
Abbiamo recentemente ospitato al Politecnico di Milano Federico Faggin, il celebre fisico, inventore e imprenditore italiano. Dal 1968 risiede negli Stati Uniti, di cui ha preso anche la cittadinanza.
Per tutti gli appassionati di informatica e di digitale, il suo nome è iconico, legato indissolubilmente all’invenzione del microchip.
Fu infatti capo progetto del microprocessore Intel 4004 e responsabile dello sviluppo dei modelli 8008, 4040 e 8080 e delle relative architetture. Fu anche lo sviluppatore della tecnologia MOS con gate di silicio, che permise la fabbricazione dei primi microprocessori e delle memorie EPROM e RAM dinamiche e sensori CCD, elementi essenziali per la digitalizzazione dell’informazione.
Nel 1974 fondò e diresse la ZiLOG, la prima azienda dedicata esclusivamente ai microprocessori, presso cui dette vita al celebre modello Z80. Nel 1986 Faggin fu co-fondatore e diresse la Synaptics, azienda che sviluppò i primi touchpad e touch screen al mondo.
Faggin è stato ospite d’onore all’edizione 2024 dei PhD IT Colloquia Doctoralia tenuti dal Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria. Un’occasione per i nostri studenti del terzo anno di dottorato in Ingegneria dell’Informazione di presentare pubblicamente i risultati delle loro ricerche.
Nel suo intervento “Consciousness, life, computers, and human nature”, Faggin ha riflettuto sui temi cruciali per il futuro della tecnologia e dell’umanità. Ci ha concesso una illuminante intervista a margine dell’evento.

Buongiorno Faggin, e grazie per questo incontro. Prima di incontrarla ho voluto conoscerla meglio attraverso la lettura di Silicio, la sua autobiografia uscita qualche anno fa, dove ha scandito il tempo del racconto attraverso diverse fasi della sua vita. Quali sono?
Nel mio libro ho parlato delle mie “quattro vite” perché la posizione che oggi ricopro è imprescindibile dal percorso che ho fatto. In realtà, nel mio percorso umano, che è stato straordinario, penso che nulla sia accaduto per caso. È come se per superare certi tipi di tensione fosse necessario un salto. Ma i punti di rottura di questa continuità si possono spiegare, hanno tutti un senso.
Ci racconti dall’inizio il suo percorso, il succedersi di queste sue vite.
La mia prima vita, ovviamente, parte dalla nascita, nel 1941 a Vicenza.
Ho imparato tanto in Italia, studiando all’istituto tecnico industriale, dove ho iniziato ad appassionarmi di computer e transistori. Trovai subito lavoro come tecnico alla Olivetti, nel laboratorio di elettronica di Borgolombardo, dove venivano realizzati i primi computer digitali. Il mio capo si rese conto delle mie capacità, e presto fui assegnato al progetto sperimentale di un piccolo calcolatore a transistor, con quattro tecnici che mi furono affidati come collaboratori.
Fu un’esperienza formativa importantissima, perché allora l’Olivetti era l’azienda pioniera in Italia nel settore dei computer. Da lì nacque in me la volontà di continuare a studiare.
Quando si aprì l’accesso all’università per i diplomati negli istituti tecnici, lasciai quel lavoro e mi iscrissi a Fisica a Padova, mantenendomi agli studi senza mai chiedere soldi ai miei genitori.
Perché Fisica e non Ingegneria?
Scelsi Fisica perché per me l’Ingegneria era già qualcosa di mio, di quotidiano, nella mia esperienza di perito e modellista. Le mani le sapevo già usare, allora.
E dopo la laurea, cosa decise di fare?
Dopo la laurea mi offrirono un posto come assistente retribuito. Dopo un anno lasciai l’università per entrare in CERES, una piccola startup che mi mandò in California per seguire un corso sulla tecnologia MOS (Metal Oxide Semiconductor), ovvero il “transistore a semiconduttore di ossido di metallo a effetto di campo”, fondamentale per gli sviluppi dell’epoca.
Successivamente entrai alla SGS (oggi STMicroelectronics), l’unica società italiana a produrre semiconduttori, licenziataria della Fairchild Semiconductor per i circuiti integrati bipolari. Qui fu fondamentale la mia formazione, perché mi venne assegnato il compito di sviluppare la tecnologia del loro primo processo MOS.
Quando iniziò la sua seconda vita?
La mia seconda vita è stata quella che definisco da creatore, da inventore.
