Quella della frattura di femore è un’esperienza familiare nella nostra percezione quotidiana, all’interno di una società la cui età media sale sempre più. Il suo trattamento chirurgico è una delle pratiche mediche più diffuse in Italia, e come tale solleva alcuni interrogativi in tema di sostenibilità.

Abbiamo mai riflettuto su quale sia l’impatto ambientale e sociale di un’operazione chirurgica? L’ha fatto il gruppo di ricerca di PRESTO, progetto Polisocial frutto del lavoro multidisciplinare congiunto di tre dipartimenti del Politecnico di Milano: Gestionale; Meccanica; Elettronica, Informazione e Bioingegneria.
Il progetto ha in un primo momento misurato l’entità dell’impatto ambientale e sociale di queste fratture, sviluppando successivamente delle soluzioni tecnologiche innovative per prevenire e migliorare il trattamento delle fratture di femore in persone con fragilità ossea, come quelle affette da osteoporosi.
Ho incontrato ricercatrici dai vari gruppi di lavoro che hanno preso parte al progetto, che mi hanno raccontato come hanno raggiunto i loro ottimi risultati e i benefici concreti che questa ricerca porterà, sia per la salute dei pazienti che per la sostenibilità dei sistemi sanitari nel lungo periodo.
Il gruppo di Ingegneria Gestionale
Il mio viaggio inizia con le ricercatrici del gruppo di ingegneria gestionale PLA.NET, focalizzato sulla progettazione di supply chain più sostenibili, con cui ci ritroviamo online.
Il gruppo di lavoro ha misurato l’entità dell’impatto ambientale e sociale associato alle fratture ossee oggetto dello studio.
Solitamente parlo con un singolo rappresentante del team di ricerca, ma questa volta hanno risposto tutte e quattro all’appello. E l’impressione è proprio quella di un gruppo coeso e affiatato.
È la professoressa Margherita Pero a coordinare il team, di cui fanno parte la docente Federica Ciccullo e le dottorande Francesca Bianchi e Eleonora Catellani.

Professoressa Pero, come è arrivata l’idea da cui è nato il vostro progetto di ricerca?
Il nostro gruppo di ricerca si occupa di studi sulla supply chain, ovvero della progettazione, pianificazione e gestione delle catene di distribuzione. Abbiamo expertise in termini di misura di impatto, di sostenibilità delle filiere.
È stata la prima volta che affrontavamo il contesto medico, perché di fatto noi lavoriamo su settori che sono anche molto diversi, ma comunque sempre con un approccio orientato alla misura.
In questo caso i siamo fatte la domanda: in un paese come il nostro, qual è l’impatto ambientale e sociale che attualmente ha la prevenzione e la cura delle fratture ossee? E cosa possiamo fare, sia sul lato della prevenzione, che su quello delle cure, per ridurre questo duplice impatto?
Da dove siete partite in questa analisi?
Siamo partite dalla letteratura, dove abbastanza prevedibilmente abbiamo avuto conferma che il settore healthcare ha un impatto negativo sull’ambiente.
È un settore altamente inquinante perché produce molti rifiuti che chiaramente devono essere trattati in uno specifico modo, tipicamente bruciati. Inoltre è un settore che consuma molta energia per far funzionare tutti i macchinari e i sistemi che utilizziamo. E spesso questa energia viene prodotta con combustibili fossili.
Sempre in letteratura, abbiamo verificato che la cura della frattura del femore è, nel settore ortopedico, una delle più impattanti soprattutto in sala operatoria.
Per quanto riguarda invece l’impatto sociale?
Ci siamo chieste quale fosse il costo pagato dai pazienti e dalla comunità, sia a livello di intervento, che è il lato più visibile, sia quello del post-intervento, che è l’aspetto meno studiato.
Di che numeri stiamo parlando, dottoressa Bianchi?
Nel 2017 si sono verificate 560.000 fratture da fragilità in Italia, e l’incidenza annuale è destinata ad aumentare fino a 690.000 entro il 2030.
Nonostante le fratture del femore rappresentino 1/5 delle fratture totali, si stima che abbiano un’incidenza del 59% sui costi totali associati alle fratture.
