L’antimateria come non l’avete mai vista: AEḡIS ci permette di fotografarla con una risoluzione senza precedenti

L’antimateria è una delle frontiere più affascinanti e misteriose della fisica contemporanea. La sua scoperta ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’universo, aprendo nuove strade nello studio delle particelle fondamentali. Ma molti degli aspetti dell’antimateria devono essere ancora indagati.

L’esperimento AEḡIS si concentra sulle proprietà fondamentali dell’antimateria, in particolare la sua interazione con la forza di gravità. Recentemente i ricercatori coinvolti nell’esperimento sono riusciti a fotografare l’antimateria grazie a un dispositivo con una risoluzione senza precedenti. Abbiamo chiesto a Giovanni Consolati, professore del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali coinvolto nell’esperimento, di raccontarci in cosa consistono gli esperimenti sull’antimateria e perché sono interessanti per la comunità scientifica e non solo.

Ne è nato un racconto appassionato di questo straordinario campo di ricerca, che non nasconde sfide tecnologiche e applicazioni talvolta più vicine alla fantascienza che alla realtà attuale, ma che continuano a stimolare l’immaginazione e aprono spiragli per futuri sviluppi.

Il dispositivo utilizzato da AEgIS per fotografare l’antimateria (Crediti: CERN)

Giovanni, la tua carriera accademica è intrecciata con lo studio dell’antimateria. Qual è il percorso che ti ha portato ad appassionarti a questa ricerca?

Ho iniziato laureandomi in ingegneria nucleare al Politecnico di Milano. Già allora avevo deciso di orientare la mia tesi verso la fisica e ho scelto di lavorare sui positroni, che sono particelle dell’antimateria, le cosiddette antiparticelle: un argomento che mi ha subito affascinato molto. Sono poi diventato ricercatore al Politecnico; ma nel frattempo, desiderando completare la mia formazione, mi sono iscritto a fisica all’Università degli Studi di Milano, dove ho preso la seconda laurea.

Questa doppia formazione, sia tecnica che scientifica, si è rivelata molto utile: da ingegnere riesco a cogliere anche gli aspetti pratici dei progetti, mentre la preparazione in fisica mi consente di affrontare le questioni più teoriche.

Essendomi specializzato nello studio dei positroni, sono stato contattato per entrare a far parte di un gruppo che si stava formando al CERN con l’obiettivo di studiare l’antidrogeno, un atomo composto da un antiprotone e un positrone. Così sono entrato a far parte di un gruppo di ricerca internazionale, che oggi conta circa cinquanta persone.

Abbiamo avviato un progetto molto ambizioso, e dopo oltre un decennio di lavoro stiamo finalmente cominciando a raccogliere i primi importanti risultati. È una ricerca estremamente complessa, certamente molto più articolata rispetto a quella che svolgevo in laboratorio, ma altrettanto stimolante.

Cos’è l’antimateria in parole semplici?

Se la materia è costituita da particelle (elettroni, protoni e neutroni), l’antimateria è formata da antiparticelle, ovvero i positroni, gli antiprotoni e gli antineutroni. Le antiparticelle sono identiche alle particelle che compongono la materia: hanno la stessa massa e le stesse proprietà; l’unica grande differenza è che hanno carica opposta.

La caratteristica che rende l’antimateria così interessante è che quando entra in contatto con la materia, avviene un processo di annichilazione: la massa scompare e si produce energia pura. Ciò può sembrare strano, ma non è niente di diverso dalla formula più famosa della fisica, enunciata da Einstein: l’energia è uguale alla massa per il quadrato della velocità della luce nel vuoto. La formula ci dice quindi che la massa si può trasformare in energia e viceversa: da una radiazione elettromagnetica di energia sufficientemente elevata, come un raggio gamma, si possono produrre coppie di particelle e antiparticelle.

Come mai l’antimateria è così affascinante per gli scienziati?

