Cos’hanno in comune gli agnolotti piemontesi, i tortelli mantovani, i cappelletti emiliani e i casunziei veneti? Sono tutti ripieni. Sono tutti deliziosi. E tutti possono essere gustati lungo i 700 chilometri della Ciclovia VENTO, da Torino a Venezia.
Lungo la Ciclovia VENTO si srotola non solo una pista ciclabile, ma un’Italia che si racconta a passo lento, con le ruote e con il cuore. In questa intervista a Paolo Pileri, professore del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani e responsabile scientifico del progetto, incontriamo una visione radicale e poetica del territorio: quella che intreccia ingegneria e architettura, ricerca accademica e storie quotidiane, sostenibilità e rigenerazione sociale.
Pedalare da Torino a Venezia non è solo attraversare la Pianura Padana, ma riattivare legami, economie locali, patrimoni gastronomici e umani. Una rivoluzione dolce, ma non per questo meno ambiziosa. VENTO, prima ancora che un’infrastruttura, è un’idea di futuro che ha il coraggio di rallentare.

Professore Pileri, ci racconta brevemente il suo percorso accademico e professionale?
Ho conseguito la laurea in un corso che oggi non esiste più, ma che continuo a ricordare con affetto: si chiamava Ingegneria civile per la difesa del suolo e la pianificazione territoriale. Oggi è stato ridenominato in Ingegneria per l’ambiente e il territorio, che è certamente un bellissimo nome. Tuttavia, ci tengo a sottolineare che “difesa del suolo” raccontava molto bene la missione di prendersi cura di un paesaggio e di un ambiente sempre più fragile.
Fin da giovane ho desiderato diventare ricercatore e professore, e posso dire di essere stato fortunato: oggi insegno con entusiasmo sia a Ingegneria Ambientale che ad Architettura. Due mondi apparentemente distinti, ma che in realtà devono dialogare sempre di più e sempre meglio. È proprio da questa intersezione – tra mobilità sostenibile e uso consapevole del suolo – che è nato il progetto VENTO.
Come si è evoluto il suo percorso tra insegnamento e ricerca?
Sul fronte della ricerca, ho lavorato fin da giovane in progetti internazionali, soprattutto nel Nord Europa. Attualmente, sono coinvolto in un progetto Horizon, focalizzato sulla difesa del suolo, in collaborazione con gruppi di ricerca franco-tedeschi e olandesi.
Parallelamente, mi occupo anche di mobilità lenta: in particolare, coordino un piccolo hub all’interno del progetto MOST per la mobilità sostenibile. Stiamo lavorando alla realizzazione di un manuale per la progettazione delle stazioni di ricarica per la ciclabilità elettrica turistica. Un tema attuale e cruciale, che richiede di ripensare le modalità progettuali in funzione delle esigenze degli utenti – che spesso sono persone più adulte, con bisogni specifici, tra cui la necessità di ricaricare la bici elettrica in punti strategici, considerando anche la morfologia del territorio.
Questo lavoro ci porta a ragionare con un doppio sguardo: quello ingegneristico e quello architettonico. Non vogliamo solo infrastrutture funzionali, ma anche luoghi gradevoli, pensati per offrire una pausa di qualità. Preferiamo immaginare le stazioni di ricarica in piazze, parchi o spazi pubblici, in modo che il tempo della ricarica diventi anche occasione per relazionarsi con l’ambiente, i paesi e le persone.

Come è nato il suo interesse per il rapporto tra territorio e mobilità lenta?
Guardi, le idee di ricerca nascono spesso in modi curiosi e imprevedibili. Penso sempre al racconto di un noto fisico che diceva di aver avuto l’intuizione che gli valse il Nobel mentre nuotava al largo del golfo di Marsiglia durante un anno sabbatico. È un’immagine che rende bene come certe cose maturino in modo laterale, personale e inaspettato, ma sempre su terreni di coltura ben curati: i terreni dello studio e della ricerca.
Nel mio caso, l’interesse per la mobilità lenta è nato anche da un’esperienza familiare: ho sempre amato andare in bicicletta con le mie figlie, fin da quando erano piccole. Quei viaggi insieme sono stati importanti per sviluppare una sensibilità verso i luoghi, il paesaggio, la lentezza e la fragilità delle persone, in questo caso dei bambini. Poi è stato determinante il confronto con l’estero: tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, ho vissuto periodi in paesi del Nord Europa come Finlandia, Danimarca e Svezia. Lì mi colpì l’attenzione straordinaria dedicata alla ciclabilità, al punto da complicare la vita alle auto così da facilitare l’integrazione tra bicicletta e trasporto pubblico. È stato un grande stimolo.