Nel 2017 l’onere economico associato alle fratture è stato di circa 9,4 miliardi di euro, destinato a crescere fino a 11,9 miliardi nel 2030.
Sono numeri impressionanti, e il vostro progetto vuole incidere su questi numeri seguendo varie linee di azione. Partiamo dall’impatto ambientale, dottoressa Catellani?
Come dicevamo, mentre studi sull’impatto economico erano già stati fatti, l’impatto ambientale e sociale rimaneva un po’ meno investigato e quindi ci siamo concentrati su questa parte.
La letteratura già fotografava come il settore della sanità sia molto impattante, sia in termini di rifiuti, dove è diffusissimo l’utilizzo del monouso, sia di consumo energetico, per via dei macchinari energivori delle sale operatorie.
Inoltre, è un ambito dove è difficile riciclare, perché lo smaltimento dei rifiuti medicali è rigorosamente normato.
Partendo da questo stato delle cose, come vi siete mosse?
Quello che abbiamo fatto è stato cominciare con delle interviste, sia agli operatori, quindi ai medici chirurghi, sia al direttore scientifico dell’Ospedale Galeazzi.
Abbiamo svolto una mappatura del processo in cui abbiamo distinto varie fasi nell’intero percorso del paziente, dal pronto soccorso alla riabilitazione. Tutto questo per identificare le fonti di impatto ambientale, tra energia, materiali, consumo di acqua, eccetera.
Dalle interviste, poi validate, abbiamo capito che aveva senso concentrarsi sull’intervento chirurgico, perché era quello in termini percentuali più impattante.

Il vostro lavoro non si è limitato alle interviste, ma si è svolto anche sul campo, vero?
Sì, siamo andate proprio a vedere alcuni interventi, per capire principalmente da dove si generassero i rifiuti. E abbiamo capito che sono suddivisi in tre categorie: i taglienti, le carte e plastiche, i rifiuti sanitari.
Abbiamo poi cercato di quantificare questi rifiuti: da un lato abbiamo i dati sul consumo di acqua ed energia, che abbiamo preso validando la letteratura, mentre in ospedale ci siamo concentrate sui materiali, pesando i rifiuti che uscivano dalla sala operatoria quando veniva operato un femore.
Quali sono stati i risultati di queste misure?
È emerso che per un intervento di un’ora servono circa 40 kW/h per alimentare la sala operatoria e viene prodotta una media di 6 kg di rifiuti sanitari con smaltimento obbligato in inceneritore.
Dottoressa Bianchi, passiamo alla fase della rilevazione dell’impatto sociale?
L’impatto sociale è quello rilevabile principalmente nella fase post-operatoria, dal momento in cui c’è la dimissione ospedaliera, in cui il paziente si trova a vivere una nuova quotidianità. Nella letteratura non è particolarmente trattato questo aspetto, soprattutto in relazione alle fratture femorali.
L’impatto effettivamente esiste, e riguarda le relazioni sociali, l’autonomia del paziente nella vita quotidiana: fare la spesa, cucinare, pulire o anche banalmente vestirsi. E poi la possibilità di uscire autonomamente, incontrare amici, familiari, fare una semplice passeggiata.
Come avete fatto a “quantificarlo”?
Abbiamo prima di tutto identificato quali fossero gli stakeholder impattati: non solo il paziente stesso, ma anche i caregiver che lo circondano, che possono essere professionali o far già parte della famiglia o della comunità del paziente.
Abbiamo quindi identificato gli indicatori e cercato di quantificarli sia in termini quantitativi che qualitativi tramite un metodo che ha previsto sia interviste che questionari, rivolti a pazienti e familiari.
Il questionario chiedeva proprio quante ore venissero dedicate al paziente settimanalmente, e di valutare su una scala qualitativa quale fosse la diminuzione della sua autonomia.
Sono poi state svolte ulteriori interviste al personale sanitario delle RSA e ai fisioterapisti a domicilio, che vivono la quotidianità insieme ai pazienti. Per questa attività abbiamo avuto il prezioso coinvolgimento di Cittandinanzattiva, un’associazione di pazienti.
