Curiosità e determinazione: i motori dello storico dell’architettura

Quando pensiamo alla ricerca scientifica al Politecnico, la prima immagine che ci viene in mente è quella dei laboratori sperimentali. Oggi esploreremo un approccio un po’ diverso con Roberto Dulio, Delegato della Rettrice al Sistema archivistico, bibliotecario e museale, che ci ha aperto le porte del suo mondo.

Roberto Dulio, storico dell’architettura, ci ha offerto una prospettiva appassionata e profonda sul significato di questo tipo di ricerca. Con un’ampia esperienza nel settore, che include la curatela di mostre, pubblicazioni accademiche e una lunga carriera nel campo della storiografia architettonica, Dulio ci racconta non solo il percorso che lo ha portato a investigare le vicende del Novecento, ma anche l’importanza di riscoprire figure meno conosciute, come l’architetto Giuseppe Martinenghi o la fotografa Ghitta Carell. Attraverso il suo racconto, emerge chiaramente come la curiosità e la determinazione siano i motori principali della ricerca storica, capace di svelare nuove interpretazioni e rivelare storie che, altrimenti, rimarrebbero nell’ombra.

In un’università come il Politecnico di Milano, la ricerca in storia dell’architettura non è sempre sotto i riflettori. Quali sono le sue peculiarità?

La storia dell’architettura è una materia che prevede una ricerca che è molto differente rispetto alla ricerca nella quale siamo abituati ad imbatterci, perché è una ricerca sul passato. Questo non vuol dire che sia una ricerca “morta”, anzi, ogni volta che si indaga sul passato è perché la contemporaneità pone delle domande su di esso. La storia dell’architettura non è qualcosa di statico o intoccabile: è sempre in divenire.

La ricerca sulla storia dell’architettura non prevede degli esperimenti, ma si basa principalmente sull’analisi delle fonti, come gli archivi. Questi archivi sono spesso prodotti da noi storici o da istituzioni come il Politecnico, ma attingiamo anche da archivi esterni, sia pubblici che privati.

Il lavoro dello storico dell’architettura è quello di, partendo dalle fonti, essere in grado di dare delle ipotesi interpretative a determinati fenomeni.

Qual è il ruolo dello storico, oggi?

Un fenomeno studiato oggi potrebbe essere reinterpretato domani alla luce di nuove prospettive. È chiaro quindi che la storia è potenzialmente infinita: non si tratta solo di archiviare dati all’interno di un casellario, ma di discuterne i contenuti, tenendo sempre presente i metodi e i crismi della scientificità. La produzione principale del nostro lavoro sono pubblicazioni, come ad esempio articoli, monografie etc.

Nell’ultimo periodo ho notato che c’è un grande interesse del pubblico, al di fuori del Politecnico, sulla storia degli edifici e della città. Questa crescente domanda di narrazione sulle città, ha fatto riflettere me ed una mia collega, su un’idea: creare una startup che si occupi di narrazioni storiche legate all’architettura e alle città. In questo contesto, il ruolo degli storici sarebbe quello di garantire un sapere disciplinato e scientificamente fondato, perché spesso chi si occupa di raccontare queste storie non ha una formazione solida alle spalle.

Entriamo nel vivo della sua attività. Qual è il suo campo di ricerca, più in particolare?

All’interno del Politecnico siamo tanti storici dell’arte e dell’architettura, e tutti studiamo epoche diverse. Io, per esempio, sono un contemporaneista: mi occupo principalmente del Novecento, in particolare del periodo tra le due guerre e dell’immediato dopo guerra, fino agli anni Cinquanta e Sessanta.

Una storica dell’architettura alla quale sono molto legato, Claudia Conforti, alla domanda: “A cosa serve la storia dell’architettura?” rispondeva sempre: “A nulla, ma è necessaria”.

È necessaria a capire sia quali sono stati i passaggi per cui si è arrivati ad un certo tipo di architettura, sia per essere in grado di capire le stratificazioni storiografiche del luogo su cui si va a operare, che è un elemento assolutamente imprescindibile. Questo tipo di approccio, in realtà, è una peculiarità della cultura architettonica italiana; in molti altri paesi, nell’educazione degli architetti, la storia è presente in maniera minima.

La storia dell’architettura, quanto si intreccia con la storia della cultura contemporanea?

Parlare di architettura significa parlare di una temperie culturale amplissima. Ad esempio, quando studio l’architettura tra le due guerre, è impossibile separarla dalla storia politica. Però, è fondamentale sottolineare che non tutto ciò che viene prodotto in quegli anni è legato esclusivamente alla cultura fascista, e che quindi debba essere condannato. È un fenomeno molto più complesso che la storiografia ci insegna ad esaminare a diversi livelli. Studiare la storia di quegli anni significa prendere in esame la vita quotidiana, l’immaginario collettivo, i rischi del periodo, così come il dibattito artistico e il rapporto tra architetti e artisti.

