
Abbiamo intervistato Stefano Silvestrini, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali del Politecnico di Milano per raccontarci il suo progetto di ricerca che è tra i vincitori del prestigioso Bando IDEA League Fellowship 2024-2025.
L’IDEA League, di cui fanno parte cinque importanti università europee, tra cui il Politecnico di Milano, la TU Delft, l’ETH di Zurigo, la RWTCH Aachen University e la Chalmers University, promuove la collaborazione e il networking tra le istituzioni, permettendo ai ricercatori di affrontare insieme le sfide più complesse a livello europeo e globale.
Stefano Silvestrini, ci racconterà del suo affascinante viaggio nella ricerca spaziale, in particolare parlerà delle sfide legate alle operazioni di guida autonoma, di navigazione e controllo (GNC) dei veicoli attraverso le sue esperienze e le scoperte fatte durante il suo periodo di ricerca.
Raccontaci il tuo percorso di studi e come sei arrivato a intraprendere questo tipo di ricerca.
Ho conseguito la laurea triennale in Ingegneria Aerospaziale a Padova, dove fin da subito ho scoperto la mia predisposizione per lo spazio. I miei studi mi hanno portato alla Boston University, dove ho seguito un corso di meccanica orbitale guidato dalla mia passione per l’ingegneria, ma anche per la matematica dura. Così ho proseguito, dopo la laurea, con un periodo a Delft per la magistrale in Space Engineering, dove, dopo il primo anno in cui si seguono i corsi teorici, il secondo anno prevede il tirocinio in azienda.
In quel momento ho capito che la ricerca era la mia vera vocazione, in quanto il lavoro in azienda è molto diverso e ripetitivo rispetto a quello in laboratorio per cui mi sentivo più portato. Questo mi ha dato la spinta per candidarmi per il dottorato al Politecnico di Milano, dove sono stato accolto nel laboratorio Astra della Prof.ssa Michele Lavagna.
Come è stato il tuo dottorato al Politecnico?
Ho potuto proseguire la ricerca nel filone di mio interesse che è la parte di guida, navigazione e controllo dei satelliti nello spazio. All’epoca la ricerca in questo campo era ai suoi albori, si iniziava a parlare di intelligenza artificiale e si operava un po’ per tentativi cercando di capire cosa poteva essere fatto con gli algoritmi classici e come potevano aumentare la loro efficacia tramite le tecniche di apprendimento. E’ stato davvero stimolante sentirmi parte attiva in un momento così importante di cambiamento.

Hai partecipato al Bando IDEA League Fellowship 2024-2025 e sei risultato vincitore. Come mai sei tornato a Delft? Come è stata questa nuova esperienza?
Esatto, sono tornato a Delft perché, tra le cinque università partner di IDEA League, quella di Delft è la più affine ai miei studi. Durante il periodo di ricerca di tre mesi presso la TU Delft, mi sono concentrato su metodi all’avanguardia di deep learning applicati alla guida, navigazione e controllo di veicoli spaziali, in particolare per manovre di volo e di prossimità coordinate.
Ho avuto l’opportunità di vivere l’esperienza di ricerca presso il Laboratorio di Meccanica Orbitale del GNC, un ambiente molto ben attrezzato con robot avanzati, che hanno contribuito notevolmente al mio lavoro. Ho potuto sviluppare e affinare algoritmi di navigazione basati sulla visione, che ho testato direttamente.
Il tesoro più prezioso di questa esperienza è rappresentato dalla rete di contatti che ho creato con persone che studiano tematiche affini. La loro diversa provenienza ha portato a modalità di approccio molto differenti, e spesso è proprio da questa diversità che nascono idee originali e vincenti. Mi ritengo molto soddisfatto, poiché l’esperienza mi ha arricchito sia professionalmente che personalmente.
Parliamo del tuo progetto. Qual è la sfida principale delle operazioni autonome di GNC per veicoli spaziali?
La sfida principale consiste nel garantire l’autonomia dei veicoli spaziali, poiché non sempre è possibile comunicare con essi; pertanto, devono essere in grado di prendere decisioni in tempo reale. A questo si aggiunge anche una certa latenza tra l’invio del segnale e l’esecuzione dello stesso da parte del veicolo. Nel caso, quindi, di operazioni un po’ più complesse, come l’avvicinamento a un asteroide o a un altro satellite, oppure l’atterraggio in un’area, magari sul lato oscuro della Luna, dove le possibilità di comunicazione sono limitate, l’autonomia diventa cruciale, soprattutto in situazioni di prossimità in cui operare dalla Terra risulta già troppo tardi.