Che ruolo hanno giocato gli esempi europei nello sviluppo della sua visione?
Studiare all’estero ci ha permesso di capire quanto, in paesi come la Germania, la ciclabilità fosse utilizzata anche come strumento sociale. Dopo la caduta del Muro di Berlino, ad esempio, molti investimenti nella rete cicloturistica avevano l’obiettivo di ricucire le disuguaglianze tra est e ovest. Lo abbiamo scoperto intervistando funzionari del Ministero delle Infrastrutture tedesco, che ci raccontarono come le grandi ciclabili fossero progettate per stimolare il turismo da ovest verso est.
Queste riflessioni hanno fortemente influenzato anche il progetto VENTO, che immagina una ciclovia lungo il fiume Po, attraversando aree interne spesso marginali o in via di spopolamento. L’idea è quella di portare in questi territori un turismo lento, rispettoso, che generi relazioni, microeconomie, attenzione.
Abbiamo studiato anche il caso spagnolo, con il cammino di Santiago: lì gli investimenti pubblici nella rigenerazione urbana sono vincolati a precise scelte di pianificazione territoriale. Se un comune lungo il cammino vuole ricevere fondi per il recupero del centro storico, deve rinunciare a certi sviluppi (come centri logistici o centri commerciali), perché non coerenti con lo spirito del cammino.

In che modo questi principi si traducono nei vostri progetti di ricerca e nei territori?
Tutte queste esperienze ci hanno portato a proporre in Italia un modello di ciclabilità rigenerativa, non performativa. Non ci interessa creare piste per atleti con magliette tecniche che fanno da Venezia a Torino in tre giorni. Ci interessa chi si ferma, osserva, entra in relazione con i luoghi. E questo significa avere una visione di territorio.
Uno dei progetti più concreti è TWIN, nato per creare “capanne solidali”, ovvero ostelli gestiti da persone fragili – disoccupati, persone con disabilità o in situazioni di vulnerabilità – che possono così trovare un’opportunità di lavoro accogliendo i cicloturisti o i camminanti.
Ne abbiamo già realizzata una sul Passo della Cisa, in collaborazione con il CAI e grazie a un bando PolimiAward, e un’altra lungo la ciclovia VENTO, nel comune di Castelnuovo Bocca d’Adda, recentemente inaugurata e chiamata Casa Peroni, dal nome della piazza in cui si trova.

È un approccio che richiede tempo e pazienza. Lo insegniamo al Politecnico, lo raccontiamo in conferenze, seminari, articoli. Cerchiamo di trasmettere l’idea che chi viaggia lentamente ha un altro sguardo, e questo sguardo merita attenzione. Ricordo sempre che la parola Lentezza ne custodisce un’altra: Lente. Come a dire che rallentando, possiamo leggere nel modo corretto ambiente e territorio. Non si tratta quindi di fare progetti piegati ad accontentare i dettami che il mercato ha per il turista “medio”, ma di ripensare i servizi, i paesaggi, le relazioni, attraverso una nuova sensibilità. VENTO vuole essere un filo per ricucire la bellezza, innanzitutto: un modo appagante per parlare di mobilità sostenibile e rigenerazione dei territori.
Le parlo da mantovana: conosco bene la realtà di Viadana e dei territori lungo il Po, spesso trascurati dal turismo tradizionale. Crede che il turismo lento possa davvero rappresentare un’opportunità concreta per queste aree?
Guardi, mi fa piacere perché sono stato proprio a Viadana tre settimane fa, a fare una lezione allo IAL sul progetto VENTO e sul progetto BorghiLenti. E proprio in quei giorni c’era anche una tappa del Giro d’Italia. È incredibile come, in un attimo, tutta la riflessione che cerchiamo di portare avanti venga un po’ messa da parte da questa logica della “brandizzazione”, dove sembra che basti il passaggio di un grande evento per cambiare le sorti economiche di un luogo.
È proprio qui che si vede la differenza: noi, con VENTO e gli altri progetti, portiamo avanti un lavoro lungo, paziente, costruito nel tempo, che ha bisogno di essere compreso a fondo e che propone un nuovo abito per i paesi, non fugace, non velleitario, non temporaneo. Una proposta che portiamo non solo a chi cammina o pedala —per fortuna in aumento — ma anche e soprattutto a chi vive questi territori, a chi offre servizi, e ai decisori politici. Sono loro che possono davvero fare la differenza, perché conoscono i luoghi e le persone e sono presenti tutti i giorni.
