Un cuore gemello

Abbiamo chiesto a Francesco Regazzoni di parlarci del Progetto Horizon 2020 iHEART e di come il team capitanato dal prof. Alfio Quarteroni stia sviluppando un cuore virtuale, fatto di equazioni matematiche che descrivono la complessa interazione di fenomeni fisici alla base del battito cardiaco. L’obiettivo è quello di costruire un “gemello digitale” del paziente, una replica virtuale del cuore di un individuo, partendo dai suoi dati biometrici ed esami diagnostici. Uno strumento fondamentale per il cardiochirurgo o il cardiologo che potranno così vagliare diverse terapie o strategie di intervento prima di agire sul paziente reale, ottimizzando e personalizzando la cura sulle caratteristiche peculiari di ciascun paziente.

Il nome del vostro progetto parla da solo. Vi occupate del cuore. Ma come esattamente? Qual è l’obiettivo concreto di iHEART?
L’obiettivo di iHEART è quello di costruire un modello matematico del cuore umano, ossia una replica virtuale dell’organo che permette di studiarne e predirne il comportamento attraverso simulazioni effettuate al computer. Per costruire un modello di questo tipo, stiamo cercando delle equazioni matematiche in grado di rappresentare in modo fedele il comportamento del cuore, a partire dalla scala delle cellule fino a quella degli atri e dei ventricoli. In questo modo si ottiene un sistema di equazioni, tutte accoppiate fra di loro secondo una fitta rete di interazioni. Per queste equazioni molto complesse si utilizzano degli opportuni algoritmi, implementati al computer, che permettono di trovare una soluzione approssimata, ma tuttavia molto precisa.

Per effettuare simulazioni mediante il modello cardiaco sviluppato nel progetto iHEART, occorre partire da una ricostruzione geometrica del cuore del paziente (sinistra). Questa viene suddivisa in tantissime piccole celle (centro), in cui vengono risolte le equazioni matematiche alla base del modello. A destra è mostrata una sezione che evidenzia la suddivisione nelle quattro camere.

Costruire un simulatore di un sistema biologico come il cuore, tuttavia, è un obiettivo estremamente ambizioso, per molte ragioni. Innanzitutto, per la complessità dell’oggetto di studio, il cuore, il cui funzionamento è il risultato di processi di diversa natura (biochimica, elettrica, meccanica, fluidodinamica), che agiscono in modo concertato per pompare il sangue in tutto il corpo, e che sono legati da una complessa, ma affascinante rete di interazioni e retroazioni. Inoltre, vi è una difficoltà intrinseca legata alla non completa conoscenza di questo complesso sistema. Quando si vuole sviluppare un simulatore di un processo industriale, ad esempio, siamo in grado di descrivere accuratamente tutti i suoi componenti, dal momento che sono stati progettati dall’uomo. Il cuore invece non è stato progettato dall’uomo e questo rende particolarmente difficile la formulazione di modelli matematici accurati.
Infine il progetto iHEART pone grandissime sfide di natura computazionale. Un modello cardiaco infatti può contenere diversi milioni (spesso anche miliardi) di variabili, per poter rappresentare l’organo con un sufficiente livello di dettaglio. La ricerca di una soluzione numerica può essere effettuata solo attraverso supercomputer e la simulazione di un singolo battito cardiaco può richiedere diversi giorni di calcolo.

Il video mostra la contrazione dei due ventricoli (sinistro e destro), evidenziando la distribuzione delle fibre muscolari cardiache. Nel video di destra, i diversi colori evidenziano la concentrazione di ioni calcio, che giocano il ruolo di “messaggeri intracellulari” al fine di dare alle cellule il segnale di contrarsi al momento opportuno.

E, più nello specifico, qual è il tuo ruolo in questo progetto?
Nel progetto mi occupo degli aspetti elettromeccanici, ossia dei meccanismi subcellulari per cui, a seguito di uno stimolo di natura elettrica, le cellule cardiache si contraggono e generano la forza necessaria a fare aprire le valvole cardiache e a pompare il sangue al resto dell’organismo. Nello specifico, durante il dottorato ho sviluppato un modello che spiega come le cellule cardiache siano in grado di generare la forza necessaria alla contrazione del cuore in risposta a diversi stimoli esterni. Grazie a delle innovative tecniche matematiche, ho potuto tradurre in equazioni le complesse interazioni fra le proteine che fanno battere i nostri cuori, riuscendo così, per la prima volta, a simulare in pochi secondi la contrazione di una cellula cardiaca, senza rinunciare a una descrizione dettagliata dei processi fisici in corso. Questo piccolo passo apre nuove grandi possibilità nello studio di patologie originate da alterazioni dei meccanismi contrattili come, ad esempio, la cardiomiopatia ipertrofica, una grave patologia che colpisce una persona ogni 500. Questo modello, quando opportunamente combinato con ulteriori equazioni in grado di descrivere altri processi fisici, può inoltre essere sfruttato per simulare l’intero cuore.
Nel contesto di iHEART mi occupo inoltre della cosiddetta “riduzione d’ordine di modello”. Con questo termine si intende un insieme di tecniche finalizzate ad accelerare la ricerca di una soluzione di un modello molto complesso. Nello specifico, stiamo studiando l’utilizzo dell’intelligenza artificiale (in particolare di Machine Learning) per costruire modelli ridotti, sulla base dei risultati di simulazioni precedentemente effettuate con i modelli originari. L’obiettivo è costruire uno strumento in grado di dare risposte, seppur approssimate, in tempi estremamente rapidi, facilitando così l’utilizzo in ambito clinico del modello cardiaco sviluppato in iHEART.