Il grande mistero che la fisica non è ancora riuscita a risolvere è perché nell’universo si trova principalmente materia e non antimateria. Secondo la teoria comunemente accettata,al momento della formazione dell’universo, materia e antimateria erano presenti allo stesso modo; dev’essere poi intervenuto un processo che ha rotto questa simmetria iniziale, facendo quasi scomparire l’antimateria dall’universo, se non per qualche rimasuglio. Perché l’antimateria sia decaduta ancora non sappiamo spiegarlo.

Noi però siamo riusciti a produrre l’antimateria. Ci spieghi come?

Al CERN, ad esempio, si produce antimateria grazie alla collisione di protoni ad altissima energia su un bersaglio di iridio. In questo modo si producono antiprotoni, che utilizziamo per altri esperimenti. Rimane però che nell’universo non c’è evidenza di antimateria “primitiva”.

Cosa indaga l’esperimento AEḡIS sull’antimateria?

L’esperimento AEḡIS (Antimatter Experiment: Gravity Interferometry and Spectroscopy) si svolge al CERN e coinvolge 16 istituzioni provenienti da 8 diversi Paesi. Oltre al Politecnico di Milano, all’esperimento partecipano diverse università e istituzioni italiane, tra cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l’Università di Brescia, di Trento e la Statale di Milano.

AEḡIS è nato con l’intento di misurare l’accelerazione di gravità sull’antimateria. Può sembrare uno scopo astruso, ma trovare la gravità quantistica è una grande sfida per i fisici teorici di oggi perché riuscirebbe a quantizzare il campo gravitazionale, l’unica interazione fondamentale ancora basata su una teoria classica. Il principio di equivalenza debole è infatti un principio importante, che è stato più volte verificato sulla materia, e asserisce che tutti i corpi sentono in prossimità della superficie terrestre la stessa accelerazione. Al momento è stato dimostrato che non esiste l’antigravità, ovvero una forza che faccia “salire” l’antimateria, invece di farla cadere. Ma non è stato ancora dimostrato sperimentalmente che materia e antimateria cadano con la stessa accelerazione.

Apparato sperimentale utilizzato dal team AEgIS per il raffreddamento laser del positronio
(Crediti: CERN)

Qual è la sfida più grande che state affrontando nel condurre l’esperimento?

Per fare esperimenti sull’antimateria è necessario un sistema neutro, ovvero senza particelle cariche, perché queste sarebbero influenzate da campi elettrici e magnetici (come il campo magnetico terrestre), mentre la gravità è una forza estremamente debole.  

Per questo motivo usiamo l’antidrogeno, che è l’equivalente “speculare” dell’idrogeno ma formato da antiparticelle, ovvero da un antiprotone e da un positrone. Formare l’antidrogeno è un procedimento abbastanza complicato, perché, se entrano in contatto con la materia, le antiparticelle annichilano.

Come formate l’antidrogeno nell’esperimento AEḡIS?

Ci sono diverse strade per farlo; noi ne abbiamo scelta una che sembra complicata ma che ha alcuni vantaggi.

Nell’esperimento gli antiprotoni prodotti dall’acceleratore del CERN vengono intrappolati e raffreddati in trappole elettromagnetiche. Poi facciamo interagire questa nuvola di antiprotoni con il positronio, che è una sorta di “fratello minore” dell’idrogeno in quanto è formato da un elettrone e un positrone e si può quindi considerare l’atomo più leggero esistente in natura. Da questa interazione nasce l’antidrogeno.

Come dicevo, questo procedimento è più complicato rispetto a quello tradizionale che fa incontrare una nuvola di antiprotoni con una di positroni, ma ci rende possibile costituire un fascio di atomi di antidrogeno con caratteristiche e tempistiche più controllate. Infatti, eccitiamo il positronio con fasci laser ben sincronizzati, in modo tale da conoscere con precisione l’istante di formazione dell’antidrogeno.

Il fascio di antidrogeno viene quindi fatto passare attraverso un deflettometro, lungo circa un metro, che segnala la sua traiettoria. Infine, gli atomi di antidrogeno annichilano su un rivelatore. Dalla misura del tempo di volo e della distanza percorsa possiamo ricavare la traiettoria parabolica e di conseguenza anche l’accelerazione di gravità sull’antimateria.