Recentemente, all’interno del Laboratorio Astra, sono stato coinvolto nel lancio di sei piccoli satelliti, delle dimensioni di una scatola di scarpe, il cui funzionamento richiede un notevole impegno in termini di tempo e risorse da parte della Terra, dato il numero di persone coinvolte nell’operazione e nell’invio di istruzioni ai satelliti su cosa fare in ogni momento. Esiste, quindi, una grande sproporzione tra il costo irrisorio di costruzione dei sei satelliti, se confrontato con il numero di persone impiegate per periodi di tempo anche abbastanza lunghi.

Ci sono delle nuove tendenze in questo tipo di ricerca?
Direi proprio di sì. Il nuovo paradigma che si sta sviluppando di recente è quello di non investire più in missioni gigantesche con la costruzione di monoliti da miliardi di euro, ma di riuscire ad arrivare agli stessi obiettivi di missione lanciando più satelliti di dimensioni ridotte che cooperano tra loro.
I vantaggi sono molteplici: da un lato, il lavoro si semplifica perché le piattaforme sono più piccole e più standardizzate; dall’altro, le operazioni sono più robuste, in quanto, se ne perdo una, la missione non è compromessa, poiché le altre possono riconfigurarsi o, addirittura, è possibile inviarne una aggiuntiva dalla Terra.
D’altro canto, però, la coordinazione tra i satelliti è estremamente complessa dal punto di vista ingegneristico, perché devono autonomamente scambiarsi i dati, capire dove sono posizionati l’uno rispetto all’altro e comprendere ciascuno cosa deve fare in relazione agli altri.
Lo sviluppo del volo coordinato è ancora in fase prototipale, ma il loro progresso potrebbe portare a missioni molto meno costose, poiché, una volta che i satelliti sono autonomi, è possibile osservare ciò che accade e scaricare i dati senza dover fornire indicazioni operative al satellite.
Come possono le tecniche di deep learning migliorare l’autonomia dei veicoli spaziali?
Il deep learning permette agli algoritmi di generalizzare anche in situazioni non previste, per cui non sono stati esplicitamente progettati, migliorando così la navigazione e il controllo. Questi algoritmi possono apprendere dall’ambiente circostante in tempo reale, rendendo il veicolo più robusto e reattivo alle variazioni ambientali.
I rami da investigare sono molti; io, in particolare, mi focalizzo di più sul fatto che le leggi di controllo si basano su una conoscenza dell’ambiente in cui il veicolo sta volando. Queste conoscenze ambientali sono tipicamente approssimazioni matematiche, che devono essere tanto più semplificate quanto minore è la capacità computazionale disponibile.
Ci sono macroaree di tecniche di apprendimento, quelle cosiddette “on-line”, che permettono al satellite di rifinire la sua conoscenza dell’ambiente mentre vola. Pertanto, non è necessario sviluppare formule analitiche che considerano tutte le perturbazioni e tutti i termini non modellati di cui siamo incerti. Il satellite vola e, autonomamente, riesce a registrare e a comprendere lo scenario in cui si trova.
Più conosce lo scenario, maggiore è la sua accuratezza e robustezza, e più efficace sarà nella decisione riguardo al tipo di azione di controllo da effettuare. In questo modo, si adatta all’ambiente in cui sta volando in quel momento.

L’intelligenza biologica, in particolare quella del cervello umano, ha ispirato profondamente lo sviluppo di modelli di navigazione e controllo nell’ambito dell’intelligenza artificiale (AI). Ma quali sono esattamente gli aspetti del cervello che sono stati considerati e in che modo questi hanno influenzato le tecnologie moderne?
In primo luogo, c’è un filone di ricerca che sostiene che le tecniche di intelligenza artificiale dovrebbero cercare di imitare il funzionamento del cervello. Questo approccio si basa sull’idea che se riusciamo a comprendere come i neuroni biologici elaborano le informazioni, possiamo progettare modelli artificiali più efficaci. I neuroni artificiali, infatti, sono elementi fondamentali delle reti neurali, che sono alla base di molte applicazioni di AI.