Perché iHEART può diventare importante per la vita delle persone comuni? E quali sono le prossime frontiere del vostro percorso di ricerca?
Il modello di cuore che stiamo sviluppando potrebbe un giorno diventare uno strumento in mano al cardiologo e al cardiochirurgo. Utilizzando i dati biometrici e gli esami diagnostici di uno specifico paziente, infatti, il cuore virtuale sviluppato nel progetto iHEART potrebbe essere personalizzato, creando un “gemello digitale” del cuore del paziente. Il medico potrebbe quindi utilizzare questa replica virtuale per vagliare diverse terapie o strategie di intervento, specifiche per il singolo paziente, interagendo unicamente con il computer, prima di agire sul paziente reale. In secondo luogo, il modello potrebbe supportare il medico nell’interpretazione degli esami diagnostici, dando la possibilità di sostituire misurazioni invasive con misure indirette, ma meno invasive.
Il modello potrebbe poi essere utilizzato anche per scopi di ricerca medica. Esso infatti permette di effettuare analisi di scenario, studiare le interazioni fra le diverse componenti dell’organo o gli effetti di patologie e di terapie innovative, applicandole (in modo del tutto virtuale) al cuore digitale.

Il modello di cuore permette di simulare la propagazione del segnale elettrico che stimola la contrazione del muscolo cardiaco. Come mostrato in questo video, ad ogni battito gli atri vengono stimolati con un leggero anticipo rispetto ai ventricoli. Quando un corretto ritardo fra i primi e i secondi non è garantito, il paziente può andare incontro a patologie, che possono essere studiate con il modello di iHEART.


Come è composto il vostro team e come organizzate il lavoro?
Il nostro Team è formato da una ventina di persone, con una formazione in Matematica o Ingegneria (Ing. Matematica, Biomedica o Aerospaziale), dai più giovani (studenti di dottorato) ai più senior (professori). Abbiamo poi diversi collaboratori, sia personale medico che ricercatori di gruppi di ricerca con vocazione simile alla nostra. Il leader del progetto è il Prof. Alfio Quarteroni, che è stato anche il mio relatore della tesi di dottorato.
Ciascun membro del team ha caratteristiche diverse, c’è chi si focalizza su aspetti metodologici (ricerca di metodi numerici, sviluppo software, trattamento di dati clinici, etc.) e chi si concentra su un ambito applicativo in particolare (elettrofisiologia, meccanica, fluidodinamica). Ciascuno di noi tuttavia deve saper padroneggiare un po’ tutti questi aspetti. A mio parere sta proprio qui il bello del nostro lavoro: un progetto come quello di iHEART coinvolge un ampio spettro di ambiti interconnessi fra loro. Questo pone ogni giorno diverse sfide e richiede una collaborazione quotidiana fra i membri del gruppo di lavoro. Il lavoro di squadra è fondamentale nel nostro ambito di ricerca.

Team del Progetto iHEART

Come è scattata la scintilla che ti ha portato a intraprendere il percorso di ricercatore? Ricordi un momento esatto in cui hai capito di voler fare questo nella vita?
La mia passione per la ricerca è nata durante lo sviluppo della tesi magistrale nell’ambito della stampa 3D e di innovativi materiali auto-assemblanti. Nonostante poi abbia cambiato completamente ambito applicativo, passando all’ambito biomedico, lavorare alla tesi è stata per me l’occasione di innamorarmi della ricerca nel campo della matematica applicata. Ma forse le radici di questo interesse sono da ricercarsi molto prima: sperimentare e inventare sono sempre stati una mia passione. Durante gli studi universitari sono stato attirato maggiormente dagli aspetti più legati alla matematica pura, in seguito mi sono reso conto però del fascino che può avere applicare questi strumenti matematici al mondo reale. Sono convinto che il compimento perfetto di una teoria matematica, per quanto astratta essa sia, stia proprio nell’utilizzarla per trovare soluzione a problemi precedentemente irrisolti e l’ambito biomedicale, oltre a fornire problemi la cui soluzione può essere di pubblica utilità, offre continui spunti in questo senso. Tutto ciò esercita su di me un grandissimo fascino, ed è di continua motivazione nei momenti più difficili.