Quello che diciamo sempre è che questi progetti non si consegnano chiavi in mano, non funzionano da soli. Funzionano solo se c’è apertura, collaborazione, visione. Ecco perché, come Politecnico, proponiamo una fase tecnico-scientifica di accompagnamento locale e cerchiamo sempre il confronto con le istituzioni locali: sono loro gli attuatori del cambiamento.

Com’è nato e cosa ha rappresentato VENTO Bici Tour nel percorso della ciclovia VENTO?
VENTO Bici Tour è stata un’esperienza unica bella e stimolante, che abbiamo portato avanti per dieci anni. Ogni anno, in primavera, partivamo in bicicletta — da Torino, da Venezia, una volta anche da Milano — e percorrevamo quella che sarebbe diventata la ciclovia VENTO. Lo facevamo quando ancora non esisteva, ma già la immaginavamo e l’avevamo tracciata. Seguivamo quel percorso, attraversando i territori, fermandoci nei paesi, incontrando chi ci vive e lavora. È stata la sperimentazione di un laboratorio di partecipazione e progettazione a pedali, unica in Italia.
Parlavamo con i sindaci, con i ristoratori, con le aziende agricole e culturali. E spesso, insieme a loro, organizzavamo momenti di festa in piazza, piccoli eventi che diventavano occasioni di riflessione, scambio e racconto. Era un modo concreto di far toccare con mano che VENTO non è solo un’infrastruttura ciclabile, ma un progetto di territorio e culturale.
Il primo anno eravamo in sei. Nel 2019 siamo arrivati a 250 persone, che pagavano per partecipare: una sorta di comunità temporanea, unita dal desiderio di immaginare un’altra idea di mobilità e di sviluppo locale. Abbiamo pedalato insieme anche a ministri, al rettore di allora e a presidenti di Regione, perché volevamo — e vogliamo — che questo progetto venga compreso fino in fondo, anche da chi prende decisioni.
VENTO Bici Tour è stato questo: un modo per far capire che le ciclabili non servono solo a pedalare, ma possono servire a ricucire i territori, costruire legami, far emergere la bellezza. È stato affascinante, ma anche molto impegnativo, sia dal punto di vista organizzativo che economico. Però rifarei tutto. Perché ha lasciato un segno. E perché ha dimostrato che ricerca e didattica si possono fare anche pedalando tra paesi e natura. Anche questo è Politecnico.
Parliamo del progetto VENTO: qual è la visione che lo guida?
VENTO è la sigla di Venezia-Torino, ma volutamente scritta tutta attaccata e in maiuscolo: non rappresenta solo due punti su una mappa, ma una linea continua, perché l’esperienza del viaggio lento si vive nel “tra” ovvero lungo il tragitto, più che alla partenza o all’arrivo.
È un progetto culturale prima ancora che infrastrutturale: una ciclovia lunga circa 700 km, in gran parte sull’argine maestro del Po, che offre al ciclista una posizione sopraelevata e panoramica. Attraversa 120 comuni, oltre 500 località, incrociando più di 40 corsi d’acqua, unendo territori ricchi di patrimonio storico, agricolo, culturale e gastronomico.
VENTO serve a ricucire territori dimenticati, connettere persone e luoghi, valorizzare tradizioni e identità locali. Anche il cibo diventa filo conduttore: durante uno dei tour, per esempio, sono state raccolte tutte le ricette delle paste ripiene da Venezia a Torino e portate al Salone del Gusto, a dimostrazione di quanto anche la storia e tradizione del cibo siano parte del patrimonio culturale.

Cosa significa VENTO dal punto di vista politico e sociale?
Dal 2010, anno in cui è stato avviato al Politecnico di Milano, VENTO ha dimostrato che una buona idea progettuale può generare risorse pubbliche, e non vale quindi solo il contrario. L’ostinazione della ricerca ha premiato VENTO che nel 2016 è stato accolto dal governo, che nel frattempo ha istituito il Sistema Nazionale delle Ciclovie Turistiche (SNCT), introducendo una nuova voce di investimento nel bilancio dello Stato.
Il progetto ha richiesto anche scelte complesse, come asfaltare alcuni tratti per garantire l’accessibilità a persone con disabilità, ad esempio ipovedenti che usano il tandem: una scelta fatta con dolore per via del consumo di suolo generato, ma con convinzione per estendere il diritto alla mobilità lenta anche alle persone più fragili.