C’è una data precisa, ovvero il 9 febbraio 1968, giorno in cui io e Elvia, che avevo conosciuto al terzo anno di università e nel frattempo era diventata mia moglie, partimmo per San Francisco.
La SGS mi propose sei mesi negli Stati Uniti per uno scambio di ingegneri con la Fairchild, la società di semiconduttori più avanzata al mondo. Volevo stare cinque anni, e ad oggi ne sono passati 56 e sono ancora lì.
Venni inserito sul progetto di sviluppo di una tecnologia MOS autoallineante usando una porta di silicio anziché di alluminio.
Lavorai tantissimo sulla tecnologia silicon gate (SGT) che, finalmente, a ottobre 1968 fu pronta per essere presentata al pubblico.
Poco dopo, però, passo alla Intel. Perché?
Nell’autunno del 1969 la Fairchild stava perdendo la sua leadership e la neonata Intel stava annunciando il suo primo prodotto a tecnologia silicon gate.
Frustrato dai ritardi della Fairchild riguardo a quella che sarebbe stata la tecnologia del futuro, nel 1970 passai alla Intel, dovevo potevo dedicarmi alla progettazione di un circuito integrato commerciale.
In quei mesi fui capo progetto e progettista insieme, su quattro chip. Dopo un lavoro febbrile, a gennaio del 1971 arrivai al traguardo: l’Intel 4004 funzionava. Avevamo fatto nascere il primo microprocessore!

Che cosa la rende effettivamente il padre di questa invenzione?
Il mio impegno e la mia passione nel dimostrare che la SGT era la tecnologia giusta, e nel trasformare tutte le idee che avevo nel prodotto finale, il chip di silicio che funzionava. Mancava questo passo, e fui io a farlo, con le mie forze e contro ogni previsione.
E la sua terza vita, come la definirebbe?
È quella da imprenditore. Nel 1974 decisi che volevo lasciare l’Intel. Ero stanco di lottare per ogni cosa che volevo fare. Inoltre, non mi era stato riconosciuto tutto il lavoro straordinario che avevo fatto per far raggiungere all’azienda quel grande traguardo. È grazie alla tenacia di mia moglie Elvia che abbiamo trovato la forza per fare in modo che la verità fosse poi ristabilita.
Fu difficile lasciare, perché i vertici dell’azienda volevano mettermi a tutti i costi i bastoni tra le ruote in questa mia volontà di emanciparmi. Ma finalmente, alla fine del 1974, la mia nuova società era nata: la Zilog.
Il primo prodotto a cui lavorare era un nuovo microchip all’avanguardia. Dopo un anno e mezzo, a luglio 1976, lanciammo lo Z80, che è stata una delle famiglie di CPU più impiegate di tutti i tempi. Pensi che la produzione è durata fino a quest’anno. Stiamo parlando di 48 anni di successo commerciale ininterrotto.
Una sua intuizione pionieristica è stata anche quella del Communication Cosystem. Lo si può considerare il “nonno” dello smartphone?
Si trattava dell’idea di un telefono intelligente che, collegato al PC, gestisse voce e dati, applicazioni di produttività, di gestione del tempo e di messaggistica. Il target era quello dei manager d’azienda, e rappresentava un tassello nella transizione verso l’ufficio del futuro.
Era qualcosa di molto innovativo, considerando che al tempo non esistevano ancora i sistemi operativi a interfaccia grafica e multitasking.
Il sistema non ebbe il successo sperato, perché era il 1984, un periodo di cautela nel settore per via della liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni.
Ricordo però che Steve Jobs si complimentò con me per il prodotto, anche se sottolineò che occupava troppo spazio sulla scrivania.
Poi arrivò la Synaptics…
Nel 1986 il tema delle reti neurali artificiali era molto discusso. Dopo aver valutato le opportunità di questo business, entrai a tempo pieno nella società come direttore tecnico, proponendo di sviluppare reti neurali artificiali in grado di apprendere usando transistori MOS a gate flottante.
Nei primi anni Novanta, quando ero CEO della società, stava entrando in produzione la trackball per pc portatili. Pensavo a soluzioni migliori di quella, quindi mi confrontai con gli ingegneri per sviluppare qualcosa di nuovo. Dopo poco ideammo il concept e il design sia del touchpad capacitivo che del touchscreen. E sappiamo bene come queste tecnologie abbiano cambiato drasticamente le nostre vite.

Che cosa ha imparato nella sua nuova veste di imprenditore?
Sono arrivato a imparare tutto quello che serve per gestire una società: gli aspetti finanziari, di marketing, vendite, produzione. Ma anche gli aspetti umani e di interazione con le società. Sono cresciuto tanto anche in questa fase.