Come è stato il tuo percorso accademico?
Mi sono laureato in Ingegneria Matematica al Politecnico di Milano, dove ho intrapreso un percorso di dottorato all’interno del MOX, il laboratorio di Modellistica e Calcolo Scientifico. Sin dall’inizio del dottorato ho lavorato nell’ambito della modellistica cardiaca, sotto la guida dei Proff. Alfio Quarteroni e Luca Dede’. Durante quegli anni ho potuto viaggiare molto, entrando in contatto con altri ricercatori, conoscendo così punti di vista e metodi di lavoro differenti da quelli a cui ero abituato. In particolare, ho trascorso due periodi di ricerca di alcuni mesi all’INRIA di Parigi e uno alla Pennsylvania State University. Ho poi proseguito il mio percorso con un assegno di ricerca al Politecnico, dove ho recentemente vinto una posizione da ricercatore.

Hai vinto un premio VPH2020 Virtual Physiological Human attribuito alle migliori presentazioni di ricercatori emergenti. Come fa oggi un ricercatore a comunicare la propria ricerca? Detta più terra terra, come spieghi ai tuoi amici quello che fai ogni giorno?
Riuscire a raccontare in modo chiaro in cosa consiste la propria ricerca, e soprattutto perché essa può essere di impatto per la comunità, è tanto difficile quanto importante. Il ricercatore deve immedesimarsi con la platea a cui si rivolge, fare lo sforzo di utilizzare un lessico adeguato, e cercare di non dare per scontati quei concetti che fanno parte del bagaglio culturale della comunità a cui il ricercatore appartiene. Personalmente ritengo che questo sia un esercizio utile anche per il ricercatore stesso. Del resto, Albert Einstein era solito ripetere: “Se non lo sai spiegare in modo semplice, non l’hai capito abbastanza bene”.
Tutto ciò oggi è particolarmente difficile, da una parte per il carattere sempre più specialistico della ricerca, dall’altra per il sentimento comune spesso scettico nei confronti della scienza. È pur vero che oggi esistono canali social che permettono ai ricercatori di rivolgersi a un pubblico potenzialmente molto ampio, tuttavia solo una parte dei ricercatori si dedica attivamente alla divulgazione della ricerca (la cosiddetta “terza missione”). Il nostro gruppo di ricerca ha un sito web e un canale Youtube sui quali pubblichiamo periodicamente del materiale dedicato alla divulgazione della ricerca. Inoltre, personalmente ho partecipato a Meet Me Tonight, una bella iniziativa che coinvolge diverse università milanesi dedicata a creare interazione fra ricercatori e cittadini, adulti e bambini, con un’attenzione particolare a questi ultimi.

Dalla tua esperienza all’interno del progetto iHEART quali competenze ritieni sia necessario avere per partecipare a un progetto internazionale di ricerca?
Innanzitutto ci vuole molta passione per il campo oggetto della ricerca. I momenti difficili, in cui ciò che si sta sviluppando non funziona, in cui si fa fatica a vedere soluzione ai problemi che si presentano, sono inevitabili e anzi costituiscono il cuore stesso della ricerca. Pertanto, senza una forte motivazione è molto difficile andare avanti e spesso si è tentati di abbandonare tutto, vanificando gli sforzi fatti.  Inoltre, credo sia fondamentale sentirsi parte di un gruppo. La ricerca scientifica ha oggi raggiunto livelli tali per cui la cooperazione è imprescindibile. Mi ritengo fortunato a far parte del gruppo di ricerca in cui lavoro, dove ho trovato oltre a colleghi anche diversi amici. Infine, penso che un aspetto centrale della forma mentis del ricercatore consista nel mettersi sempre in discussione, nel chiedersi in continuazione se il proprio approccio ai problemi sia l’unico possibile o se ve ne siano di migliori.

Cosa diresti a un giovane tuo coetaneo che è indeciso se tentare o meno la carriera nel mondo della ricerca? Anche tu hai vissuto momenti di indecisione? Come si superano?
A un giovane indeciso direi di avventurarsi nella ricerca solo se molto motivato. Una cosa che ripeto spesso agli studenti che mi chiedono “posso fare il dottorato se non ho una media altissima?” è che non serve essere il primo della classe per saper fare bene ricerca scientifica. Il requisito fondamentale è – a costo di ripetermi – una grande passione e tanta curiosità. In questo caso, allora la ricerca è una strada che consiglierei di cuore, dal momento che può dare delle soddisfazioni grandissime.

Francesco Regazzoni è assegnista di ricerca presso il laboratorio MOX – Modellistica e Calcolo Scientifico, dove lavora al progetto H2020 iHEART, sotto la guida del professor Alfio Quarteroni.
E’ titolare di un dottorato di ricerca in Modelli e metodi matematici in ingegneria, con una tesi discussa al Polimi da titolo “Modellazione matematica e apprendimento automatico per la simulazione numerica di elettromeccanica cardiaca”, che ha vinto il prestigioso PhD Prize GBMA-AIMETA 2020. Il Premio è stato assegnato da AIMETA (Associazione Italiana di Meccanica Teorica ed Applicata, Gruppo Biomeccanica – GBMA) per la migliore Tesi di Dottorato in Biomeccanica Teorica e Applicata.

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