Tuttavia, esiste un dibattito su come questi neuroni artificiali dovrebbero essere progettati. Alcuni ricercatori sostengono che dovrebbero imitare esattamente il comportamento dei neuroni reali, compresa la loro dinamica interna e il modo in cui generano impulsi elettrici, chiamati “spike“. Questo approccio, sebbene ambizioso, presenta delle sfide. Più si cerca di rendere i modelli matematici complessi e simili ai neuroni biologici, più ci si allontana dall’efficacia pratica. In altre parole, la complessità aggiuntiva non sempre porta a risultati migliori nell’implementazione pratica dell’AI.
Un’alternativa interessante è rappresentata dalle architetture neuromorfiche. Questi modelli cercano di trovare un equilibrio: non tentano di replicare ogni dettaglio del funzionamento neuronale, ma nemmeno si riducono a semplici funzioni matematiche. L’obiettivo è di modellare il neurone in modo più semplificato, ma comunque efficace, cercando di mantenere le caratteristiche fondamentali delle interazioni neuronali.
Questi modelli neuromorfici hanno rivelato di avere un potenziale notevole. Sebbene gli algoritmi sviluppati in questo modo non siano ancora all’avanguardia come quelli basati su reti neurali più classiche, presentano il vantaggio di richiedere meno energia e risorse computazionali. In altre parole, funzionano in modo più efficiente, il che è un aspetto cruciale per lo sviluppo di sistemi di AI sostenibili e scalabili.
In sintesi, l’ispirazione biologica nel campo dell’intelligenza artificiale è un tema affascinante e complesso. Mentre le reti neurali artificiali cercano di emulare la connettività del cervello, le architetture neuromorfiche cercano di semplificare il modello mantenendo la funzionalità chiave. Questo approccio rappresenta una direzione promettente per il futuro dell’AI, contribuendo a sviluppare sistemi che sono non solo più performanti, ma anche più efficienti dal punto di vista energetico.
Come si integrano i modelli basati sulla fisica nel controllo predittivo e perché sono importanti per gestire situazioni impreviste?
Ci sono due modi per farlo. Il primo si basa solo sui dati: il computer analizza tantissime informazioni e cerca di capire come rispondere a varie situazioni. Tuttavia, questo metodo non considera le leggi fisiche che governano il mondo, come la gravità.
Il secondo metodo, invece, utilizza modelli fisici. Questo significa che, oltre ai dati, il computer sa che ci sono leggi della fisica, come quelle di Newton, che influenzano il comportamento del sistema. Quindi, quando il computer fa previsioni, tiene conto non solo dei dati ma anche di queste leggi fisiche.
Tuttavia, ci sono sempre fattori imprevedibili che non possiamo modellare perfettamente. Per affrontare queste situazioni, il computer impara a integrare le leggi fisiche con informazioni aggiuntive che possono aiutarlo a migliorare le sue previsioni, anche se queste informazioni non sono complete. Così, il sistema rimane ancorato alle leggi fisiche, ma diventa anche più flessibile e capace di adattarsi a eventi imprevisti.

In che modo il laboratorio riesce a simulare le condizioni spaziali e quali sfide affrontate nella creazione di modelli per testare algoritmi destinati a operare in orbita?
Nel laboratorio, ci impegniamo a replicare le condizioni che gli strumenti e i robot incontreranno nello spazio, ma è importante sottolineare che la simulazione non può mai essere perfetta. Ad esempio, mentre possiamo controllare l’illuminazione e ridurre l’attrito utilizzando tavoli a basso attrito, non possiamo eliminare completamente la gravità terrestre, che influisce sul movimento dei nostri dispositivi. Questo significa che, se dotassimo un robot degli stessi motori usati in orbita e tentassimo di attivarli qui, non si muoverebbe come dovrebbe fare in un moto di caduta libera, come nel contesto orbitale.
Per affrontare queste limitazioni, creiamo modelli che cercano di avvicinarsi il più possibile alla realtà, testando gli algoritmi in scenari diversi e simulando condizioni variabili. Utilizziamo immagini reali prese da sonde spaziali per verificare come i nostri algoritmi risponderebbero a immagini della Luna, ad esempio, in modo da assicurarci che funzionino non solo nel nostro laboratorio ma anche nello spazio. Sebbene non possiamo garantire risultati certi, lavoriamo per estrarre caratteristiche dagli algoritmi che ci diano una ragionevole sicurezza sul loro funzionamento in orbita. Questo processo di ingegnerizzazione e sperimentazione è una parte fondamentale e affascinante del nostro lavoro.
A che punto è attualmente il tuo progetto?