Ci faccia un esempio

Nella mia ricerca mi sono sempre mosso tantissimo sul rapporto tra artisti e architetti durante gli anni Trenta.

Ad esempio, ho approfondito la figura di Ghitta Carell, una fotografa molto attiva negli anni Trenta. Tutto è iniziato per caso, mentre stavo lavorando su un architetto dell’epoca. Non riuscivo a trovare molte informazioni su di lui, finché un giorno, in un archivio, mi sono imbattuto in una fotografia scattata proprio da lei. Questo ha aperto una serie di collegamenti inaspettati, perché ho trovato altre sue foto di architetti e personaggi influenti, tra cui Maria José e Mussolini. A quel punto questa fotografa ha cominciato ad incuriosirmi.

Quello che però rapisce il mio interesse è la sua storia personale: Ghitta Carell era una fotografa ebrea ungherese, naturalizzata italiana, che dopo il 1938, a causa delle leggi raziali, non ha più potuto esercitare la sua professione. Nonostante ciò le foto di Mussolini continuavano ad essere usate con il suo nome ben visibile. Successivamente, dall’Archivio Centrale dello Stato a Roma, scopro che esiste un carteggio tra Ghitta Carell e la Segreteria del Duce. Da lì vengo a conoscenza del fatto che la fotografa aveva tentato una causa contro la Mondadori, perché stavano usando le sue fotografie di Mussolini senza pagarle i diritti d’autore.

Grazie a questa documentazione riesco a risalire al numero di archiviazione della causa, che mi porta ad un archivio del tribunale di Roma, fuori dalla città e difficilmente raggiungibile. Con molta fortuna, riesco a rintracciare la causa, ottenendo molte informazioni inedite su di lei. Nel frattempo, io stavo lavorando su temi che erano più disciplinarmente legati alla mia attitudine, ma il mio interesse mi spinge a continuare a comprare ritratti di Ghitta Carell alle aste. Per pura casualità, incontro un gallerista illuminato, Massimo Minini, anche lui appassionato alla fotografa, che mi mette in contatto con una casa editrice, Johan & Levi, e questa ricerca si trasforma in un progetto editoriale: un libro su Ghitta Carell.

Questo tipo di progetto, rispetto al mio percorso accademico può sembrare collaterale, certo, ma lo è solo fino ad un certo punto. Alla fine, questo lavoro ha messo insieme tanti elementi legati all’immaginario espressivo e a un contesto storico che non riguarda solo l’architettura, ma un’intera temperie culturale di quell’epoca.

Da cosa nasce il suo interesse per la ricerca storiografica?

Personalmente parlando, credo che tutto nasca dalla curiosità. C’è sempre una domanda che emerge, qualcosa che non conosciamo e che ci spinge a voler approfondire. Nella ricerca storica, in particolare, spesso ci imbattiamo in aspetti del passato che ci sorprendono o in dettagli che ci portano a riconsiderare idee che ritenevamo assodate. Quando un edificio mi incuriosisce scatta la voglia di capire chi l’ha progettato, perché ha quell’aspetto, qual è la storia dietro la costruzione.

Ad esempio, io e un collega, il fotografo Sosthen Hennekam, ci stiamo concentrando, insieme a Davide Colombo e a un architetto che si è laureato con me, Andrea Coccoli, su un architetto milanese del Novecento, Giuseppe Martinenghi. Non è un nome conosciuto, ma ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione di Milano tra il 1930 e il 1940. In dieci anni ha realizzato oltre 100 edifici, una quantità sorprendente per l’epoca. Questo ci fa capire che la città è fatta per lo più da personaggi defilati e silenziosi come Martinenghi; gli edifici d’autore di Milano sono tanti, e li conosciamo tutti, ma sono una percentuale risibile rispetto alla vastità della città. Inoltre, i palazzi realizzati da architetti come Martinenghi spesso hanno una caratura qualitativa alta e sono anche molto significativi perché rappresentano la sintesi di caratteristiche espressive dell’epoca.

Come si affronta lo studio di un personaggio “minore”?

Bisogna prima di tutto capire la sua formazione. Nel caso di Martinenghi, parliamo di un periodo in cui l’architettura poteva seguire due percorsi principali: uno tecnico afferente all’aria dell’ingegneria, e uno artistico, che prevedeva un diploma di disegno architettonico. Entrambi questi percorsi permettevano di esercitare la professione di architetto. Una volta ricostruita la formazione, il passo successivo è individuare gli edifici che ha realizzato. In questo caso entra in gioco l’archivio storico del Comune di Milano presso la Cittadella degli Archivi: fornendo l’indirizzo civico di un edificio, si può accedere alla documentazione dalla quale si può risalire a chi ha partecipato alla costruzione – dall’impresa all’architetto.