VENTO è quindi una sfida tecnica culturale e politica: vuole affermare il diritto alla lentezza, senza demonizzare la velocità, ma riconoscendo che non si può pensare una società solo in funzione della rapidità. La lentezza è anche uno spazio di crescita umana e sociale, e va progettata e difesa. Senza essere figlia di un dio minore.
Perché avete scelto il tracciato lungo il fiume Po per la Ciclovia VENTO?
La scelta del fiume Po è nata da diverse motivazioni. Anzitutto, studiando i modelli europei, ci siamo accorti che circa il 40% delle grandi ciclabili da viaggio corre lungo i fiumi. Questo perché i fiumi offrono paesaggi aperti e gradevoli, con una presenza d’acqua che rende il viaggio più piacevole. Inoltre, i fiumi di pianura, come il Po, hanno pendenze minime, ideali per chi viaggia con bici cariche o in famiglia, come avviene per oltre il 25% del cicloturismo europeo.

Il Po, poi, è il primo fiume d’Italia, e lungo il suo corso c’erano già alcune porzioni ciclabili: un 5-7% era già ciclabile, e un altro 25% che lo era di fatto. Questo rappresentava un’ottima base di partenza. E poi, il paesaggio del Po è la storia d’Italia in movimento: lungo il percorso da Torino a Venezia si incontrano Savoia, Rinascimento, Repubbliche Marinare, agricolture, battaglie…fino a toccare Milano, con un peduncolo che la collega.
La scelta del tracciato risente tanto dello studio delle tecniche di pianificazione quanto di esperienze personali (ma non ci si può basare solo sulle seconde): avevo già pedalato lungo altre ciclabili fluviali europee — come la Drava, il Danubio, l’Inn — spesso in viaggio con le mie figlie. Questo mi ha aiutato a capire quanto il modello fosse efficace, anche per testare la qualità e l’accessibilità.
Qual è stato il ruolo del Politecnico e come si è evoluto il progetto VENTO nel tempo?
Voglio ricordare che VENTO è il frutto del lavoro di un bellissimo e coeso gruppo di ricerca del Politecnico di Milano. Una volta messa a punto l’idea e verificata la fattibilità, abbiamo applicato a un bando di Regione Lombardia sui Expo 2015 visto che VENTO era ed è un filo leggero che attraversa e può raccontare uno dei paesaggi agricoli italiani più importante. Vincemmo una borsa di studio che ci permise di completare gli studi e di avviare il progetto preliminare oltre a dar corso alle intense attività di partecipazione e comunicazione. Ma un’idea, come dicevamo prima, per essere realizzata va sostenuta. Per questo è nato VENTO Bici Tour: per spiegare direttamente sui territori, a chi deve decidere e attuare.
Dal 2016 il Ministero ha aperto bandi per la progettazione di VENTO, chiedendo al Politecnico di accompagnare i progettisti nelle successive fasi. La ciclabilità, infatti, non è una sotto infrastruttura: è una vera e propria infrastruttura, che richiede ponti, passerelle, soluzioni ingegneristiche e architettoniche complesse. Proprio per questo, al Politecnico abbiamo attivato un corso di Progettazione urbanistica delle ciclabili turistiche, perché è un tema serio, tecnico, e con un enorme potenziale trasformativo.
Il progetto VENTO può essere un modello replicabile?
Assolutamente sì. Ne sono così convinto che ho lavorato per un anno e mezzo al Ministero delle Infrastrutture come consulente scientifico proprio per aiutare a trasferire questa esperienza in altri territori. Tuttavia, serve una cosa fondamentale: coraggio. È una parola chiave anche nell’enciclica Laudato si’, e nel nostro caso significa che l’attività di ricerca non trascura l’intreccio con impegno civile e politico coltivando il dialogo e portando visioni di lungo raggio.
Per replicare un progetto come VENTO, non basta l’idea: servono finanziamenti stabili, servono squadre tecniche e dedicate dentro i ministeri e le regioni, servono nuovi organismi di gestione perché i singoli comuni, da soli, non ce la fanno. Non hanno le forze né la struttura per gestire ciclabili così lunghe e complesse.
