Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare l’architetto cileno Alejandro Aravena, Premio Pritzker nel 2016, in occasione del suo workshop con gli studenti di architettura. Ci ha parlato di come stanno discutendo del problema degli alloggi a Milano, di come sia possibile affrontare le disuguaglianze dando a tutti le stesse opportunità di partenza per poi lavorare sull’incrementalità, e ai giovani dice “Siate nerd, ma allo stesso tempo irriverenti”.
Laureato in architettura presso l’Universidad Católica de Chile nel 1992, professore all’Università di Harvard, nel 2001 ha fondato Elemental insieme con i partner Gonzalo Arteaga, Juan Cerda, Victor Oddó e Diego Torres. Nel 2010 è stato nominato Honorary International Fellow del Royal Institute of Architects. Dal 2011 è membro del Council of the Cities Program della London School of Economics. Il suo lavoro è stato premiato, tra gli altri, con il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia (2008) e il Premio Göteborg per la Sostenibilità (2017). Nel 2016 ha ricevuto il Pritzker Architecture Prize ed è stato curatore della XV Biennale di Venezia. Dal 2020 è Presidente della Giuria del Pritzker Prize.
A conclusione del Workshop Aravena ha tenuto poi una lecture dal titolo Elemental: the Current Toolbox.
Vi abbiamo interrotto in una pausa del vostro workshop, su cosa state lavorando?
Siamo partiti dall’idea del toolbox, di espandere i miei strumenti, la mia cassetta degli attrezzi.
Dall’educazione che ho ricevuto, da quello che vedevo che era necessario per affrontare le sfide del costruito, del built environment. Quindi dall’essere allenato a fare principalmente case, edifici ho dovuto capire quali fossero le basi fondamentali per costruire in social housing, in situazioni di emergenza, come negli Slum. A guardare agli edifici della città come luoghi dove dover decidere la forma nella quale le persone vivranno insieme.
Allo stesso tempo io sono stato educato a ricevere un brief da un committente e poi a mettere in pratica quello che avevo imparato, mettendo in atto strategie di progettazione.
Ma cosa succede quando non c’è il brief? Come si fa quando la domanda non è chiara neanche per il committente?
Quindi quello che stiamo facendo qui nel workshop è prima di tutto capire quali siano le forze in gioco, quale sia la sfida. In più capire se c’è un problema, il presupposto è che Milano è talmente cara che non permette agli studenti di vivere qui, quindi è un controsenso che vieni a studiare a Milano e poi non riesci a vivere nel posto dove sei venuto a studiare. Ma non solo per gli studenti.
Anche i lavoratori non riescono a rimanere per il costo alto della vita, una ballerina del Teatro alla Scala non riesce a pagare la casa, quindi?
Anche se i ricchi o i turisti vengono qua e la ballerina non riesce a pagare, allora c’è qualcosa che non va. Questi sono fatti, ma io volevo provare a fare l’avvocato del diavolo.
Allora ho parlato con gli studenti. Quella domanda del “So What?” E allora? C’è qualche rischio? C’è un problema? Perché è un fenomeno che alla fine può portare Milano a perdere massa critica perché quella capacità di attrarre idee, persone, conoscenza, risorse è soltanto per pochi, non è più competitivo e questo è successo tante volte nella storia. Ma voglio veramente capire se questo è un problema, ci sono tante altre città dove accade la stessa cosa, Parigi, Londra, New York. Forse questo è il momento migliore di Milano, mai come ora attrae così tanti turisti.
Quindi voglio veramente lasciare fuori qualsiasi romanticismo, qualsiasi baias, qualsiasi pregiudizio. Perché poi alla fine, se dopo tutta questa analisi e questo lavoro di ascolto di tante voci non solo di quelli che si lamentano di un problema, ma anche di quelli che la vedono come opportunità c’è il bisogno di fare qualcosa, allora quello lì sarà molto forte. Non è che sarà una cosa che fai, perché si suppone che tu la debba fare per il politicamente corretto.
Questa è l’idea di espandere il toolbox verso strategie, ambiti di design e operazioni di architettura che non sono necessariamente quelle che la società si aspetta da un architetto.
Siamo in un’università e ripercorrendo la sua carriera ha realizzato molti edifici per l’edilizia scolastica. Come li progettava, pensando a chi li avrebbe abitati?
Si, questo forse è quello che ci si aspetta normalmente da un architetto che fa degli edifici.
Questo dovrebbe essere il punto di partenza, ma non sempre è così.
Forse il grande problema dell’architettura è che troppe volte noi architetti ci occupiamo dei problemi che interessano solo altri architetti, quindi alla fine sei postmodernista, sei modernista, sei minimalista, o sei decostruttivista. E alla società non interessa niente di tutto ciò.