Quali dati sono emersi?
Abbiamo scoperto che la frattura ha limitato in maniera significativa le attività quotidiane della grande maggioranza dei pazienti, e in buona parte anche quelle sociali. Le ore dedicate alla cura della maggioranza dei pazienti da parte dei caregiver raggiunge o supera l’equivalente di tre giorni alla settimana. La spesa totale affrontata per l’assistenza degli operati al femore supera nella maggior parte dei casi i 1.000 euro.
Dal punto di vista dell’autonomia, i pazienti raccontano le difficoltà nel dover dipendere interamente dai propri cari in seguito alla dimissione ospedaliera e le limitazioni nelle attività del quotidiano. I fisioterapisti a domicilio hanno fatto emergere l’elemento psicologico dei segni della disabilità: il bastone o la sedia a rotelle in qualche modo inibiscono l’anziano a uscire fuori perché non vuole mostrarsi debole.
Professoressa Ciccullo, come avete elaborato le strategie di mitigazione dell’impatto?
Partendo dalle informazioni ricavate dalle interviste, abbiamo suddiviso le possibili soluzioni in tre macro-fasi del processo: pre-frattura, frattura e post-frattura. Noi ci siamo concentrate sulle fasi pre e post.
Per il pre-frattura ci sono state indicate diverse strategie per riconoscere i fattori di rischio per i diversi pazienti. Il principale fattore di rischio è proprio rappresentato dall’osteoporosi. Ma ci sono anche fattori di natura più comportamentale, come per esempio il fatto che il paziente sia particolarmente sedentario, che conduca uno stile di vita che in qualche modo favorisce poi l’esposizione a una frattura.
Abbiamo poi identificato anche strategie per ridurre l’esposizione al rischio di caduta nell’ambiente domestico.
C’è anche il discorso legato alla diagnostica, per agire sull’identificazione tempestiva della particolare esposizione del paziente ad alcuni fattori di rischio.

Per la fase post-operatoria, invece?
Ci sono state segnalate delle possibili strategie per velocizzare la cura e il decorso post-operatorio. Una di queste è proprio la tecnologia basata su micro-costrutti che viene sviluppata all’interno del progetto.
Un tema importante su cui ci hanno chiesto di indagare è quello degli extra costi in cui che le famiglie devono incorrere perché le RSA non dispongono di attrezzature dedicate per la diagnosi per immagini e quindi devono trasferire il paziente in ospedale con costi a carico del paziente stesso.
Poi ci sono i costi delle prescrizioni degli ausili necessari a deambulare, che non sempre sono coperti dal sistema sanitario nazionale.
Per quanto riguarda la gestione dei rifiuti, di cui parlavamo prima?
Parlando ancora con il personale sanitario, abbiamo cercato di identificare alcune strategie che potrebbero aiutare a ridurre la produzione di rifiuti in sala operatoria.
Si può lavorare sulla riduzione del packaging attualmente molto abbondante. Inoltre, si può rivalutare la sterilizzazione e il riuso di taglienti rispetto all’attuale massivo utilizzo di strumentazione monouso.
Un’altra strategia è quella dell’introduzione del riciclo, visto che attualmente in sala operatoria non viene realizzata la raccolta differenziata.
Avete ricevuto dimostrazioni di interesse da parte delle strutture sanitarie al vostro modello?
Al momento l’Ospedale Galeazzi grazie alla cui collaborazione abbiamo realizzato lo studio, di è dimostrato interessato a continuare il lavoro di analisi dell’impatto ambientale delle sale operatorie.
Quindi stiamo cercando di andare avanti con l’attività, proponendo anche una tesi di laurea finalizzata a supportarci nella raccolta dati. È necessaria ora un’analisi più di dettaglio dei rifiuti generati e delle pratiche che generano questi rifiuti, per capire come fare ad affrontarli.
Il gruppo di Meccanica
Qualche giorno dopo arrivo al Campus di Bovisa, dove ha sede il Dipartimento di Meccanica. Qui incontro Federica Buccino, la ricercatrice che assieme alla professoressa Laura Vergani ha approfondito la parte sulle strutture paziente-specifiche per affrontare le fratture da fragilità.
