Mattia Sponchioni con i colleghi nel laboratorio di biostapa 3d

Studiare i tessuti neuronali grazie alla stampa in 3D

Scoprire le cause delle malattie neuronali attraverso i tessuti stampati in 3D: è questo lo scopo del progetto finanziato da Fondazione Cariplo nell’ambito del bando “Ricerca biomedica condotta da giovani ricercatori 2021” che unisce gli sforzi dei ricercatori del Politecnico di Milano e di Humanitas University.

Lo studio, denominato “Elucidating the molecular mechanisms underlying Pitt-Hopkins syndrome through the generation of 3D printed vascularized cortical organoids”, indaga le cause molecolari dell’insorgenza e dello sviluppo della sindrome di Pitt-Hopkins, una malattia a carico del sistema neuronale, grazie alla realizzazione di un modello in vitro di corteccia cerebrale umana tramite la biostampa 3D di organoidi neuronali vascolarizzati (riproduzioni dell’organo).

Controllando in modo accurato l’architettura di questi sistemi mediante le più innovative tecnologie di stampa 3D è infatti possibile tentare di riprodurre la complessità strutturale della corteccia cerebrale, con l’obiettivo di integrare i circuiti neuronali con il loro intricato sistema di supporto (vascolarizzazione). Punto cruciale questo, che permetterebbe di raccogliere dati biologici importanti su scale temporali più lunghe rispetto ai modelli oggi disponibili.

Il lavoro è coordinato dal ricercatore Mattia Sponchioni del Politecnico di Milano in collaborazione con la dottoressa Monica Tambalo di Humanitas. Abbiamo chiesto a Mattia di raccontarci di più della sua ricerca e di come si è appassionato a questo ambito scientifico.

Mattia, qual è il percorso che l’ha portato a fare ricerca al Politecnico? Quanto hanno contribuito i suoi studi?

«La comprensione dei fenomeni che ci circondano mi ha sempre affascinato. Sin da piccolo ho sempre cercato di rispondere alla domanda “perché?”, che mi sorgeva spontanea alla vista e all’esperienza di qualcosa di nuovo. La chimica mi ha aiutato a dare delle risposte a queste domande e, data anche la mia natura pratica, è stato tutto sommato facile decidere di immatricolarmi a ingegneria chimica al Politecnico di Milano. Nonostante i momenti di stress e sconforto che non sono mancati durante il percorso di studi, a posteriori riconosco quanto la scelta sia stata la migliore possibile per la mia indole, dandomi modo di soddisfare la mia curiosità e permettendomi di imparare molto. Ma quello a cui hanno contribuito maggiormente i miei studi è stato fornirmi un metodo e una flessibilità di pensiero, che mi hanno permesso di spostarmi dalla chimica industriale alla biomedicina in modo (quasi) indolore, applicando gli stessi concetti e principi».

Perché ha scelto l’ingegneria chimica? Il tuo campo di ricerca ci fa pensare all’ingegneria biomedica…

«Trovo molto interessante la domanda, perché evidenzia e conferma la multidisciplinarietà della ricerca che sto conducendo. Tradizionalmente l’ingegnere chimico è pensato in congiunzione con i grandi impianti di produzione di prodotti ad alto consumo. Questo binomio si applicava rigorosamente nel periodo della grande espansione industriale e in generale fino alla fine dello scorso millennio. L’avvento delle nuove tecnologie e le conoscenze che ne sono derivate hanno cambiato questa concezione, portando l’individuo al centro della ricerca. In effetti, l’essere umano può essere visto come un impianto chimico, dove avvengono trasformazioni e separazioni che sono il pane di un ingegnere chimico. Ogni organo può essere pensato e modellato come un reattore chimico, per quanto complesso. E nel loro insieme i diversi organi, tessuti e vasi sanguigno costituiscono un processo integrato che con grande efficienza converte materie prime in energia, che è il principio alla base della vita. Su una scala ancora più piccola, la cellula è un reattore chimico estremamente complesso. Al punto che l’uomo non è ancora in grado di comprenderne fino in fondo il funzionamento, per non parlare di riprodurlo. Questa visione mi ha sempre affascinato e anche stimolato verso una comprensione sempre più completa di questo “impianto” così complesso. È proprio per questo che con la mia ricerca ho deciso di portare un approccio da ingegnere chimico al campo biomedico, cercando di affrontare problemi complessi da un punto di vista diverso, che storicamente si è dimostrato un buon modo per superare gli ostacoli».

“Il punto di incontro tra vita personale e da ricercatore è senza dubbio la mia curiosità, che, devo ammetterlo, si traduce spesso in testardaggine nel cercare di capire a tutti i costi i fondamenti ingegneristici e chimici che si celano dietro i fenomeni e le operazioni anche più quotidiane che ci vengano in mente”.

Mattia Sponchioni
È uno dei ricercatori che sta lavorando su come scoprire le cause delle malattie neuronali attraverso i tessuti stampati in 3D con un progetto finanziato da Fondazione Cariplo nell’ambito del bando “Ricerca biomedica condotta da giovani ricercatori 2021” che unisce gli sforzi dei ricercatori del Politecnico di Milano e di Humanitas University. Sembra un progetto molto avveniristico ma al tempo stesso ambizioso. Ci può raccontare come sta andando questa ricerca e come si coniuga il sapere e l’approccio politecnico con quello dei colleghi di Humanitas?