Senza questa esperienza imprenditoriale e senza la lezione che ho imparato a mie spese quando me ne sono andato da Intel, non avrei potuto probabilmente vivere l’esperienza di risveglio che ho avuto successivamente, che ha cambiato la mia prospettiva sulla coscienza, sul libero arbitrio, sul chi siamo.
E arriviamo quindi alla sua quarta vita…
È iniziata nel 1990, quella che io definisco la mia quarta vita.
L’episodio di rottura è stato quando una notte di dicembre, durante le vacanze natalizie, cercando di addormentarmi, sentii nel mio petto emanare una carica molto potente di energia-amore, che non avevo mai provato. È difficile spiegarlo per chi non l’abbia vissuto, ma in quel momento avevo accesso a una conoscenza diretta. Quell’esperienza ha avuto per me una straordinaria forza di verità.
Da quel momento, per un periodo di vent’anni ho vissuto due vite contemporaneamente, continuando la mia terza vita come capo di un paio di aziende di startup, ma impegnandomi a esplorare la mia coscienza e a interrogarmi sulla realtà.
Dal 2008-2009 ho deciso di dedicarmi completamente alla mia quarta vita, e ho venduto l’azienda. Da quel momento ho deciso di dedicarmi all’approfondimento dell’unione tra scienza e spiritualità, sviluppando la mia teoria e creando la fondazione che porta il nome di mia moglie e mio.
Ha sviluppato una vera e propria teoria scientifica?
Sì, si tratta proprio di una teoria scientifica perché ne ha il carattere peculiare, ovvero la si può falsificare. E in più dice cose fondamentalmente nuove.
Nell’elaborarla sono partito dalla coscienza, dal libero arbitrio, come proprietà fondamentali che esistono all’inizio dell’universo.
Su che cosa si basa questa sua teoria?
Per enunciare la mia teoria, sono partito dalla fisica quantistica, non da quella classica. La fisica quantistica non è autoevidente. All’apparenza è quasi contraria all’idea che abbiamo della realtà.
La scienza dice che siamo macchine biologiche e quando la macchina si rompe è finita. è quello che io chiamo scientismo: una realtà fatta di oggetti che si muovono nello spazio e nel tempo. Questa realtà è, secondo me, secondaria. La realtà primaria è quella della conoscenza di sé dell’universo. La totalità di ciò che esiste vuole conoscere sé stesso.
Io affermo che siamo realtà quantistiche che esistono in una realtà più vasta dello spazio-tempo, che contiene anche la realtà fisica. Esiste un ente coerente e olistico che crea i campi quantistici, che hanno coscienza e libero arbitrio. Quando questo ente vuole conoscere sé stesso crea un campo quantistico, una parte intera di sé che ha le stesse sue caratteristiche.

Prendo spunto dal laboratorio in cui siamo ospiti, il NECSTLab. Qui tanti studenti, dottorandi, docenti partecipano al NECSTCamp, progetto che si occupa in maniera olistica del benessere dentro e fuori dal laboratorio, dallo sport, all’alimentazione, al sostegno psicologico. Come pensa che le persone possano indagare autonomamente il rapporto tra coscienza e realtà? Serve per forza un’esperienza impattante come quella che ha vissuto lei?
Dovremmo prendere sul serio quello che sentiamo dentro. Il primo passo è sempre interrogarci. Le nostre emozioni sono la finestra con cui conosciamo noi stessi.
Certamente per me c’è stata questa esperienza di rottura, che ha sbloccato tante cose. Nel momento in cui è successo, pensavo di essere separato dal mondo come lo pensiamo tutti. E dopo questa esperienza, io mi sono sentito parte intera del mondo. Era come se in quel momento io fossi sia l’osservatore che l’osservato. In quell’energia che era uscita da me, si sentiva amore, gioia e pace. Era un’energia fisica, non un’idea. In quel momento io osservavo me stesso. Forse esperienze di questo genere non si possono capire se non le si esperisce in prima persona.
Le macchine avranno mai un grado di coscienza paragonabile a quello umano?
Il computer si chiede perché esiste? No, il computer è una macchina e fa quello che gli abbiamo detto di fare. Il computer non potrà mai imparare più di quello che sappiamo noi.
Sono gli scienziati che devono iniziare a utilizzare la tecnologia con etica. E non bastano le leggi per questo.
Oggi stiamo insegnando ai computer a fare cose che sono solo in parte quelle che gli abbiamo detto noi. Stiamo dando ai computer una certa libertà, che però non possono gestire perché non capiscono niente.