A questo punto interviene anche l’occhio dello storico che va in giro per Milano e cerca di capire quali possono essere gli edifici che gli appartengono, con conseguente verifica in archivio. Oltre ai documenti ufficiali, è necessario anche rifarsi alla letteratura dell’epoca, come ad esempio le numerose riviste che negli anni Trenta pubblicavano articoli sugli edifici. Ovviamente, letteratura non vuol dire limitarsi alle biblioteche, vuol dire anche cercare nei mercatini, nei fondi privati o reperire informazioni attraverso incontri casuali.

A questo proposito, ecco una scoperta sorprendente, quanto inaspettata. Un giorno un librario antiquario, con cui avevo a che fare da tempo, mi ha venduto un libro di Martinenghi. Una volta percepito il mio interesse, mi ha rivelato di avere l’archivio dell’architetto. Stupito della notizia, avviso subito il mio gruppo di ricerca, in quanto fino a quel momento non eravamo mai riusciti a trovarlo. Alla fine, non si trattava dell’intero archivio, ma di sei scatoloni pieni di materiale, che ci ha aiutato a capire molte più cose su di lui. Il librario, che ci aveva promesso di avere ulteriore materiale, di punto in bianco, però, sparisce. Questo ci fa capire come ogni ricerca ha le sue sfide e le sue imprevedibilità.

Che significato ha lavorare su figure come Martinenghi?

Lavorare su Martinenghi non significa solo catalogare i suoi edifici. Significa illuminare un fenomeno più vasto: la costruzione della città. Milano, come molte altre città, non è fatta solo delle architetture firmate dai grandi nomi che tutti conoscono, come Giovanni Muzio o Gio’ Ponti. Certo; questi hanno un’importanza storica, ma rappresentano una percentuale minima del tessuto urbano. Gran parte della città è stata costruita da architetti meno noti, come Martinenghi.

Insieme al professore del Politecnico con il quale mi sono laureato molto tempo fa, Augusto Rossari, credo prima ancora di diventare ricercatore, abbiamo condotto uno studio quantitativo sugli edifici d’autore di Milano. Abbiamo confrontato i censimenti degli spazi costruiti ogni decennio con quelli firmati dai grandi nomi e abbiamo scoperto che solo l’1-2% degli edifici di Milano è stato progettato da architetti famosi. Il resto è opera di figure come Martinenghi. Capire questo vuol dire riconsiderare il ruolo di questi architetti minori e la loro influenza sulla città.

La storia può emergere anche da dettagli apparentemente insignificanti?

Certamente. Prendiamo, per esempio questa tazza di Piero Fornasetti. Se uno storico è curioso, viene fuori un mondo. Infatti, se si indaga a fondo, questa tazza può raccontare la storia di un artista come lui, che ha rivoluzionato il design del Novecento. Fornasetti, che inizialmente voleva fare il pittore, ha lavorato tantissimo con gli architetti. Ad esempio, ha collaborato con Gio’ Ponti decorando mobili travestiti da edifici o interni di grandi navi con la tecnica del decoupage ancora prima che questo esistesse come tale. Il suo approccio ha cambiato il modo di concepire il design, e tutto questo lo si può scoprire a partire da una tazza.

La ricerca storica è anche questa: parte da un dettaglio e, se condotta con la giusta curiosità, riesce a far emergere un universo.

Ritornando anche alla sua veste di delegato, ci spiega come si realizza in concreto una mostra?

Prendiamo come esempio il caso della mostra Cantieri di Gadda. Il groviglio della totalità, da poco conclusasi qui al Politecnico, realizzata in collaborazione con il Centro Studi Gadda dell’Università di Pavia.

Allestire la mostra è stato tutt’altro che facile, perché doveva essere quel giusto compromesso tra le esigenze filologiche degli studiosi di Gadda – Claudio Vela, Paola Italia, Mariarosa Bricchi, Giorgio Pinotti – e altri elementi che potessero raccontare una storia completa. Una volta raccolto tutto il materiale, lo abbiamo messo su un tavolo e abbiamo cominciato a fare i conti con il nostro budget, cercando di capire quanti di quei materiali effettivamente ci potevamo permettere. Ovviamente prima di scegliere i materiali che avrebbero popolato lo spazio, abbiamo deciso qual era la storia che volevamo raccontare e come – insieme a Massimo Ferrari e Claudia Tinazzi – l’avremmo resa intelligibile.

I materiali presenti nella mostra provenivano da circa venti istituzioni diverse, e ogni prestito richiede autorizzazioni dalle Soprintendenze, che devono garantire le condizioni adatte per la conservazione degli oggetti e dei testi. Quindi per ogni istituzione si è dovuto fare questo passaggio e assicurare i pezzi.