Dopo una laurea in ingegneria biomedica e una magistrale in biomeccanica, è entrata in Alta Scuola Politecnica, dove si è appassionata alla tematica delle ossa e ha conosciuto Laura Vergani.

Come è nata la vostra collaborazione?
La professoressa Vergani aveva lavorato in passato su campioni bovini e collaborava con un gruppo di ricerca dell’ETH di Zurigo.
Unendo le sue conoscenze di meccanica della frattura con il mio interesse nel campo biomeccanico, è emersa l’idea di capire l’origine delle fratture ossee. Ho svolto un periodo di ricerca all’ETH, dove ho approfondito le mie conoscenze sui fenomeni di danneggiamento alle piccole scale.
È cominciata così l’idea del mio dottorato di ricerca con la docente: volevamo trovare il modo di implementare un approccio predittivo per la gestione delle fratture.
L’inizio non è stato facile, vero?
Il mio dottorato inizia proprio in concomitanza con il Covid-19. E così mi sono ritrovata a rimanere a Milano. Il comitato etico era ancora in fase di stesura, quindi, con una serie di tesisti entusiasti, abbiamo iniziato a costruire un setup di prova compatibile con tecniche di imaging ad altissima risoluzione, come il sincrotrone. In attesa dei campioni ossei, abbiamo iniziato a testare il setup sui gusci delle noci.
Il Covid, però, ha permesso anche di fare delle scoperte interessanti al nostro team di ricerca. Abbiamo verificato che campioni ossei considerati come sani che avevano però contratto il covid entro un anno dalla frattura, avevano caratteristiche micro-morfologiche simili ai pazienti osteoporotici.
Il percorso è poi continuato con successo, e oggi ti ha portata al posto di ricercatrice al Dipartimento di Meccanica.
La mia principale attività di ricerca si focalizza sui meccanismi di danneggiamento nei materiali biologici e la progettazione di nuovi materiali bioispirati grazie all’intelligenza artificiale e ad altre tecniche innovative.
In pratica, studio la natura come fonte di progettazione di nuovi materiali: compositi, metamateriali, con caratteristiche migliorate grazie all’approfondimento dei meccanismi di tenacizzazione presenti in materiali naturali come l’osso.
Come vedi, Polisocial non è stato un bando a cui abbiamo partecipato per caso, ma è riflesso del mio background e di progetti ben allineati in merito.
Per quanto riguarda PRESTO, qual è il ruolo della meccanica nella riduzione dell’impatto degli interventi chirurgici?
Abbiamo lavorato seguendo due linee guida principali, quella della prevenzione e quella del trattamento.
Per ridurre l’impatto eco-clinico-sociale abbiamo voluto adottare una strategia che riteniamo innovativa: mentre la clinica attualmente si concentra su macro e mesoscala, noi volevamo guardare cosa succede alle piccole scale.
Ci spieghi un po’ meglio cosa si intende?
Certo. Se la grande scala è quella dell’osso nel suo insieme, la mesoscala è quella che si focalizza sull’osso trabecolare (poroso) e corticale (più denso). Alla microscala l’osso è composto da “vuoti” chiamati lacune. In realtà non sono proprio vuoti, perché al loro interno ci sono gli osteociti, le cellule responsabili del rimodellamento osseo.
Qual è stata la vostra intuizione?
L’osservazione clinica attualmente in uso si concentra su macro e mesoscala. Tecniche come raggi X e densitometria ossea DEXA consentono di investigare cosa succede all’osso fino alla sua mesoscala. Si osserva che, in presenza di patologie ossee o a causa dell’invecchiamento, l’osso diventa più porotico e si infragilisce. Ma in questo modo, si riesce a individuare solo il 70% delle fratture. Nel 30% dei casi, la frattura non viene individuata e dopo tempo il paziente si troverà in ospedale con una frattura molto più critica. Questo è problematico soprattutto nei pazienti anziani, in cui una frattura può portare all’allettamento e alla perdita della mobilità ed autonomia.