VENTO farebbe bene all’Italia anche dal punto di vista economico e occupazionale. Lungo il Danubio, per esempio, 1 km di ciclabile mantiene circa 6 posti di lavoro e genera un indotto economico annuo che va dai 250 ai 350 mila euro. Questo perché i cicloturisti si fermano, dormono, mangiano, visitano: creano economie locali che sono tutt’altro che “micro”.

Noi, come ricercatori, ci occupiamo per mestiere dell’impossibile, non del facile. Non mi spaventa la difficoltà del progetto. Quello che mi preoccupa è che, a volte, chi decide ai vari livelli non riesce a dare attenzione a ciò che non ha un ritorno immediato in termini di profitto, ma che ha un valore sociale, culturale, ambientale. E invece questi progetti vanno curati, finanziati e sostenuti, proprio perché generano un futuro migliore. Bisogna portare pazienza.
C’è qualcosa ancora oggi del suo lavoro che la entusiasma particolarmente?
Assolutamente sì. Lo ripeto spesso anche ai miei colleghi: non c’è nulla di più bello che dedicarsi ai cittadini e ai territori. Ogni anno ho in agenda circa 150 incontri, per lo più con comitati, associazioni, persone comuni, spesso in contesti periferici o rurali. Che si tratti di ciclabilità, camminabilità o difesa del suolo, il mio lavoro di studio e ricerca mi porta continuamente a confrontarmi con le comunità locali, ad ascoltarle e a portare loro strumenti, idee e soluzioni.
Un esempio? L’anno scorso ho partecipato a un cammino organizzato da Repubblica Nomade, un’associazione che attraversa a piedi le aree rurali italiane per incontrare e ascoltare chi ci vive. Sono momenti di grande energia e scambio, spesso più ricchi – lasciatemelo dire – di alcuni convegni tra soli tecnici, sebbene necessari.
Oppure penso a quando, al Festival della Biodiversità, abbiamo messo in scena un piccolo spettacolo insieme a una cantautrice – Erica Boschiero: lei suonava, io leggevo testi che avevo scritto sul tema del suolo. L’affetto del pubblico, il fatto di vedere persone avvicinarsi a temi complessi grazie al nostro sforzo comunicativo è una ricompensa grande. È la “moneta” più preziosa.
Per questo invito sempre i colleghi a dedicare almeno il 10-20% del proprio tempo a scrivere per tutti, non solo per le riviste accademiche. La ricerca deve essere un bene civile, deve essere letta, capita e discussa da chiunque. Quando accade, capisci che il tuo lavoro non serve solo alla tua carriera e a cerchie ristrette, seppur ampie, ma a qualcosa di più grande e collettivo. E questo ripaga immensamente.
Che consiglio darebbe ai giovani che ci leggono?
Direi questo: credete nei vostri piccoli sogni. Anche se non sembrano subito profittevoli o convenienti. Spesso si ha paura di scegliere ciò che ci rende felici, perché tutto intorno ci dice che bisogna essere performanti, vincenti, veloci. Ma è un ingranaggio folle.
Serve coraggio, anche solo per rallentare e seguire ciò che ci fa alzare felici la mattina. Lo vedo nei miei studenti: tanti hanno sogni bellissimi, ma li tengono nascosti perché pensano che non siano “utili”. Io dico: fate strade, inventatevi percorsi, abbiate il coraggio di essere originali. Non lasciatevi spaventare dalle difficoltà o da chi dice che ‘tanto è tempo perso perché le cose vanno diversamente’. A costoro leggo sempre un paio di frasi di Stefano Massini che sempre mi porto in cuore: “E siccome non mi capirebbero, non devo provarci? Anche se è giusto, devo far finta che non lo sia perché non mi capirebbero? Ti rendi conto di cosa stai dicendo […]? Tutto quello che dipende da un’idea […] non va bene solo perché non è facile da dire?”. Seguendo queste parole, è nato VENTO che tutti all’inizio dicevano proprio che era una idea difficile e impossibile.
Infine: leggere, leggere, leggere. La lettura apre pensieri nuovi, costruisce dibattito, forma persone meravigliose. È un esercizio fondamentale oggi, perché ci impone il ritmo della lentezza, in un mondo che ci vuole sempre più rapidi e sfuggenti.
Cito spesso una filosofa che ammiro, Martha Nussbaum, la quale diceva che se alla fine del suo corso uno studente era in grado di criticare l’università e anche lei stessa, allora aveva fatto bene il suo lavoro. Questo è il cuore: aiutare le persone a pensare con la propria testa. E per farlo, bisogna nutrirsi di pensieri profondi, complessi, lenti.