Il futuro è nella storia: l’eredità viva di Federico Bucci

Il Professor Federico Bucci
Il Professor Federico Bucci

Studioso, critico e docente, Federico Bucci ha attraversato la storia dell’architettura con lo sguardo di chi non separa mai il pensiero dal progetto, la conoscenza dall’esperienza. Professore ordinario di Storia dell’Architettura Contemporanea al Politecnico di Milano, Prorettore del Polo territoriale di Mantova e Direttore della Cattedra UNESCO per la pianificazione e tutela architettonica nelle città Patrimonio dell’Umanità, Bucci ha saputo dare forma a un modo di intendere l’università quale comunità viva, capace di dialogare con le città, la storia e il mondo.

Fondatore di MantovArchitettura, festival internazionale che ha portato a Mantova architetti, storici e critici da ogni parte del globo, ha lasciato un’eredità profonda: quella di un intellettuale che faceva della cultura una pratica civile e dell’insegnamento un atto di responsabilità verso il futuro.
A due anni dalla sua scomparsa, il Prorettore Vicario del Politecnico di Milano, Emilio Faroldi, lo ricorda in questa conversazione a cui si aggiungono Emanuela Bergomi, sua moglie LINK ed Elisa Boeri LINK sua assistente.
Un ritratto a più voci che restituisce l’uomo e il maestro, il collega e l’amico, la mente lucida e generosa che ha segnato un’intera generazione di studiosi e architetti.
Nel ricordo di Emilio Faroldi, Federico Bucci emerge come uno storico e docente capace di unire rigore e umanità, costruendo ponti tra progetto e memoria, università e società. La sua lezione continua a vivere nel Politecnico e in MantovArchitettura.

Qual è il suo primo ricordo di Federico Bucci? C’è un momento che restituisce meglio la sua personalità, dentro e fuori dall’università?

Ricordo Federico all’interno del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura. Eravamo entrambi neolaureati — lui aveva qualche anno più di me — e lavoravamo nello stesso edificio 13, oggi dedicato a Cesare Chiodi. Io ero assistente di Matilde Baffa, una docente di Composizione Architettonica, mentre lui collaborava attivamente alla redazione dei Quaderni del Dipartimento dove era direttore Ludovico Meneghetti, docente di Urbanistica, che per Federico fu un punto di riferimento importante. Da lì sono iniziate le nostre carriere.
Se dovessi delinearne il profilo direi che era una persona profondamente impegnata nel Politecnico. Aveva un autentico senso dell’impegno “politico”, nel significato più alto del termine: portava i problemi della società dentro l’università e quelli dell’università dentro la società.
Era – per me è – un uomo di profondo rigore istituzionale, ma al tempo stesso brillante, ironico, persino guascone. Una personalità vivace, animata da un profondo spirito politecnico e da un sincero attaccamento al nostro Ateneo.
Non era tanto e solo attratto dal progetto praticato quanto dalla sua critica, che considerava parte integrante del progetto stesso. Tale approccio lo accompagnò anche nella lunga collaborazione con la rivista Casabella, dove lavorò per quasi vent’anni accanto al direttore Francesco Dal Co.
Dal Co, a sua volta, era stato allievo di Manfredo Tafuri, e insieme avevano scritto una delle storie dell’architettura più importanti e tradotte al mondo, il celebre “Tafuri-DalCo”, così usavamo chiamare la loro “Architettura Contemporanea I e II” uscita, in prima edizione, per la casa editrice Electa nel 1976. Federico trovò in lui un maestro, un punto di riferimento autorevolissimo, in particolare all’interno della redazione della rivista, proseguendo una tradizione italiana riconosciutaci in tutto il mondo. Già ai tempi del Dipartimento mostrava una naturale predisposizione per la sistematizzazione dei dati e per la scrittura. Scherzavamo dicendo che era “più penna che matita”, ma sempre con lo stesso rispetto per il progetto.

Federico Bucci nella Biblioteca Storica del Politecnico di Milano
Federico Bucci nella Biblioteca Storica del Politecnico di Milano

Il suo lavoro intrecciava quindi critica, ricerca e didattica?

Sì, assolutamente. Per lui la storia dell’architettura contemporanea era una materia dinamica, capace di evolversi con i tempi e le tendenze. Se si pensa alle riviste di architettura degli anni Venti e Trenta, e poi a quelle del secondo dopoguerra, esse rappresentavano l’unico canale attraverso cui gli architetti potevano conoscere i progetti: arrivavano in formato cartaceo, con comitati editoriali e scientifici che selezionavano e commentavano le opere. Nulla di auto-pubblicato: tutto passava attraverso la griglia meritocratica dell’oggettività, scientifica, tecnica e poetica.
Nel secondo dopoguerra, appunto, Milano divenne il centro di questo dibattito, con Domus da un lato – diretta da Gio Ponti – e Casabella dall’altro — diretta da Ernesto Nathan Rogers. Le due riviste rappresentavano visioni complementari: Domus più avanguardista e internazionale, Casabella più radicata nell’identità italiana. È in questo contesto che Federico costruì il suo pensiero: l’importanza dell’architettura italiana del dopoguerra come difesa della memoria e dell’anima dei luoghi. Da qui nasce la sua posizione culturale – ripresa anche dal titolo della mostra organizzata in suo onore Il futuro è nella storia – che oggi può sembrare ordinaria, ma che, al contrario, lui rese centrale e nobilitante.