L’idea alla base del nostro contributo a PRESTO nasce per risolvere questa criticità. Abbiamo deciso di guardare alla piccola scala e fare deduzioni cliniche sulla stessa, per cercare di comprendere la presenza di fratture già alla microscala e coprire quel 30% di “incognita” clinica.

Cosa avete capito esaminando le ossa alla piccolissima scala?
Ci siamo accorte che queste piccolissime porosità ellissoidali, le lacune, connesse tra loro tramite canalicoli, cambiano forma e densità in presenza di patologie ossee, rispecchiando diversi modi di propagazione della frattura.
Nei soggetti anziani, le lacune diventano più sferiche. In questo modo, la frattura ossea non viene più deviata da queste lacune, ma velocizza il suo iter di propagazione.
Si tratta di un meccanismo interessantissimo, sul quale ci siamo interrogate per capire se da un’osservazione di questo tipo si potessero ricavare delle informazioni utili alla pratica clinica.
E su quale tecnica di imaging vi siete concentrate?
Tra quelle attualmente in uso, l’unica tecnica clinica in grado di osservare la lacune oggi è l’istologia. E ci siamo dette: perché non aumentare l’istologia che lavora su due dimensioni con la risoluzione 3D del sincrotone?
È qui che è entrato nel processo il gruppo di bioingegneria per processare la quantità enorme di dati, un terabyte, che costituisce l’immagine fornita dal sincrotone per un singolo campione osseo.
Che cos’è il sincrotone, per i non addetti ai lavori?
Il sincrotrone è un tipo di acceleratore di particelle in cui gli elettroni vengono accelerati a velocità prossime a quella della luce lungo un anello chiuso, chiamato anello di sincrotrone. Durante il loro percorso, i campi magnetici curvano la traiettoria degli elettroni, che, a causa di questa deviazione, emettono radiazione elettromagnetica ad alta intensità, nota come radiazione di sincrotrone.
Questa radiazione copre un ampio spettro di lunghezze d’onda (dai raggi X fino all’infrarosso) ed è estremamente collimata e brillante, rendendola uno strumento molto potente per l’imaging e l’analisi di materiali e strutture molecolari con altissima risoluzione spaziale e sensibilità.
Arriviamo al secondo filone del vostro approccio…
Dopo aver affrontato il ruolo della prevenzione, ci siamo rivolti al trattamento. E quando non si può fare altro che trattare, ovvero in presenza di difetti ossei estesi, la nostra attenzione è andata alla progettazione di nuovi supporti, detti scaffold, per rigenerare fratture già critiche.
Uno scaffold è una struttura tridimensionale, “un’impalcatura biologica” utilizzata per supportare la crescita e la rigenerazione di tessuti o organi.
Se l’osso sano funziona come un sistema di pori interconnessi, perché non sfruttare la stessa informazione sulla porosità adeguata che abbiamo ricavato dallo studio della microscala, per realizzare degli scaffold con una porosità ottimale?
Grazie alle immagini 3D di Elettra-Sincrotone di Trieste siamo stati in grado di stampare scaffold in materiale biocompatibile da inserire nel corpo umano, con la stessa porosità della mesoscala, ma anche con porosità micro, comprese lacune e canalicoli. Un’idea grazie alla quale abbiamo realizzato questi microcostrutti che stiamo cellularizzando in vitro.

Come sta andando lo sviluppo?
Abbiamo visto da alcune prove preliminari che le cellule ossee sono particolarmente invogliate a penetrare in questa architettura, perché molto simile a quella naturale.
Estrapolando i dati fondamentali, siamo stati in grado di progettare un costrutto alla multiscala, il cui design funziona nettamente meglio dei costrutti abitualmente utilizzati, spesso caratterizzati da limitata penetrazione e differenziamento cellulare.
Quali sono le conseguenze dei due approcci sull’impatto?
Il nostro obiettivo è, tramite la diagnosi precoce e il trattamento personalizzato, quello di minimizzare il trattamento chirurgico esteso, ovvero la protesizzazione dell’anca, evitando la grande criticità dell’intervento e del suo impatto ecologico.
Anche a livello di impatto ambientale, voglio sottolineare che noi utilizziamo materiali totalmente biodegradabili. Ad esempio, abbiamo anche lavorato anche con la fibroina della seta, che rientra in un’economia circolare.
