Cosa hanno in comune i dinosauri e l’ingegneria aerospaziale?

Abbiamo incontrato Simone Conti, autore dello studio sulle code dei dinosauri, sviluppato dalla collaborazione tra il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico di Milano e il Dipartimento di Geologia dell’Universidade NOVA de Lisboa.

Simone è un paleontologo, con la passione per lo studio dei dinosauri e per l’ingegneria aerospaziale; passioni che è riuscito ad intrecciare nel suo percorso di studi e di ricerca.

Simone Conti

Come nasce la tua ricerca sulla coda dei dinosauri diplodocidi?

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sono stati scoperti in Nord America alcuni scheletri di dinosauro tra i più completi mai rinvenuti fino ad allora.

Dal momento della loro scoperta c’è stata un’ondata di ricerche, che ha reso famosi nomi quali Diplodocus, Apatosaurus o Brontosaurus. Questi dinosauri dal collo lungo, le cui code erano lunghe circa 12/13 metri, appartengono alla famiglia dei diplodocidi, dinosauri erbivori vissuti nel Giurassico Superiore. Una particolarità di questi animali era che le vertebre caudali passavano da una forma alta e tozza, fino a diventare all’altra estremità dei piccoli cilindri lunghi qualche centimetro.

Qual è l’interesse scientifico di questa famiglia di dinosauri?

La funzione di una coda che presenta elementi finali così piccoli non era chiara; per quasi cento anni sono state fatte numerose ipotesi, tra le quali l’utilizzo della coda come frusta oppure come terzo piede per alzarsi sulle zampe posteriori.

Ad una prima simulazione a computer, risalente al 1994, è seguito tre anni più tardi uno studio più approfondito; questo studio è diventato molto famoso perché dimostrava la possibilità della coda di raggiungere velocità supersoniche. Ciò significa che i diplodocidi erano i primi esseri viventi a superare la velocità del suono.

Quest’immagine del dinosauro a collo lungo capace di superare la barriera del suono con la sua coda è rimasta al centro dell’attenzione per vent’anni, comprovata poi da uno studio del 2015 su un modello in scala costruito in alluminio e acciaio.

Modello in scala 1 a 1 esposto al DinoParque di Lourinha

Come si è svolto il tuo studio?

Volevo imparare ad utilizzare il metodo delle simulazioni Multibody, che è un metodo utilizzato comunemente dagli ingegneri meccanici, aerospaziali e aeronautici. Questo metodo simula il comportamento dei corpi rigidi nello spazio e l’interazione che avviene fra i corpi connessi da giunti, applicando determinate forze. Ad esempio, questa simulazione viene utilizzata nell’ingegneria aerospaziale per verificare la stabilità del satellite nel momento dell’apertura dei pannelli solari.

Quando ho fatto le simulazioni sul modello adottato anni fa, ho notato che la simulazione continuava a fallire: a velocità supersonica, l’angolo massimo impostato fra le vertebre continuava ad essere superato, rivelando che nella realtà la coda si sarebbe spezzata.

A questo punto, come hai agito?

L’unico modo per far completare la simulazione era mantenere il modello a velocità più basse. Stiamo parlando però di modelli e, poiché qualsiasi modello è un’approssimazione della realtà, avevo bisogno di trovare dei sostegni alla mia tesi.

Tali sostegni li ho trovati nello studio dei tessuti molli, ovvero tutto ciò che in biologia non è ossa, ad esempio cartilagini, muscoli, tendini, ecc. Lo studio delle proprietà meccaniche di questi materiali ha dimostrato che, neanche con la proprietà meccanica migliore, sarebbero stati in grado di resistere allo stress di muoversi a velocità supersoniche.

Lo studio elimina quindi un po’ di sensazionalità, perché colpisce l’immaginario collettivo intorno a creature così imponenti come i dinosauri…

Spesso, quando si parla di dinosauri, c’è la tendenza a “mitizzare” questi animali, quando in realtà la cosa più probabile è che si comportassero come gli animali attuali, cosa che non toglie alcun fascino alla loro ricerca, anzi la accentua.