Inaugurazione Mostra "Il futuro è nella storia" - Politecnico di Milano
Inaugurazione della Mostra “Il futuro è nella storia” – Politecnico di Milano

Riusciva quindi a far dialogare passato e futuro dell’architettura?

Sì. Nel progetto, e più in generale nell’architettura, vedeva correttamente una continuità tra passato e futuro. Per lui non esisteva l’invenzione pura, ma la trasformazione: ogni progetto nasce dal rispetto per ciò che è stato tramandato, giungendo a noi per continue alterazioni ma sempre afferenti ad un solco riconoscibile.

Questo principio fu alla base dei suoi tredici anni a Mantova, dove costruì un modello didattico fondato sull’idea che tutte le discipline – dalla progettazione architettonica, alla tecnologia, dal restauro alla storia – dovessero dialogare tra loro. Lì creò anche la Cattedra UNESCO, formando specularmente una squadra di docenti, omogenea e ben attrezzata, che condivideva questa filosofia.
Il progetto didattico di Mantova, durante la sua direzione, era chiaro, coerente e riconosciuto anche a livello internazionale. Molti studenti sceglievano tale sede proprio per il rapporto vivo tra progetto e storia.

E questo approccio si rifletteva anche nel suo modo di insegnare?

Moltissimo. Ho avuto il piacere di lavorare con lui nel Laboratorio di Progettazione Finale – ultima e pregnante esperienza degli studenti triennali prima della laurea – congiuntamente alla Professoressa Maria Pilar Vettori. Federico, all’interno del laboratorio, teneva a Milano il modulo di Storia dell’Architettura Contemporanea. Era un profondo scambio reciproco: il progetto alimentava la storia, e la storia restituiva spessore al progetto.
A Mantova questo principio è vivo nel DNA del Corso di Studi. Gli studenti imparavano in un contesto unico, perché la città medesima costituisce un museo a cielo aperto.

Ci racconta come nacque MantovArchitettura e quale fu il suo significato per Federico Bucci?

Mantova Architettura fu una vera invenzione di Federico. Nacque circa dodici anni fa e rappresentò un’intuizione straordinaria: trasformare la città in un laboratorio vivo di architettura.
Seppe unire la forza critica di una rivista come Casabella con la dimensione accademica e pubblica dell’evento. Ogni anno invitava a Mantova decine di studiosi e architetti di fama internazionale, trasformando per un mese una città di 45.000 abitanti in un luogo di confronto e di scambio sulla cultura architettonica.
Il principio era semplice e potente: parlare di architettura dentro l’architettura. Le lezioni si svolgevano nei teatri, nei palazzi nobili, nei luoghi simbolo della città — dal Teatro Bibiena al Teatro di Sabbioneta, dal Palazzo Ducale alla Casa del Mantegna, dal Tempio di San Sebastiano a Palazzo Te. Il contenuto trovava così risonanza nella bellezza del contenitore.

Oltre a MantovArchitettura, quali considera i suoi contributi più significativi?

Direi due in particolare. Il primo è l’aver portato per dieci anni a Mantova il grande architetto portoghese Eduardo Souto de Moura, premio Pritzker, figura generosa e coerente, che contribuì a formare quella che oggi possiamo chiamare la “Scuola di Architettura di Mantova”.

Federico Bucci con Eduardo Souto de Moura
Federico Bucci con Eduardo Souto de Moura


Il secondo grande merito è quello di aver convinto Renzo Piano a tornare al Politecnico.
Fu lui a portare personalmente a Genova una lettera firmata da Giovanni Azzone, allora rettore del Politecnico, per invitare Renzo Piano a tenere una lezione inaugurale.
La prima volta l’invito non andò in porto – lo ricordo perché ero presente alla consegna -.  L’anno successivo, al contrario, la richiesta ebbe successo. Era l’ottobre del 2014. Renzo Piano venne e volle tenere la lezione in biblioteca, in mezzo ai libri e agli studenti. Fu un momento straordinario, molto intimo.
Questi contatti nacquero grazie alla rete che Federico aveva costruito nel tempo, e rappresentano una delle sue eredità più concrete ed eterne.

Federico Bucci con Renzo Piano
Federico Bucci con Renzo Piano

Che rapporto aveva con gli studenti?