Invece, se il punto di partenza non è il contributo all’architettura, ma il contributo alla società, cogliendo il problema che disturba il cittadino, entrando in una discussione non architettonica, ma con la conoscenza dell’architettura. E questa forse è la sfida della nostra professione. Io non mi sveglio una mattina con una voglia incredibile di fare un edificio, ma è qualcuno che deve aver bisogno di un edificio, quindi parte tutto da fuori da te, non da te stesso.
Una volta che hai una necessità, un desiderio o una mancanza di qualcosa, la prima cosa che devi fare è centrare il tuo lavoro per soddisfare poi la necessità. Questo per definizione, sarà un bisogno, una vita, una università, uno spazio di lavoro. Come si fa per trasmettere conoscenza da una generazione all’altra? Come si fa per creare conoscenza? Riesci a creare una forma che crea le condizioni perché questo accada nel modo migliore.
Sin dall’inizio è stato centrato in quel bisogno / desiderio. Ciò che era meno chiaro all’epoca è che oltre quello che è più convenzionale, c’è anche quel bisogno. Normalmente noi architetti non abbiamo gli strumenti per andare in questi posti dove non si aspetta che ci sia architettura. È lì che è nato questo bisogno di espandere il toolbox.
E infatti è stato definito “l’architetto dei poveri”, ci spiega come ha pensato a queste architetture per la gente che ha meno possibilità economiche, all’espansione di queste case modulabili in cui è possibile costruire la seconda parte dopo?
Questa definizione di architetto dei poveri è un po’ un leit motiv, quello che è importante è che le città riflettono le inuguaglianze, in modo non solo molto concreto, ma anche quotidiano e a volte molto violento. Ma allo stesso tempo possono essere una scorciatoia verso l’uguaglianza, più che l’uguaglianza, verso l’equità. Che sono due cose diverse. Perché nell’uguaglianza tu vorresti che tutti fossero uguali, invece nell’equità vuoi che tutti partano da una base comune, che abbiano tutti accesso alle stesse opportunità.
Poi ci sarà qualcuno che arriverà fino a un certo punto e qualcun altro che arriverà un po’ più in là. Non mi interessa il punto di arrivo, mi interessa il punto di partenza è quello che deve essere livellato. E la città dà questa possibilità di fare qualcosa con questo dislivello del punto di partenza, perché può migliorare la qualità della vita in tempi relativamente brevi.
Se una persona vive nelle case in social housing che sono lontane dal posto di lavoro, con pochi mezzi pubblici e pochi servizi e spazi pubblici di qualità bisogna migliorare tutto questo, ma senza intaccare il salario e questo può essere migliorato attraverso la città.
Bisogna cioè costruire le abitazioni lì dove ci sono le opportunità, i servizi, infrastrutture, lo spazio pubblico, dove il trasporto pubblico è ben servito. Quindi puoi correggere questa ineguaglianza del punto di partenza e portare qualità di vita senza toccare il reddito.
Da questo punto di vista mi interessava usare l’architettura per questa capacità di trasformare lo spazio dove viviamo insieme come una scorciatoia verso l’equità. In più lì abitano molte più persone, quindi se devi scegliere per impatto, non scegli l’élite, scegli dove anche un miglioramento di un millimetro significherà molto di più.
E come riesce a coniugare la scarsità di mezzi con l’innovazione, comunque con case di qualità?
E perché lì sei obbligato a rispondere con quello che è pertinente alle esigenze, lasciando fuori tutto quello che è superfluo, quello che è arbitrario. Quindi, da questo punto di vista, non è solo una questione morale o etica, è anche una questione di precisione professionale.
Se vuoi usare le città come scorciatoia verso l’equità, se vuoi impattare su più persone possibili, se vuoi andare a lavorare dove ci sono meno risorse, di conseguenza è più probabile che quelli per cui lavorerai saranno i poveri.
Da qui è nata l’idea di dare la possibilità di costruire successivamente una parte.
Sì, appunto quando non hai né i soldi né il tempo per fare tutto subito la soluzione contro la scarsità è l’incrementalità. Un sistema aperto, che nel tempo possa crescere. L’incrementalità è stata una delle strategie che abbiamo trovato, perché una volta che devi consegnare una casa in social housing che è insufficiente, quelle famiglie non siano condannate a vivere sempre in quello standard iniziale, ma che col tempo lo possano migliorare.
E questo potrà accadere sia con risorse pubbliche, che arrivano dopo, oppure con risorse delle proprie famiglie. Il punto è creare un sistema aperto, non chiuso. Dalla base minima standard di partenza al massimo c’è un gap che si può colmare con una molteplicità di risorse, a volte sono private, a volte sono pubbliche, a volte sono le famiglie stesse. Il punto è lasciare quello spazio nel quale il punto di partenza, il minimo, non sia uguale al punto di arrivo.