Un altro mito sui dinosauri, a cui si è creduto per lungo tempo, è che i sauropodi, i dinosauri molto grandi dal collo lungo, fossero dei dinosauri acquatici. Fino ai primi anni del Novecento non si riusciva infatti a capire come questi dinosauri potessero camminare; si è quindi pensato per molto tempo che necessitassero della forza idrostatica per sostenersi, tanto che uno dei primi dinosauri trovati in Inghilterra fu chiamato Cetiosaurus, che significa “rettile balena”. Solo con il passare del tempo e diversi studi, si è capito che erano animali terrestri.

Delle volte anche i ricercatori e gli scienziati si affezionano ad alcune idee…

Bisogna avere l’accortezza di non trasformare la ricerca scientifica in una battaglia personale, anche quando ci si mette tutto l’impegno possibile, ma riconoscere che la scienza progredisce di continuo.

In realtà, sebbene siano in contraddizione, il mio articolo esiste anche grazie ai precedenti, in particolare allo studio del ‘97. Se non ci fosse stato questo studio, avrei fatto molta più fatica ad arrivare a questi risultati.

Il bello della scienza è proprio questo: rivedere, rimaneggiare, ristudiare continuamente. Rivedere quello che è stato fatto in passato utilizzando approcci innovativi può portare a risultati nuovi. Per questo il dialogo tra diversi ambiti disciplinari è secondo me vincente: perché aiuta a trovare dei punti di contatto che fino a poco tempo fa non esistevano.

Il tuo studio è un esempio di questo dialogo tra discipline diverse. Cosa ti ha portato dagli studi di paleontologia ad un dottorato nell’ambito dell’ingegneria aerospaziale?

Io ero uno di quei classici bambini appassionati di dinosauri. Poi, crescendo, mi sono appassionato tantissimo all’ingegneria aerospaziale, tanto che avevo superato il test di ingresso per entrare al Politecnico.

In quegli anni, però, la paleontologia si stava distaccando sempre più dalle tecniche tradizionali, legate principalmente alla sola descrizione, per aprirsi sempre di più a nuove tecniche e collaborazioni con le altre scienze, soprattutto con l’ingegneria e la matematica. È stato il connubio tra ingegneria e paleontologia che ha fatto sì che mi riappassionassi nuovamente alla paleontologia; ho quindi studiato Scienze Naturali all’Università degli Studi di Milano e Paleobiology alla University of Bristol.

Per il dottorato volevo studiare la biomeccanica; il mio desiderio e spunto principale era quello di imparare metodi che appartengono ad un ambito specifico per poi applicarli altrove. Tutto è nato con il professor Giuseppe Sala, del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico, che è diventato poi il mio supervisore. Con lui abbiamo fatto nascere la collaborazione con la Universidade NOVA de Lisboa in Portogallo per una borsa di dottorato finanziata dalla Fundação para a Ciência e a Tecnologia.

Il modello della coda dell’Apatosaurus elaborato da Simone Conti

Quali sono i punti di incontro tra paleontologia e ingegneria?

Gli esempi di un connubio tra paleontologia e ingegneria si stanno sviluppando oggi, sebbene siano ancora pochi. Tra questi c’è Emily Rayfield, docente della University of Bristol, la quale ha fatto i primi studi paleontologici utilizzando il metodo degli elementi finiti (FEA): si tratta di un metodo che permette di studiare oggetti dalla geometria complicata, come ad esempio le ossa, scomponendoli in tanti piccoli elementi geometrici semplici.

L’idea è quindi quella di studiare lo scheletro di questi giganti del passato grazie ad una visione di tipo ingegneristico, cercando di comprendere e sviscerare i segreti dietro questi animali. I dinosauri sono qualcosa che consideriamo come molto vecchio (basti considerare l’accezione con cui diamo del “dinosauro” a qualcuno nel nostro parlato quotidiano).