Si tratta di un esperimento a cui lavoriamo da oltre 10 anni e che presenta enormi sfide tecnologiche in molti dei suoi passaggi. Attualmente siamo vicini a produrre un fascio stabile di antidrogeno e speriamo di iniziare quest’anno le prime misure sull’accelerazione di gravità dell’antimateria.

Com’è stato possibile fotografare l’antimateria?

Per misurare con grande precisione il punto di caduta dell’antidrogeno, i colleghi che lavorano all’esperimento, in particolare il gruppo coordinato da Francesco Guatieri dell’Università Tecnica di Monaco, hanno avuto un’idea innovativa: utilizzare sensori simili a quelli delle fotocamere degli smartphone per rivelare le particelle. Questi sensori hanno pixel più piccoli di un micron, permettendoci una risoluzione molto alta, che è fondamentale per misure precise. E poiché un singolo sensore non è sufficiente, ne hanno assemblati 60 in un circuito elettronico, creando un rivelatore molto performante, chiamato OPHANIM (Optical Photon and Antimatter Imager). Questo sistema ha risoluzioni simili a quelle delle antiche emulsioni nucleari, ma con un grande vantaggio: i risultati sono immediati e non serve analizzare le tracce con un microscopio.

È importante sottolineare che queste ricerche, oltre ad essere affascinanti dal punto di vista della conoscenza umana, portano a risultati pratici anche in altri campi. Il dispositivo OPHANIM apre nuove prospettive non solo alla fisica delle particelle, ma anche allo studio delle radiazioni elettromagnetiche, con la possibilità futura di applicazioni importanti nell’imaging biomedico e nella spettroscopia.

L’Optical Photon and Antimatter Imager, che integra 60 sensori Sony IMX686 (Crediti: CERN)

Cosa si vede esattamente nelle fotografie dell’antimateria?

Ciò che misureremo saranno singoli eventi di annichilazione, che vengono rivelati grazie a dei dispositivi speciali chiamati scintillatori. Quando ad esempio un positrone annichila con un elettrone, non vediamo direttamente la “scia” del positrone, ma gli scintillatori rilevano i raggi gamma che vengono emessi durante il processo e che rilasciano una certa energia. Conoscendo l’energia che viene rilasciata in media, possiamo registrare questi eventi e quindi dedurre che l’annichilazione è avvenuta in un certo momento e in un certo punto del materiale.

I raggi gamma sono quindi i segnali principali nel caso dei positroni. Per quanto riguarda invece gli antiprotoni, il discorso è simile, ma un po’ più complesso: non emettono raggi gamma, bensì altre particelle più leggere, chiamate pioni, anch’esse rilevate dagli scintillatori. In entrambi i casi, si tratta di una rivelazione indiretta: non osserviamo direttamente le scie prodotte dalle particelle, ma i prodotti della loro annichilazione.

Altri risultati importanti ottenuti grazie all’esperimento?

L’anno scorso abbiamo sviluppato un sistema per il raffreddamento laser del positronio. Come detto prima, il positronio è essenziale per formare l’antidrogeno, insieme agli antiprotoni. Per migliorare la precisione delle misure, è importante che entrambe le particelle siano “fredde”, cioè con bassa energia, perché più sono lente, più possiamo studiare con precisione la loro caduta.

Il raffreddamento del positronio potrebbe avere delle applicazioni rivoluzionarie tra qualche anno (e non decennio), che riguardano la formazione di un condensato di Bose-Einstein di positronio. Questo stato particolare della materia, proposto da Einstein nel 1924, si forma quando un insieme di atomi viene raffreddato a temperature bassissime, vicine allo zero assoluto, e inizia a comportarsi in modo quantistico a livello macroscopico. Questo condensato era stato proposto da Einstein ormai 100 anni fa, nel 1924; ma è dal 1995 che è possibile creare condensati con atomi pesanti come il rubidio.

