Dall’abito comprimibile ai capi senza cuciture: quello di Nanni Strada è il contributo di una pioniera che ha ridisegnato i confini della sartoria
«Nanni Strada ha contribuito allo sviluppo della cultura del progetto ed è parte di quelle radici culturali, che a partire dagli anni ’60 hanno saputo fare del design per la moda una delle espressioni di eccellenza del nostro paese»
con queste motivazioni Nanni Strada è stata insignita della Laurea magistrale ad honorem in Design per il Sistema Moda e Design for the Fashion System dal Politecnico di Milano lo scorso marzo.
In occasione della cerimonia, tra un preparativo e l’altro, siamo riusciti a farci raccontare quello che c’è dietro a una storia importante per la moda italiana. Una storia che parte dagli anni Settanta quando Strada sviluppa una ricerca trasversale in costante dialogo con il mondo della produzione, dell’innovazione tecnologica e della sperimentazione industriale, collaborando con le più importanti aziende in tutti i settori dell’abbigliamento. Negli anni Ottanta inaugura due catene di negozi monomarca in Portogallo e in Giappone e lo show-room Nanni Strada Design Studio a Milano.
La sua visione di abito come “elemento puro” sfugge alle regole sartoriali e alla stagionalità tipica dello stilismo. Nel 1970, progettando la linea Sportmax di Max Mara, rivoluziona il concetto classico di capo spalla. Approfondisce quindi il tema del rapporto abito-corpo con abiti geometrici e comprimibili, venduti in packaging piatto.
Nel 1973 progetta per Calza Bloch “Il Manto e la Pelle”, un pionieristico sistema di indumenti realizzati con processi automatici e senza scarti di produzione, costituito da abiti-mantello in un unico pezzo di tessuto e dal primo capo al mondo completamente prodotto senza cuciture. Il progetto viene premiato nel 1979 con il Compasso d’Oro ADI.
Nel 1986 crea i Torchon, abiti da viaggio comprimibili e stropicciati a cui si ispireranno i più grandi nomi dello stilismo concettuale.
Il suo lavoro è stato esposto nelle più prestigiose istituzioni internazionali in Europa, negli Stati Uniti, in Russia, in Cina e in Giappone. In Italia, è stato ospitato in più occasioni all’ADI Design Museum e alla Triennale di Milano, che nel 2003 le ha dedicato la mostra monografica Abitare l’abito e nel 2014 ha acquisito parte dei capi storici dell’Archivio Nanni Strada per la propria collezione permanente.
Da bambina, durante la Seconda guerra mondiale lei era sfollata a Bellagio e nel ristorante di famiglia lei era incaricata ai riccioli di burro: in quella mansione cercava di metterci cura e perfezione, che sono stati un po’ gli elementi della sua carriera.
«Ero molto socievole perché ero l’unica bambina in un mondo di adulti, in una famiglia molto numerosa e molto affettiva. La molla di tutto era il fare, non stavo mai ferma, tranne quando disegnavo. Inoltre, ero molto comunicativa, non avevo difficoltà a parlare con un adulto, mi piaceva stare in contatto con la gente. Mi sono sempre detta che se non avessi fatto il mio lavoro mi sarebbe piaciuto gestire un albergo: lavorare con e per le persone».
Il contatto con la gente che ha potuto coltivare anche insegnando nelle più importanti università in Italia e all’estero.
«Mi piacevano le classi numerose. Insegnavo seguendo le dinamiche dello sport: creavo dei gruppi che entravano in sana competizione, premiando i risultati. Forse l’unica cosa che è mancata nella mia vita, che per il resto è stata bellissima e fortunatissima, è stato proprio praticare uno sport».
Poco fa ha accennato alla sua passione per il disegno, che ha definito “un gioco impulsivo”, perché sentiva la necessità fisica di disegnare.
«Ho sempre disegnato. E quando ho dovuto dire ai miei genitori cosa volessi fare non ho avuto dubbi. Lo scoglio principale è stato reinserirmi nel sistema italiano dopo aver frequentato dai 6 ai 14 anni le scuole in Argentina, per poi tornare nella scuola italiana nei primissimi anni Sessanta. È stato per me un trauma perché da un paese grande con un orizzonte a 360 gradi ho dovuto resettare la mia visione e in Italia tutto mi sembrava piccolo e vecchio».