Volevo capire come parte con il suo lavoro, ho visto degli schizzi molto belli. Come parte la progettazione di un edificio, che studi fa, quanto è importante la partecipazione?
Credo sia molto importante non volere tutto troppo presto, vuol dire che se io in anticipo so cosa voglio fare, allora il committente, il lavoro è una scusa per aggiungere qualcosa al mio portafoglio creativo. Invece se non è chiaro all’inizio cosa devi fare e riesci a posticipare quello che vuoi fare finché non hai capito qual è la domanda.
Il nostro approccio è, prima disegnare la domanda, soltanto dopo disegnare la risposta e per disegnare la domanda, ciò che alla fine noi facciamo è dare forma ai luoghi dove le persone vivono.
Quali sono le forze in gioco che avranno qualcosa da dire con quella forma finale? Quando inizi a capire, a identificare quelle forze che sono economiche, politiche, legali, sociali e ambientali e anche estetiche allora, una volta identificate quelle forze, soltanto in quel momento cerchi di fare quel salto nel vuoto che è la creazione, il design, che è sintetico, che deve sintetizzare quelle forze che a volte spingono in direzione opposta, sono contraddittorie.
La domanda deve rimanere anche con le sue contraddizioni e sarà il lavoro del design a risolvere quella contraddizione o quella complessità perché più è complessa la domanda e più c’è bisogno di sintesi. Se c’è qualche potere nell’architettura, è il potere di sintesi del design. Un progetto organizza l’informazione in chiave di proposta, non di un report. È un salto nel vuoto del “What if?” Cosa succederebbe se?
Di che cosa pensa che abbia più bisogno Milano adesso?
Sto facendo questo workshop, proprio per scoprirlo.
Questa prima settimana, abbiamo invitato a parlare su questo fenomeno di Milano persone del Real estate, delle banche, attivisti e politici. Tutti quello che hanno qualcosa da dire, senza nessun pregiudizio, per capire qual è il loro punto di vista. Una volta identificate le forze in gioco, forse arriveremo a capire quale sia la domanda invece di cercare subito di fare social housing che potrebbe essere la risposta.
Può darsi che la risposta sia non fare niente, nel senso che magari sposti l’università da un’altra parte dove il costo delle case sia affrontabile. Oppure la risposta è nella mobilità, o forse nella politica finanziaria. A volte la risposta non è nell’architettura. Anche questo è importante, che una volta che hai identificato la domanda, può darsi che non sia compito dell’architettura dare la risposta. A volte c’è bisogno dell’architettura, non sempre. È un esercizio che facciamo sempre a Elemental.
Elemental è il suo studio di Santiago, quanti siete e come siete organizzati?
Siamo in 16, il nostro studio cerca di essere il più piccolo possibile, ma abbiamo partnership con diversi studi locali per fare dei progetti altrove. Per esempio in Portogallo il nostro partner è João Luís Carrilho da Graça, in Messico abbiamo Ibarra.
Lavoriamo molto in team e c’è grande sintonia e feeling, cosa che sarebbe difficile in uno studio molto grande con tante persone. E poi soprattutto per noi è molto importante la libertà, più piccolo sei, più libero sei, quindi dobbiamo essere grandi abbastanza per riuscire a fare progetti complessi, ma non tanto da dover pagare il team.
E questo è importante quando la domanda ha bisogno di indipendenza intellettuale e libertà professionale. A volte devi farla, devi essere molto distaccato dall’interesse in gioco per riuscire a dare una risposta efficiente e quindi, come solitamente ci capita, siamo chiamati ad entrare in una zona di conflitto, è lì che bisogna mantenere quell’indipendenza e quella libertà. Altrimenti ci si perde.
E un’ultima domanda, che consiglio darebbe a uno studente che adesso comincia a studiare architettura?
Allora io gli direi di essere allo stesso tempo il più nerd più possibile, cioè divorare la maggiore quantità di informazioni, perché se qualcuno vuole entrare è già in ritardo, l’architettura è iniziata migliaia di anni fa. Sono io che devo andare lì a divorare tutte quelle conoscenze.
Allo stesso tempo deve essere iconoclasta e irriverente. Non è che perché hai capito tutto quello che c’era da imparare, allora devi obbedire. Bisogna usare quella conoscenza per scardinare, mettere in discussione, scatenare problemi, andare oltre il business as usual.
Come diceva mi sembra Lautréamont “Bisogna divorare un bosco per produrre uno stuzzicadenti” è più o meno questo.