È proprio la fabbricazione digitale che ci consente di minimizzare lo spreco: siamo in grado di posizionare nello spazio tridimensionale il materiale sostenibile esattamente dove previsto dal design patient-specific.
Riassumendo in tre punti la nostra ottica di minimizzazione dello spreco: design digitale e processing AI; digital fabrication con stampa 3D e controllo nell’uso di materiale e forma; materiali biodegradabili provenienti da scarto biologico.
È stato un vantaggio riunire un gruppo così multidisciplinare?
La proposta del gruppo PRESTO è nata in risposta al bando Polisocial 2022, che aveva come tema “Sviluppo Locale e Transizione Ecologica”. Lo spirito dei bandi Polisocial è proprio quello di riunire competenze da più dipartimenti del Politecnico per fare ricerca di utilità sociale.
Il Polisocial è stato il seed fund che ha dato il via ad attività congiunte, sia da punto di vista di bandi, sia da punto di vista di borse di dottorato.
Mi sento di dire che la collaborazione è stata un successo, una compenetrazione di conoscenze fondamentale per dare vita al progetto. Abbiamo unito esperienze e competenze di tre diversi gruppi di ricerca che lavorano da anni su tematiche compatibili, ma senza che avessero mai lavorato insieme su un progetto di questo calibro.
Molto interessanti sono anche le partecipazioni a conferenze che vedono coinvolti i diversi gruppi di ricerca.

Una volta terminato il progetto, come sta continuando la vostra attività?
Il progetto è ufficialmente terminato, ma l’evento di chiusura di PRESTO è stato un nuovo inizio. L’attività di tutto il team sta continuando in termini di ricerca e di progettualità per partecipare a nuovi bandi.
Sta andando avanti il nostro lavoro di misura del rifiuto biologico con gli ingegneri gestionali, per poi pensare successivamente a una strategia per pianificare la minimizzazione dello scarto. Sulle linee guida stiamo ancora lavorando con l’Ospedale Galeazzi.
Continuare la collaborazione con i partner è per voi fondamentale…
Oltre all’interesse scientifico dei clinici, vogliamo ampliare l’interesse sociale con la partecipazione delle RSA. Per questo stiamo aprendo nuovi dialoghi per la partecipazione di queste figure.
Siamo rimasti particolarmente sorpresi dalla grande partecipazione degli attori coinvolti, dipartimenti e ospedale. Tra l’altro, i partner collaborano senza finanziamento, e nonostante questo la partecipazione è particolarmente rilevante, perché garantisce una crescita del progetto nel futuro immediato.
Parafrasando il nome del progetto, bisogna fare PRESTO: agire immediatamente nell’affrontare questo tipo di fratture.
Il gruppo di Informatica e Bioingegneria
Eleonora D’Arnese è ingegnere biomedico. Dopo un percorso al Politecnico pieno di successi, oggi è lecturer all’Università di Edimburgo. È da lì che si collega per la nostra chiacchierata online, l’ultimo tassello dei miei incontri con le varie anime del progetto PRESTO.

Oggi sei a Edimburgo, ma il tuo percorso al Politecnico è stato fondamentale. Come si è svolto?
È al secondo anno di triennale che ho conosciuto Marco Santambrogio e il NECST Lab, laboratorio del Dipartimento di Elettronica, Informatica e Bioingegneria dove convivono tanti diversi filoni di ricerca.
In quegli anni tanti appassionati biomedici si erano ritrovati lì. Abbiamo portato quella che era la nostra conoscenza in un laboratorio con un background abbastanza diverso, e devo dire che questa ibridazione è stata positiva: negli anni sono emersi molti progetti e figure professionali inedite.
Dopo la doppia laurea magistrale a Chicago alla UIC, ho colto la sfida del dottorato in ingegneria informatica al Politecnico di Milano, ma sempre con la forte volontà di dedicarmi all’analisi delle immagini biomediche, proprio per via del loro impatto.
Il progetto PRESTO ha rappresentato il mio periodo di ricerca postdoc al Politecnico.
Come si è costituito il vostro team?