Poi però con la scuola di figurino, la vita ha preso un’altra piega, con il suo maestro Paolo Schiavo Campo che l’ha introdotta all’astrattismo. Come è avvenuta la “scoperta” delle figure geometriche?
«La scoperta della figura geometrica è avvenuta attraverso i libri di Max Tilke, l’etnologo che ha studiato l’abbigliamento orientale, scoperto grazie ad una mia amica, Cathy Berberian, cantante di musica moderna. Lei vestiva con questi abiti orientali, molto semplici, e aveva i libri di Tilke. È stata un’illuminazione, mi son detta “questa è l’idea, questa è la sartoria!”. Io detestavo la sartoria, non come fatto creativo perché i sarti francesi sono stati dei grandi artisti, ma detestavo l’idea della sartoria su un corpo ‘a norma’, su misure standard: circonferenze, petto, vita, fianchi, modello base…»
Paradossalmente le forme geometriche, perfette per natura, hanno aiutato non a coprire ma a rendere più agevoli le imperfezioni. Lei si è sempre spesa per la vestibilità, per una certa comodità degli abiti.
«Non la chiamerei comodità, ma direi libertà. Libertà perché sono capi aperti, non hai punti di attacco, e poi l’abito cade, con una eleganza naturale.
Per me l’invenzione del collant è stata un’invenzione da premio Nobel, perché le donne indossavano giarrettiere, calze scomode… avere questi indumenti che sono così facili, elastici e piacevoli è tutta un’altra storia».
Qual è l’importanza del processo?
«Ho scoperto l’importanza del processo perché ho frequentato la fabbrica. Quando c’erano le fabbricazioni di prototipo, io andavo sempre in fabbrica a vedere cosa e come operavano, come assemblavano, come cucivano, perché è in quel momento che tu puoi modificare le cose. Volevo esserci, assistere al processo, anche perché la fabbrica era un luogo molto identitario, allora c’era la coscienza di classe, molto politicizzata, gli operai erano consapevoli del valore del loro lavoro. Adesso noi siamo individualisti e disgregati perché non siamo a contatto con le altre persone, perché facciamo tutto con questi strumenti, le nuove tecnologie, che sono utili, ma anche pericolose. Abbiamo una considerevole perdita della manualità, del fatto di fare le cose con le mani, dello scrivere, del disegnare… L’essere umano sta perdendo la sua umanità, a poco a poco».
Si è passati da una moda estremamente personalizzata come quella sartoriale alla fast fashion che è la sua nemesi, con tantissime collezioni e un danno ambientale enorme.
«Si chiama consumismo. È il pericolo numero uno per l’uomo perché perde la sua umanità. Noi non eravamo consumisti, neanche io che facevo la moda. Il marketing ha spinto al massimo il consumismo e ha inventato la parola lusso, che è una parola per me volgarissima…»
La stropicciata è nata per errore, mettendo per sbaglio nella pressa un abito venuto fuori stropicciato. Nessuno ci aveva mai pensato, si è rivelata un’intuizione.
«C’era stata una cosa similare ma non con quella intenzione e non in quella maniera. C’era Fortuny che plissettava gli abiti, così anche gli antichi greci. Ma in questo caso è proprio l’idea del processo che cambia le cose. È nel processo che tu fai delle scelte, magari sbagliando, e quello sbaglio porta a una cosa fantastica».
Siamo passati dagli anni di Anna Piaggi, di un certo giornalismo e una certa fotografia di moda ai il social network. Le manca un po’ quel mondo?
«Assolutamente, era un mondo bellissimo, era un mondo di grande invenzione, dove si poteva sperimentare e la creatività era libera, fantastica, entusiasmante. Anche lì c’erano i problemi. Ricordo quando non c’era l’elettronica, il fotografo Alfa Castaldi chiedeva di fare delle composizioni di frutta per dei cocktail. Non c’erano i flash elettronici, ma il parco lampade e quando tu avevi finito di comporre la frutta si era già tutta rovinata e tu dovevi cominciare da capo. Un mondo più analogico che però era anche più sfidante e divertente, oltre che molto avventuroso».