Lavoro flessibile? L’importante è avere il controllo

Smart working, orari personalizzati, autonomia crescente: la flessibilità sul lavoro sembra la ricetta perfetta per il benessere. Ma è davvero così?

Uno studio condotto dal Politecnico di Milano insieme alla Graduate School of Management dell’Ateneo — pubblicato su Journal of Vocational Behaviour dimostra che non basta poter scegliere dove e quando lavorare: la vera differenza la fa il controllo che le persone sentono di avere, non solo sul lavoro, ma anche sui propri confini sociali.

Analizzando oltre 1400 dipendenti di una banca italiana, la ricerca ha individuato quattro profili di flessibilità, incrociando due dimensioni: il controllo sul lavoro e quello sulla vita personale. Solo chi ha entrambi sperimenta davvero benessere, motivazione e work-life balance

Ne abbiamo parlato con Gabriele Boccoli, ricercatore del Politecnico e co-autore dello studio, per capire come cambia — davvero — l’esperienza del lavoro flessibile.

Foto del ricercatore Gabriele Boccoli
Gabriele Boccoli | © Elena Gini 2025 per Frontiere

Come sei arrivato a lavorare in questo ambito?

La mia passione per la ricerca è nata durante la laurea magistrale. Dopo aver concluso gli studi ho lavorato per un paio d’anni, ma sentivo il bisogno di approfondire. Così ho fatto domanda per il dottorato, che ho vinto e sono approdato al Dipartimento di Ingegneria Gestionale, dove c’erano bandi su temi molto vicini al mio background sociologico: engagement, psicologia del lavoro, HR Analytics.

Con il tempo, la mia passione per questi temi è cresciuta e oggi la ricerca sul comportamento organizzativo e il benessere delle persone al lavoro è ciò che mi guida.

Come nasce questa ricerca?

La ricerca si inserisce in un progetto più ampio del gruppo Joint Research Platform: People Analytics for Empoloyee Engagement & Wellbeing , di cui faccio parte. Collaboriamo con aziende per studiare l’impatto delle pratiche HR sul benessere dei lavoratori e le loro performance. Durante la pandemia è emersa con forza la relazione — non sempre lineare — tra flessibilità lavorativa e benessere.

In teoria, la flessibilità dovrebbe migliorare la qualità della vita e le performance. Ma alcuni studi hanno messo in luce anche effetti opposti: isolamento, stress, burnout. Questo paradosso è noto come autonomy-control paradox. Noi ci siamo chiesti: quando la flessibilità funziona davvero? E quando invece rischia di diventare un boomerang?

Perché avete scelto di studiare una banca?

Avevamo già contatti con quell’azienda e si era creata una situazione favorevole: avevano implementato diverse pratiche di flessibilità — sia in termini spaziali che temporali — e questo ci ha permesso di lavorare su un campione eterogeneo, che aveva sperimentato diversi gradi e modalità di lavoro flessibile.

Lo studio è replicabile anche in altri contesti, purché ci sia un minimo di infrastruttura flessibile su cui lavorare. Certamente ci sono ruoli per cui non è possibile, ma in generale i risultati sono utili per molte realtà organizzative.

Come avete costruito lo studio e cosa avete scoperto?

Abbiamo adottato un approccio longitudinale, cioè abbiamo analizzato i dati in due momenti diversi nel tempo, per osservare eventuali cambiamenti nei profili di flessibilità. Il campione era composto da oltre 1400 dipendenti di una banca italiana.

Abbiamo costruito quattro profili, combinando due dimensioni psicologiche fondamentali:

Lo psychological job control, cioè la percezione di controllo su dove e quando si lavora.

Il boundary control, ovvero la capacità di gestire e proteggere i propri ruoli sociali (per esempio, essere genitore, partner, figlio, ecc.).

Ne è uscita una mappa molto interessante. Alcuni individui hanno un alto livello di controllo su entrambi i fronti, altri su uno solo, altri ancora su nessuno dei due. I quattro profili sono:

Flexible dividers – alto controllo sia sul lavoro che sui confini sociali. Sono quelli che stanno meglio e che presentano i migliori livelli di benessere (in termini di soddisfazione lavorativa, work engagement e bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa) stabili nel tempo.

Non-flexible dividers – basso controllo sul lavoro, ma alto sui confini.

Flexible non-dividers – alto controllo sul lavoro, ma bassa gestione dei ruoli sociali.