Da questo momento in poi è iniziato il divertimento [ride]. Ogni istituzione è arrivata con un accompagnatore. Alcuni sono arrivati con i materiali e si sono assicurati che potessero essere toccati solo da loro stessi per essere inseriti nella teca. Questo per far capire quanto sia meticoloso il processo, anche per quella che a prima vista potrebbe sembrare una “piccola” mostra.

Ma vale anche per le grandi mostre…

Infatti. Prendiamo un’altra grande mostra come quella sugli anni Trenta fatta dalla Fondazione Prada, Post Zang Tumb Tuuum. Parliamo di una mostra colossale, con oggetti preziosissimi. Il budget era enorme, e anche l’organizzazione ha richiesto anni. Il titolo, ispirato al famoso poema futurista, è stato frutto di una scelta diplomatica. Questo per far capire come spesso chi organizza una mostra non ha sempre piena libertà di scelta. Bisogna sempre trovare il giusto equilibrio tra la “scientificità” della mostra, i desideri dell’artista e la volontà del finanziatore.

Cosa succede se qualche opera viene rubata o danneggiata?

Le opere sono sempre assicurate, con una polizza “da chiodo a chiodo”. Questo significa che dal momento in cui l’opera viene staccata dal suo posto originario fino al suo ritorno, qualsiasi cosa le accada, è coperta dall’assicurazione. In caso di furto o danneggiamento, i proprietari, siano essi pubblici o privati, vengono risarciti. Per le indagini, esiste poi il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, che è straordinariamente efficiente. Inoltre, c’è un database accessibile al pubblico con tutte le opere rubate registrate. Ma vorrei rassicurare tutti i collezionisti e i prestatori: oggi (quasi) nessuno ruba un’opera d’arte. Un’opera d’arte che ha un valore venale ed artistico è documentata e nessuno la comprerebbe senza le garanzie di provenienza.

Un bilancio su questo primo anno da Delegato della Rettrice al Sistema archivistico, bibliotecario e museale?

Diciamo che è un è un ruolo abbastanza complicato. Prima di tutto è una delega che mette insieme le mostre, gli archivi, le biblioteche che sono legate, ma sono anche cose molto diverse. Tutti questi settori sono di competenza dell’Area Campus Life, diretta da Chiara Pesenti, con la quale da subito si è stabilito un ottimo rapporto.

Sulle biblioteche è stato più un lavoro di semplice messa a punto, grazie anche all’estrema bravura dei responsabili: Carmen Cirulli e Piero Ruggeri. Lo stesso discorso vale per gli archivi, dove io sono un supervisore, mentre la competentissima responsabile è Anna Colella. In particolare, da questo punto di vista, il Politecnico di Milano ha tantissimi archivi, molti dei quali raccolti da noi: abbiamo davvero molto materiale e tanto altro ne arriveranno in futuro. Ci sarà quindi sempre più necessità di spazi e di strutture che accolgano questo materiale.

Sono davvero molto contento di avere questa delega, perché ho una funzione di responsabilità in un ambito che frequento, che conosco e che sento mio e questo mi rende estremamente felice. La mia vita è sicuramente più complicata, ho molto meno tempo, ma mi occupo di cose di cui sono appassionato.

Qual è stato il rapporto con il suo predecessore, Federico Bucci?

Eravamo molto amici; ci conoscevamo da circa trent’anni perché eravamo nello stesso dipartimento. Io mi sono laureato nel 1997, quando lui era già tecnico laureato e all’epoca non ci considerava quasi nessuno. Lui aveva circa dieci anni più di me e lavorava tanto nel dipartimento. Abbiamo iniziato insieme, parallelamente, diversi progetti: recensivamo, nei primi anni 2000, per le riviste Domus, L’architettura cronache e storia e Casabella. È curioso come all’epoca nessuno si fosse stupito della nostra presenza contemporanea su tre testate, che erano anche un po’ in concorrenza tra di loro. Evidentemente la nostra area di interesse non era considerata strategica [ride].   

Successivamente, Federico ha vinto un concorso ed è diventato professore associato al Politecnico di Milano. Nel frattempo, io ho continuato a collaborare con Claudia Conforti, e insieme abbiamo lavorato su un libro dedicato a Giovanni Michelucci. Successivamente, ho vinto anch’io un concorso e sono diventato ricercatore qui al Politecnico. Federico è poi diventato professore ordinario, e io professore associato. Molte delle cose che ho fatto, le ho realizzate insieme a lui, come la mostra su Aldo Andreani a Mantova e ancora prima un piccolo libro, una guida all’architettura contemporanea di Milano, ormai introvabile. In tutti questi anni abbiamo condiviso tantissime esperienze insieme, e stare qui è come continuare un percorso che ho iniziato insieme a Federico.

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