«Concordo sulle definizioni di avveniristico e ambizioso e vorrei aggiungerne una terza: sfidante, per via della complementarietà delle competenze richieste. Non nego che il primo passo della ricerca sia stato trovare un vocabolario comune tra noi ricercatori del Politecnico e i colleghi di Humanitas, abituati a parlare lingue molto diverse. Il raggiungimento di un equilibrio che permetta di esprimere al meglio le competenze specifiche di ciascun gruppo di ricerca è la chiave per affrontare un progetto multidisciplinare come questo. Raggiunto questo equilibrio, la definizione dei ruoli è venuta piuttosto spontanea. La componente ingegneristica dei ricercatori PoliMi si sta dedicando alla realizzazione e all’ottimizzazione del processo di stampa, nonché del supporto utilizzato per sostenere la crescita delle cellule neuronali. I nostri laboratori sono equipaggiati con le più recenti tecnologie di biostampa 3D, in grado di garantire alte risoluzioni e al contempo stress limitati per le cellule. La caratterizzazione biologica dei tessuti stampanti in 3D, d’altra parte, è lasciata al gruppo di Humanitas, esperta nella realizzazione di saggi che permettano di definire la vitalità cellulare e l’espressione di markers specifici in grado di dare indizi chiave nello studio dell’insorgenza e progressione di malattie neurodegenerative. Il progetto, della durata di 3 anni, è solo agli inizi ma stiamo avendo risultati incoraggianti. Il primo, non banale, è la possibilità di crescere cellule neuronali in costrutti stampati, controllandone la forma e le dimensioni. Non solo questo, ma anche la possibilità di co-stampare altre linee cellulari, tra cui cellule endoteliali che abbiamo dimostrato formare spontaneamente tubuli che assomigliano a vasi sanguigni. Il tema della riproduzione del sistema vascolare è in effetti la principale sfida per chi si cimenta con la biostampa 3D. Infatti, l’apporto di nutrienti alle cellule stampante è fondamentale per avere modelli fedeli e che possano essere studiati su tempi sufficientemente lunghi da fornire informazioni utili. Proprio questo sarà il prossimo passo della nostra ricerca, potendo contare su un team con competenze a tutto tondo sull’argomento».

Rappresentazione schematica dell'obiettivo del progetto: realizzare un modello tridimensionale di corteccia cerebrale mediante biostampa 3D di cellule derivate da organoidi corticali
Rappresentazione schematica dell’obiettivo del progetto: realizzare un modello tridimensionale di corteccia cerebrale mediante biostampa 3D di cellule derivate da organoidi corticali
Fuori dal laboratorio, come si concilia la vita personale con quella da ricercatore? Ha degli hobby che la aiutano anche nel lavoro di ricercatore?

«Il punto di incontro tra vita personale e da ricercatore è senza dubbio la mia curiosità, che, devo ammetterlo, si traduce spesso in testardaggine nel cercare di capire a tutti i costi i fondamenti ingegneristici e chimici che si celano dietro i fenomeni e le operazioni anche più quotidiane che ci vengano in mente. Neanche a dirlo, mi piace molto cucinare, che ha in sé molta più chimica di quanto uno si immagini. Mi diverte molto sperimentare nuove ricette e procedimenti. Soprattutto mi sono appassionato al mondo della lievitazione e della pizza fatta in casa. Ogni connessione che riesco a trovare con l’ingegneria chimica mi dà un grande appagamento. Tra i miei hobby c’è anche la stampa 3D, che peraltro ha ispirato il tema della ricerca finanziata da fondazione Cariplo. Prima di arrivare anche solo a stampare cellule neuronali, ho mosso i primi passi nella stampa 3D realizzando oggettistica domestica. Ho sempre trovato entusiasmante poter trasferire un’idea in un oggetto tangibile, attraversando tutte le fasi di sviluppo, dal disegno alla realizzazione. Questo mi ha consentito di imparare concetti nuovi, che ho poi trasferito nella mia ricerca. Se sono in grado di stampare un portachiavi controllandone la forma e le dimensioni a mio piacimento, perché non posso stampare anche un organo funzionante?»

Qual è il suo sogno nel cassetto?

«Il mio sogno è sicuramente quello di dare un contributo alla comprensione delle cause di malattie ad oggi incurabili e favorire lo sviluppo di metodi diagnostici e terapie che possano salvare delle vite. Oltre al progetto finanziato da fondazione Cariplo mi occupo infatti anche dello sviluppo di processi innovativi per la produzione di nuovi farmaci che si stanno rivelando molto promettenti. Parlo per esempio di anticorpi monoclonali o acidi nucleici. Di questi ne sono un esempio i vaccini a mRNA utilizzati nella lotta contro il Covid-19. Nonostante la loro efficacia, gli alti costi delle terapie sono spesso uno scoglio insormontabile, che impedisce ai pazienti di farne uso. Per questo sogno di creare consapevolezza all’interno dell’industria biofarmaceutica delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, tra cui soprattutto i processi in continuo e la digitalizzazione, nell’aumentare l’efficienza della produzione, riducendo al contempo i costi e l’impatto ambientale. Questo è anche il messaggio che cerco di trasmettere ai miei studenti, che costituiscono i ricercatori e la classe dirigente di domani: non lasciare che il conservatorismo possa rappresentare un ostacolo allo sviluppo e al benessere dell’uomo».

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