Siamo in una fase di ricerca e sviluppo molto attiva, soprattutto per quanto riguarda l’autonomia dei satelliti e le missioni lunari. C’è un crescente interesse da parte delle agenzie spaziali e delle aziende private, che stanno esplorando la commercializzazione di servizi legati ai satelliti autonomi. L’obiettivo finale è quello di avere veicoli in grado di atterrare autonomamente sulla Luna e gestire i satelliti in orbita, sia riparando quelli malfunzionanti sia rifornendoli di propellente per prolungarne la vita. Tuttavia, ci vorranno ancora diversi anni di ricerca e sviluppo prima di raggiungere questo traguardo.

Quali sono le sfide principali che ci impediscono di raggiungere una piena autonomia nei veicoli spaziali?
Una delle principali sfide è la fiducia negli algoritmi di intelligenza artificiale utilizzati per il controllo autonomo. Molti utenti e professionisti si sentono insicuri riguardo all’affidabilità di algoritmi che apprendono autonomamente dai dati. Per affrontare questo problema, si sta lavorando su metodi di intelligenza artificiale “explainable“, che permettano di comprendere come e perché un algoritmo prende determinate decisioni. Questo approccio mira a fornire trasparenza e certificazione, affinché gli utenti possano fidarsi delle azioni intraprese dai veicoli autonomi. Tuttavia, c’è un dibattito tra gli esperti: alcuni sostengono che limitare gli algoritmi per renderli comprensibili potrebbe ridurre il loro potenziale. Pertanto, la ricerca continua a cercare un equilibrio tra autonomia e comprensibilità, mentre ci avviciniamo a un futuro in cui i veicoli spaziali potranno operare in modo sempre più autonomo.
Ci sono applicazioni pratiche di questa ricerca che non riguardano lo spazio?
Assolutamente sì! Anche se gran parte della nostra ricerca è concentrata sull’esplorazione spaziale, molte delle tecnologie e delle tecniche sviluppate qui all’università trovano applicazione anche in altri ambiti.
Ad esempio, nel mondo della robotica e della guida autonoma, stiamo vedendo un’evoluzione rapida. Mentre le sfide legate all’ambiente spaziale sono complesse e richiedono soluzioni innovative per affrontare condizioni estreme, la comunità della robotica terrestre sta avanzando a un ritmo sostenuto. Questo perché testare robot e veicoli autonomi sulla Terra è generalmente più semplice: è più facile montare una telecamera su un’auto e farla girare in un ambiente urbano piuttosto che inviare un rover su un pianeta lontano.
In sostanza, sebbene le sfide siano diverse, le tecniche sviluppate per la ricerca spaziale possono essere adattate e utilizzate in molte altre aree, contribuendo a migliorare la tecnologia che utilizziamo ogni giorno.

Cosa ti appassiona di più nella tua attività di ricerca?
Mi piace davvero tanto il mio lavoro e, per rispondere alla tua domanda, sono particolarmente affascinato dallo spazio! Ma non mi limito solo a quello: sono molto interessato anche ad altre applicazioni della mia ricerca. Infatti, mi dedico anche all’esplorazione di metodi e algoritmi che possono essere utilizzati in diversi contesti.
Una delle mie ambizioni è quella di migliorare i sistemi di navigazione. Attualmente, lavoriamo con moduli distinti di guida, navigazione e controllo. Tuttavia, se guardiamo più da vicino, ci rendiamo conto che non tutto è così chiaramente separato, specialmente nel campo dell’informatica. Il nostro cervello, infatti, adotta un approccio piuttosto olistico: anche se ci sono aree predisposte per specifici compiti, il modo in cui elaboriamo le informazioni è molto integrato.
Nel mio futuro, vorrei esplorare ulteriormente come comprendiamo la nostra posizione e come decidiamo dove vogliamo andare. Spesso, mentre camminiamo, non pensiamo attivamente alle distanze: non ci preoccupiamo di quanti centimetri ci separano dagli oggetti intorno a noi. Questa “navigazione inconscia” sembra rendere il processo più efficiente, eppure non siamo ancora in grado di replicarlocompletamente nelle macchine. È un obiettivo ambizioso, ma mi piacerebbe scoprire se possiamo integrare elementi della neuroscienza e dell’informatica per avvicinare le macchine al modo in cui pensano e agiscono gli esseri umani.
Mi appassiona vedere come la teoria si traduce in pratica. Ogni volta che un algoritmo funziona come previsto, è una soddisfazione enorme. Inoltre, l’idea di contribuire a un futuro in cui i veicoli spaziali saranno sempre più autonomi è motivante.