Oltre a me e Marco Santambrogio nel team c’è Isabella Poles, con cui abbiamo costruito un bel gruppo concentrato sull’imaging, aperto verso diversi tipi di collaborazioni.
Come siete entrati nel progetto PRESTO?
Partendo dal grande lavoro che stavano svolgendo le ricercatrici del Dipartimento di Meccanica.
Loro volevano sviluppare scaffold iniettabili che facilitassero la rigenerazione della frattura. Perché poi quando l’osso si rompe è difficile che successivamente si saldi bene, ed è più probabile che ci siano altre fratture. Iniettare questi scaffold attivi nella zona della frattura permetterebbe di andarla a curare meglio, riducendo le probabilità di ri-frattura.Era sorto un problema a livello dei calcoli da svolgere, che erano molto pesanti e laboriosi. Questa limitazione permetteva loro di analizzare sottocampioni di dimensioni limitate. È nata qui l’idea, nel 2022, di collaborare con il nostro team, per provare a vedere se effettivamente si potesse automatizzare più efficacemente l’analisi con l’intelligenza artificiale, e verificare inoltre se con l’intelligenza artificiale si giungesse alla stessa conclusione delle simulazioni biomeccaniche.
Qual è stato il vostro approccio?
Quello che in realtà abbiamo fatto è stato affrontare il problema da due prospettive: da una parte facilitare il lavoro dei meccanici a supporto del flusso attuale; dall’altro, provare un flusso parallelo per verificare se i risultati potessero collimare.
Come l’avete messo in pratica?
Abbiamo analizzato i meccanismi di danneggiamento osseo a livello della microscala, utilizzando immagini ad altissima risoluzione ottenute sottoponendo campioni ossei a sforzi controllati presso l’Elettra Sincrotrone Trieste.
Sono immagini gigantesche di campioni molto piccoli di teste di femore, con una risoluzione dell’ordine del micron. Le abbiamo elaborate attraverso tecniche avanzate di intelligenza artificiale per classificare e segmentare le regioni di interesse, estrarre parametri morfologici indicativi dello stato di salute dell’osso permettendo al dipartimento di meccanica di realizzare simulazioni biomeccaniche su scala maggiore in grado di prevedere il comportamento dei tessuti sotto carichi meccanici.
Quali parametri avete valutato in questi campioni?
Gli ingegneri meccanici ci hanno detto che l’adattamento agli stress è uno dei parametri di maggiore interesse per le simulazioni.
Questo parametro serve per provare a capire come effettivamente l’osso avrebbe risposto sotto sforzo.

Come avete analizzato questi campioni?
Quello che abbiamo provato a fare in prima istanza è stato cercare di segmentare le lacune, i piccoli fori nell’osso dove vivono le cellule che permettono all’osso di rigenerarsi.
Per loro era estremamente faticoso fare questa operazione manualmente, perché in una sola immagine ci sono migliaia di questi fori, e ogni campione è rappresentato da più di 2.000 immagini molto grandi: non era quindi fattibile.
Quello che abbiamo fatto è creare un modello di intelligenza artificiale che andasse a segmentare tutte queste lacune in autonomia. Inizialmente l’abbiamo fatto in modo collaborativo, perché ci sono state d’aiuto le annotazioni manuali che ci hanno fornito i meccanici per alcune immagini.
Abbiamo poi costruito un modello che fosse abbastanza accurato per loro, che pian piano siamo andati sempre più a raffinare.
Qual era il vostro obiettivo nella seconda fase?
Volevamo creare un modello che riuscisse a dirci se un pezzo di osso fosse osteoporotico o sano, senza dover passare per la simulazione meccanica, quindi direttamente, in modo completamente automatico.
È stata una sfida, in realtà, perché agli inizi sembrava che non ci fosse niente in queste immagini che ci permettesse di capirlo.
Qual è stato il punto di svolta?
Ci siamo accorti che ci eravamo posti male rispetto al problema da risolvere.
Un medico da queste immagini non è in grado di dire se il campione è sano o è malato, e quindi noi ingenuamente, credendo il contrario, eravamo convinte che il modello avrebbe dovuto identificare le differenze tra i due casi.