Non-flexible non-dividers – basso controllo su entrambi i fronti, e non stanno bene affatto.

Grafico che evidenzia la distribuzione dei profili | photocourtesy © Gabriele Boccoli 2025

Qual è il profilo che vi ha colpito di più?

Il più interessante è stato quello dei flexible non-dividers. Questo profilo è risultato essere il più instabile nel tempo: molte persone sono passate da lì ad altri profili più “sani”, con maggiore boundary control.

In generale, i profili con scarso controllo sui confini sociali sono quelli più vulnerabili: riportano livelli più bassi di benessere, engagement, soddisfazione e work-life balance. Questo rafforza l’idea che la vera flessibilità non è solo questione di orari o luoghi, ma anche — e forse soprattutto — della capacità di gestire i ruoli personali e sociali.

Il genere ha avuto un ruolo in questa transizione?

Sì, il genere è stato uno dei predittori significativi. Dai dati è emerso che:

Gli uomini tendono ad appartenere più frequentemente a profili “positivi”, con alto controllo sia sul lavoro che sui confini.

Le donne, invece, sono risultate più presenti nei profili “non-dividers”, cioè quelli dove manca soprattutto la gestione efficace dei ruoli sociali.

Questa differenza può riflettere dinamiche culturali e sociali: in molti contesti, le donne continuano ad avere un carico maggiore nella gestione familiare, che si traduce in una maggiore difficoltà nel separare e bilanciare gli ambiti della vita.

Ci sono state difficoltà nella realizzazione dello studio?

In realtà no, perché la collaborazione con l’azienda è stata molto fluida. Il dipartimento HR è stato molto disponibile e coinvolto: abbiamo costruito insieme la ricerca, anche nella definizione del questionario. Naturalmente noi ci siamo occupati della parte scientifica, ma loro ci hanno aiutato molto nel rendere comprensibili le domande per i dipendenti, senza perdere rigore. È stato un processo collaborativo e costruttivo.

Cosa consiglieresti a uno studente che vorrebbe intraprendere la carriera accademica?

Prima di tutto: fare domanda per un dottorato. È il primo passo. Il percorso poi è lungo: dottorato, post-doc, ricercatore, professore associato, e così via. Servono costanza, curiosità, una buona media… e soprattutto una vera passione per lo studio.

Per me la cosa più bella è la possibilità di essere continuamente stimolato dal punto di vista intellettuale. Ogni ricerca è un’opportunità per imparare, per porsi nuove domande, per esplorare temi anche molto diversi ma connessi tra loro. È un lavoro vario, creativo, e che ti tiene vivo mentalmente.

Cosa ti piace di più di questo mestiere?

Sicuramente la curiosità. Quella che spesso si attribuisce ai bambini: la voglia di capire, di approfondire, di farsi domande. Fare ricerca significa anche rendersi conto di quanto ancora non sappiamo. Più studi e più capisci che ci sono molteplici prospettive, molteplici verità. E questo, secondo me, aiuta anche a diventare persone più tolleranti e aperte.

Un’ultima domanda per concludere: se dovessi consigliare un libro un film o un documentario che ruoti intorno ai temi di questa ricerca?

Mi vengono in mente tanti testi accademici — che non sono il massimo per iniziare! Però ad esempio mi è piaciuto molto un documentario sul mondo del lavoro in Giappone: mostra come fattori culturali e sociali possano generare derive come il workaholism o il burnout. Ecco, quel tipo di racconto aiuta a capire quanto il benessere lavorativo sia anche una questione culturale, non solo organizzativa.

Riflettendoci, un film potrebbe essere Il diavolo veste Prada. È sicuramente un titolo molto noto, ma rappresenta bene alcune dinamiche legate all’equilibrio tra vita lavorativa e personale, ai sacrifici richiesti da determinati ambienti professionali e ai ruoli — spesso imposti — che le persone si trovano a ricoprire. Anche in questo caso, il tema del genere è centrale.

Tra i libri, consiglierei Uno, nessuno e centomila di Pirandello, perché affronta con grande forza il tema dell’identità e dei ruoli che ciascuno di noi interpreta nella vita quotidiana — spesso in modo inconsapevole o frammentato. In alternativa, anche La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman può offrire spunti interessanti, soprattutto per chi ha un interesse più sociologico. È un testo che aiuta a riflettere su come ci presentiamo agli altri e su come gestiamo le interazioni, anche nel contesto lavorativo.

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