fate con il vostro progetto…

Esatto. Apriamo una finestra su un oggetto che è molto controllato perché l’abbiamo fabbricato noi, ci abbiamo messo le cellule che volevamo noi, con una certa mutazione genica che decidiamo noi.

Ci possono essere tante diverse mutazioni che danno lo stesso tipo di tumore: noi possiamo controllare il tipo di cellule che usiamo, la forma del tumore che impiantiamo nell’organismo vivente, e riusciamo con un microscopio e con i beacons a seguire l’evoluzione e a costruire un modello teorico del fenomeno di fibrosi.

È il classico progetto di bioingegneria, cioè di ingegneria di una struttura fuori dal corpo umano, generata dall’ingegnere, che comprende una parte artificiale e una parte cellulare. In questo caso, abbiamo creato un modello che unisce una parte artificiale e addirittura un organismo vivente intero.

Apriamo una finestra microscopica su mondo di una complessità stravolgente, di cui riusciamo a controllare un singolo aspetto, cioè quello che al momento ci interessa.

Quindi, come mentalità, sono proprio diventata un ibrido fra l’ingegnere, che controlla un sistema che ha progettato, e un biologo, che tiene conto anche del sistema molto più complesso che influenza la parte controllata.

In che fase è la biologia oggi, e come cambiano i rapporti con l’ingegneria?

La biologia e la medicina sono due discipline che sono in questo momento storico in una fase di transizione: tra l’essere completamente fenomenologiche – cioè faccio un esperimento, ti dico cosa succede, faccio un altro esperimento e ti dico cosa succede in quest’altro caso – e una visione invece modellistica, più teorica – cioè faccio un modello, scrivo un’equazione, poi controllo con l’esperimento se il modello fornisce delle previsioni corrette.

È un momento importante per i bioingegneri, perché mettono la loro capacità di fare modelli e di controllarli al servizio di questa transizione che sta attraversando la disciplina.

Le protagoniste del progetto BEACONSANDEGG

Il nostro magazine parla di ricerca, e non a caso si chiama “Frontiere”. Anche lei ha definito il suo progetto un progetto di frontiera. Ci spiega perché?

Si tratta di un progetto realmente di frontiera nel campo di ricerca dei modelli cellulari. Non è né ricerca di base, né ricerca applicata: stiamo aprendo la strada ad un nuovo approccio nella ricerca biologica. Ad una nuova frontiera.

La distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata, peraltro, ai miei occhi risulta oggi limitante. Credo che esistano solo la ricerca di base, e le sue applicazioni. Ma servono i risultati della ricerca di base perché ci sia “qualcosa” da applicare.

Noi, con questo progetto, ci concentriamo maggiormente sulla ricerca di base. Nessuno ha mai realizzato finora un modello di fibrosi, perché non si può realizzare nell’animale e non si può nemmeno in laboratorio. Noi abbiamo avuto l’idea di provare una terza via: un ibrido controllabile come un modello di laboratorio, ma realistico come un modello nell’animale.

Qualcosa che ancora non esiste, ma che tocca a noi, ora, sviluppare e validare.

Cosa vede nel futuro di BEACONSANDEGG?

Per i prossimi cinque anni saremo completamente assorbiti da questo progetto. Tutti i ricercatori del laboratorio ne sono entusiasti, anche perché i loro risultati preliminari, che hanno raggiunto con grosso impegno in questi anni, sono stati fondamentali per ottenere il finanziamento.

Si tratta infatti di un progetto molto rischioso, ma il fatto di avere in mano questi risultati preliminari ci rassicura. I progetti ERC sono così: “high risk, high gain”. Il finanziamento ricevuto è la nostra benzina per volare alto.

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