In realtà i dinosauri hanno avuto una storia evolutiva di successo, perché per 145 milioni di anni hanno camminato sulla Terra. Senza poi contare che i dinosauri sono ancora in mezzo a noi: tutti gli uccelli sono dinosauri, dal pollo servito in tavola, al piccione in piazza Duomo a Milano. Tornando invece ai “veri dinosauri”, prendiamo ad esempio il Tyrannosaurus rex, uno degli ultimi dinosauri. Il “T-rex” è vissuto 65 milioni di anni fa; ciò vuol dire che fra noi e il “T-rex” è passato molto meno tempo che fra il “T-rex” e altri dinosauri. Avere un’idea di queste grandezze ci fa capire da quanto poco noi umani siamo sulla Terra.

Quali sono per te i benefici di questa collaborazione tra diverse discipline, soprattutto in ambito di ricerca e sperimentazione?

Ciò che trovo fondamentale, e che nel mio studio è stato al momento vincente, è il cercare nuovi metodi da applicare in ambiti in cui non sono ancora applicati. I metodi che ho utilizzato sono stati già ottimizzati, ma finora applicati principalmente in ambiti esterni alla paleontologia.

Sicuramente non è sempre facile: ho vissuto anche io questa difficoltà quando mi sono accorto che la conoscenza dei tessuti molli è un ambito ancora tutto da sviluppare. Il bello della ricerca di per sé è proprio la libertà di cercare, ossia la capacità di aprire la mente per indagare cosa ancora non si sa.

In realtà l’ingegneria aerospaziale è piena di esempi di soluzioni sviluppate per le missioni spaziali che hanno trovato un uso comune nella vita di tutti i giorni. Per quanto riguarda la paleontologia, invece, spesso ci si dimentica che la storia della Terra è molto più lunga di quella attuale. Penso, ad esempio, al clima: poiché ci sono state diverse fasi climatiche nella storia della Terra, studiare il cambiamento climatico e l’adattamento degli animali ad esso ci permette di avere dei modelli utili per predire il futuro.

Il modello della coda dell’Apatosaurus in movimento

In che modo i metodi e le soluzioni ingegneristiche possono essere applicati allo studio delle scienze naturali?

In un altro studio, in pubblicazione prossimamente, parlo proprio di come il mondo naturale e l’ingegneria abbiano spesso sviluppato, indipendentemente tra loro, soluzioni simili. La natura è un ottimo banco di prova per qualsiasi ricerca ingegneristica.

C’è ad esempio un piccolo insetto, che è grande pochi millimetri e vive nei prati, comunemente noto come sputacchina, la cui particolarità è che le zampe dedicate al salto presentano degli “ingranaggi” che permettono il movimento simultaneo di entrambe le zampe, così da saltare perfettamente dritti. La stessa soluzione dell’uso degli ingranaggi è comune, tanto che spesso sono presenti nei disegni di Leonardo da Vinci.

Questo prossimo studio è basato sulle ossa dello struzzo; in particolare il femore dello struzzo presenta una struttura geodetica, ovvero ha degli irrobustimenti a 45 gradi rispetto all’asse lungo dell’osso. Ebbene, un adattamento molto simile è stato utilizzato per il Vickers Wellington, un bombardiere inglese della seconda guerra mondiale, che ha adottato una struttura geodetica per ali e fusoliera. Questi sono solo alcuni esempi, ma penso che ce ne siano molti altri che ancora non si conoscono.

I tuoi progetti per il futuro riguardano quest’ambito di ricerca?

Sì, uno dei miei grandi desideri è quello di continuare a fare ricerca, anche se non sempre è facile. In particolare, mi piacerebbe proseguire con lo sviluppo di questa collaborazione tra ambiti ingegneristici e ambiti naturalistici, anche perché si tratta di un approccio oggi all’avanguardia.

Penso ad esempio alla biomimesi, ovvero un approccio ingegneristico che studia la natura copiandola. Sono usciti recentemente degli studi molto interessanti su dei droni che utilizzano il battito e la forma delle ali degli uccelli per avere un volo molto manovrabile. Un altro studio recente dimostra come un drone, avente la struttura delle zampe degli uccelli, ha la capacità di aggrapparsi e “appollaiarsi” nel punto che si desidera.

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