Abbiamo scoperto dopo che in realtà non era così, e che quindi serviva approfondire di più la nostra conoscenza rispetto alle caratteristiche di queste immagini. Considerato che dal punto di vista meccanico queste lacune sono molto importanti, abbiamo provato a dare loro rilevanza anche per il nostro modello di intelligenza artificiale.
I risultati sono stati incoraggianti?
Sì, perché ci siamo accorti che “stressando” il modello, questo iniziava a imparare a distinguere i pazienti sani da quelli osteoporotici dalle lacune.
È stato un risultato molto positivo sia dal punto di vista bioingegnieristico che dal punto di vista meccanico, perché dava sostanzialmente supporto alle simulazioni meccaniche, nell’avvalorare il fatto che fossero le lacune portatrici dell’informazione sulla presenza di osteoporosi.
A quel punto la domanda che ci siamo fatti era se fosse possibile che un intero pezzo di osso fosse completamente osteoporotico. Idealmente no, perché altrimenti una persona non sarebbe neanche in piedi. Ma noi avevamo un’unica informazione per tutto il pezzo di osso.
A quel punto come vi siete mossi?
Siamo andati a rendere un po’ più complesso il nostro modello, cercando di capire quali fossero le zone dell’osso effettivamente osteoporotiche e quelle effettivamente sane, e cercando di utilizzare solo quelle come indicatori.
Abbiamo supposto che nel campione ci fosse una compresenza con parti sane anche nel caso di osteoporosi. E quindi con il secondo modello, dove abbiamo estratto solo le zone di cui eravamo sicuri che ci fosse osteoporosi, le performance sono aumentate.
In un certo senso, potremmo dire che l’intelligenza artificiale, in questo caso, riesce a capire qualcosa che il medico, la persona umana, non riesce a capire?
Diciamo che il medico o l’esperto lavorano su un’altra scala di immagini. Per diagnosticare l’osteoporosi, loro usano i raggi X o la densitometria ossea DEXA, quindi immagini della persona a tutta scala.
Il problema è che quando l’osteoporosi arriva allo stato in cui è visibile con la DEXA o i raggi X vuol dire che è già presente, mentre noi volevamo proprio trovare metodi per una diagnosi più precoce.
Quando iniziamo a capire quali sono i parametri effettivi che hanno una correlazione con l’osteoporosi, saremmo poi in grado in futuro di diagnosticarla prima.
Qual è la sfida?
Le domande aperte sono forse più sfidanti: trovare un modo per capire come passare dalla nostra analisi alla microscala alle immagini a scala macro.
Non possiamo permetterci di prendere un campione d’osso a ogni persona per capire se sta per svilupparsi l’osteoporosi. La visione che mi piace adottare è quella di provare a capire come combinare quello che noi abbiamo imparato da questo progetto con la pratica clinica odierna.
Siamo riusciti a trovare il senso nel nostro modello, grazie ai risultati ragionevoli. Il risultato principale è appunto che abbiamo trovato una concordanza con le simulazioni meccaniche.
Un’altra grossa domanda in sospeso è: come facciamo con l’imaging presente oggi in clinica a fare prevenzione rispetto a quello che abbiamo imparato da questo progetto?
Quale altro bagaglio ti porti da questo progetto?
C’è stato un bellissimo lavoro di squadra nel nostro team, con Isabella Poles e Marco Santambrogio. Il lavoro di Isabella è stato veramente notevole e fondamentale per poter raggiungere in un anno e mezzo questi risultati, riconosciuti anche a livello di pubblicazioni.
Inoltre, il nostro modello si è rivelato non solo funzionale al lavoro che stanno facendo i meccanici in questo caso specifico, ma autonomo e applicabile in altri casi.
Ho apprezzato tanto anche la collaborazione che si è instaurata tra dipartimenti che all’apparenza possono sembrano un po’ distanti, ma che hanno lavorato benissimo insieme, creando un impatto positivo.
Continuerete a lavorare su questi temi?
Come PRESTO il progetto è ufficialmente terminato, però c’è sicuramente la volontà di provare a continuare questa fruttuosa collaborazione, di vedere dove ci porta.