Ed è proprio lì, il pericolo dell’intelligenza artificiale. Perché abbiamo creato algoritmi a cui abbiamo insegnato cose che dal punto di vista della realtà sono probabilità, non sono deterministiche. Per questo il computer può dire cose che possono essere vere o false. Prima faceva esattamente quello che gli dicevamo di fare, mentre adesso gli abbiamo dato una certa libertà, ma senza dargli la comprensione di quello che fa. E ovviamente potrebbe fare degli errori gravi.
Secondo lei, la strada che ha intrapreso l’intelligenza artificiale si può fermare?
No, la strada ormai è segnata. Però si troveranno molti limiti, e molto presto.
Cos’abbiamo fatto per alimentare queste intelligenze artificiali? Le abbiamo alimentate di tutto lo scibile umano che abbiamo collezionato negli ultimi duemila anni.
Ma se vogliamo far loro imparare delle cose nuove, queste cose nuove dobbiamo crearle noi, non potrà inventarle il computer. Il computer potrà solo rimestare quello che gli avevamo insegnato. Quindi, non avendo la capacità creativa, se diamo al computer dei dati nuovi e contraddittori con i precedenti, farà ancora più errori invece di farne meno. Perché non avendo la comprensione, non può mettere in accordo discrepanze che man mano nascono.

Il problema attuale dell’intelligenza artificiale, qual è?
Potrebbe essere quello di prendere una direzione sbagliata. Gli strumenti oggi si stanno dando a tutti, stanno diventando accessibili per la generalità del pubblico. E il rovescio della medaglia è che in questo modo possono finire in mani di malintenzionati.
Cosa vorrebbe scoprire adesso?
Mah, mi sembra di aver scoperto abbastanza. Magari vorrei trovare dei metodi sicuri per permettere, a chi lo desidera, di fare queste esperienze dirette di coscienza. Perché anche a me, in realtà, non è successo per caso: io volevo capire.
Quanto è importante il libero arbitrio, in un’epoca di intelligenza artificiale, anche come strumento per governarla?
È un’epoca difficile, in cui la gran parte degli scienziati dice che il libero arbitrio non esiste. È questo che io chiamo scientismo: applicare spiegazioni che vanno bene per la fisica classica anche alla nostra interiorità, campo in cui la fisica classica non c’entra. È proprio lì la differenza.
L’origine del problema e che nessuno capisce la fisica quantistica. Anch’io non la capivo, ma adesso, con questa nuova teoria, si può capire e si può spiegare in maniera molto semplice.
Nel suo libro parlava di quando avete raggiunto la Silicon Valley nel 1968 con sua moglie Elvia. Pensava di starci cinque anni e siete rimasti una vita intera. Descriveva la San Francisco di allora come una società aperta e accogliente.
C’era un livello altissimo di apertura verso gli altri. Ma era inevitabile: a quel tempo venivano tutti da fuori, no? E allora c’era quel bel senso di libertà. Non c’era nessuno che proteggeva testardamente il suo terreno.
Eravamo là perché non c’era quasi nessuno, ancora. Io venivo dall’Italia e l’altro veniva dal Texas, uno veniva dalla Cina, l’altro dalla Germania. C’era un senso di fraternità, se vogliamo, di simpatia reciproca. E tutti volevamo fare le stesse cose, cioè portare avanti questa nuova tecnologia.
C’era anche forte dentro di noi l’aspetto del sognatore. Adesso c’è molto meno, perché poi tutto è diventato business, un big business. Oggi c’è molto più il bisogno di essere lì, di arricchirsi, invece di quello di fare cose nuove per il piacere di farle e non per avere più miliardi.
È vero, la Bay Area di oggi racchiude in sé le disparità sociali più forti: gli uomini più ricchi del mondo accanto a livelli di povertà ed emarginazione dolorosi. Pensa che si riuscirà a cambiare rotta?
Non sarà possibile un cambio finché si crederà al principio della sopravvivenza del più adatto. Un principio che giustifica l’egoismo, giustifica la competizione, giustifica il farci fuori. “Io sono più adatto di te, quindi io sopravvivo e tu muori”.
E invece questa mia nuova teoria dice semplicemente che noi vogliamo conoscere noi stessi; ma per conoscere noi stessi dobbiamo conoscere l’altro, perché ognuno è una parte intera dell’Uno. Abbiamo dentro di noi tutto, ma per conoscere il tutto devo conoscere anche l’altro, e questo vuol dire cooperazione.