Profondo. Li rispettava, li ascoltava, li stimolava. Diceva spesso che “l’architettura si trasmette per esperienza, non sui libri”, e lo dimostrava ogni giorno.
Sapeva intrecciare la dimensione accademica con quella umana. Federico conosceva tutti: il barista, il giornalaio, il ristoratore e naturalmente gli studenti. Aveva una qualità rara: la generosità del tempo. Si fermava a parlare, a spiegare, a condividere esperienze.
Era empatico, con una grande capacità di ascolto. Non aveva mai paura di dare tempo agli altri — un dono raro nel mondo universitario. Gli studenti lo adoravano proprio per questo: perché si sentivano visti, ascoltati, rispettati.
Era brillante, ironico, appassionato di calcio e di tennis. Quando se n’è andato, l’Inter vinse il derby 5 a 1: un segno che a molti di noi parve quasi poetico.

In che modo ha influenzato il Politecnico durante la sua presenza nel Board accademico?

Per oltre dodici anni fece parte del Board accademico con tre diversi rettori.
Ha avuto un ruolo fondamentale portando sempre la voce degli architetti, a volte in minoranza tra gli ingegneri.
Partecipava con grande serietà, ma anche con ironia e leggerezza. Era una figura di equilibrio: sapeva dialogare con gli ingegneri – cosa non scontata per un architetto – e costruiva sempre ponti.
Studiava la storia del Politecnico e contribuì a numerosi volumi sulla sua nascita e sviluppo. Nei suoi scritti emergeva la convinzione che il Politecnico non fosse solo un luogo di formazione tecnica, bensì una comunità culturale chiamata a interrogarsi sul proprio ruolo nel tempo.

Quali altre iniziative gli dobbiamo al Politecnico?

Fu l’ideatore del Festival dell’Ingegneria. Aveva la rara capacità di unire mondi che spesso si tengono a distanza, quello degli architetti e quello degli ingegneri. Li rispettava entrambi e ne conosceva la storia.

Federico Bucci al Festival dell'Ingegneria
Federico Bucci al Festival dell’Ingegneria

C’è un episodio che secondo lei rappresenta meglio il suo spirito?

Ricordo che, quando è scomparso, l’Inter – la sua squadra del cuore – vinse, come detto, 5 a 1 il derby contro il Milan. Fu come un piccolo segno, un sorriso del destino. Sulla bara c’era una maglia dell’Inter con le firme originali di tutti i giocatori: un saluto pieno di passione e ironia, proprio come lui.

Pensa che la sua capacità di unire mondi diversi sia una delle eredità più forti che ha lasciato?

Sì, assolutamente. Federico era eclettico, multidirezionale. Non lo storico “classico” chiuso in biblioteca, ma uno storico che viveva le cose, in mezzo alle persone, ai cantieri, ai dibattiti. Il periodo trascorso negli Stati Uniti lo aveva forgiato ciò.
Aveva una curiosità instancabile e una straordinaria capacità di costruire relazioni, mettendo in dialogo università, ricerca, progetto e mondo esterno. In questo senso, era anche un “imprenditore della cultura”: capace di immaginare e realizzare progetti che univano persone, istituzioni e linguaggi.

Se oggi potesse rivolgergli una domanda, cosa gli chiederebbe?

(Sorride) Forse: “Chi vince il campionato?” — e sono certo che, da interista convinto, risponderebbe con sicurezza: “L’Inter, ovviamente.”
Ma, scherzi a parte, credo che gli chiederei, anche, se è soddisfatto di come stiamo portando avanti le cose. Se pensa che stiamo custodendo bene ciò che ha costruito, e se stiamo continuando a coltivare quello spirito di curiosità e apertura che lui incarnava.
So anche cosa mi risponderebbe!

Ha un’ultima immagine o un ricordo che le piace conservare di lui?

Sì, ne ho tanti. Uno a cui sono particolarmente legato è un viaggio che facemmo insieme in Cina, per una serie di lezioni e accordi accademici con le scuole di architettura di Nanchino e Pechino.
Lì ho conosciuto un Federico diverso: il viaggiatore, il curioso, l’uomo capace di osservare tutto con occhi nuovi. Era entusiasta, divertito, pieno di energia. Era un uomo generoso e brillante, capace di essere serio e leggero allo stesso tempo.
Ricordo anche quando gli regalai un cappellino che acquistai per lui durante il torneo di Wimbledon: gli brillavano gli occhi, felice come un bambino. Quel sorriso racchiude tutto di lui: la passione, l’intelligenza e la leggerezza.

Emilio Faroldi con Laura Pezzetti e Federico Bucci a Pechino nella Città Proibita
Emilio Faroldi con Laura Pezzetti e Federico Bucci a Pechino nella Città Proibita

Cosa resta oggi del suo insegnamento?

Resta la sua visione: che il futuro dell’architettura è nella storia, e che il sapere va condiviso. Lo reputo, per quanto riguarda il mondo della Storia dell’Architettura Contemporanea, uno “scienziato della conoscenza”. Rimane la sua generosità, il senso di comunità, la sua capacità di unire rigore e umanità.
E resta, soprattutto, il suo esempio: quello di un uomo che ha amato profondamente l’università, gli studenti e il suo mestiere di architetto e di storico.

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