Raffreddamento del laser (Crediti: CERN)

Fare un condensato con il positronio sarebbe rivoluzionario. La sfida non è tanto quella di raggiungere temperature molto basse, ma è quella di raffreddare in fretta il positronio, che è instabile e decade rapidamente. Se riuscissimo a ottenere questo condensato, si potrebbero generare emissioni pulsate e monocromatiche e coerenti di raggi gamma, simili ai laser, con potenziali applicazioni nella scienza dei materiali, nella medicina e in molti altri campi.

Questa ricerca di base, anche se complessa e con risultati che si sviluppano nel lungo termine, è estremamente preziosa. Spesso idee nate per risolvere problemi apparentemente astrusi portano, con il tempo, a grandi innovazioni tecnologiche e applicazioni pratiche.

Nella tua attività di ricerca sull’antimateria c’è un aspetto che ti ha particolarmente appassionato?

Negli ultimi anni mi sto occupando di antidrogeno, ma all’inizio ho lavorato soprattutto con il positronio e lì ho trovato un mondo davvero affascinante. Nei miei esperimenti e nelle pubblicazioni,
ho usato il positronio come una sorta di sonda per studiare alcune proprietà dei materiali. Il positronio non si forma ovunque: ad esempio, nei metalli non riesce a formarsi, mentre nei polimeri amorfi, materiali costituiti da grandi macromolecole disposte in modo disordinato, sì.

Nei polimeri amorfi ci sono inevitabilmente dei piccoli spazi vuoti tra le molecole, i cosiddetti volumi liberi. Questi “buchi” sono piccolissimi, dell’ordine di una o poche dimensioni atomiche. E la cosa interessante è che il positronio può formarsi proprio lì.

Ora, studiare questi spazi così piccoli è estremamente difficile: non esistono tecniche in grado di studiare il volume libero direttamente. Solo l’utilizzo del positronio come “sonda” ci riesce. Le caratteristiche con cui annichila, infatti, ci rendono possibile capire la forma, le dimensioni e la distribuzione dei volumi liberi. E questo diventa molto utile, ad esempio, quando si vuole studiare come un materiale cambia nel tempo o con la temperatura. Queste informazioni sono preziose per lo studio sull’invecchiamento dei materiali, sulle loro variazioni strutturale e persino sulle proprietà meccaniche, come la resistenza agli sforzi.

Grazie all’antimateria, in questo caso i positroni, è possibile guardare “dentro” i materiali in un modo altrimenti impossibile. Ho sempre trovato affascinante questa applicazione dell’antimateria e per buona parte della mia vita professionale mi sono dedicato proprio a questo.

Film e libri di fantascienza parlano spesso di antimateria. Celebre per tutti gli appassionati è l’utilizzo dell’annichilazione dell’antimateria come combustibile dell’astronave Enterprise di Star Trek. Ma nella realtà possiamo utilizzare l’antimateria come fonte di energia?

Il grande sogno sarebbe quello di sfruttare l’energia prodotta dall’annichilazione per alimentare, ad esempio, razzi spaziali. Una simile tecnologia permetterebbe, in linea teorica, di raggiungere Marte in un tempo estremamente ridotto. Purtroppo queste applicazioni sono estremamente avveniristiche, rimanendo al momento fantascienza, più vicina all’universo di Star Trek che a quello della tecnologia attuale. Certo, mai dire mai, ma ad oggi non si intravedono progressi significativi in questo campo nei prossimi decenni.

Ci sono due ostacoli principali. Il primo riguarda l’emissione dei raggi gamma generati dall’annichilazione: attualmente, vengono emessi in direzioni casuali. Questo rende impossibile concentrare l’energia in un’unica direzione utile, ad esempio per generare una spinta. Una possibile soluzione è data dal condensato di Bose-Einstein, che potrebbe consentire emissioni coerenti e pulsate. Ma ad oggi non esiste un condensato di Bose-Einstein realizzato con l’antimateria, quindi rimaniamo ancora nel campo delle ipotesi.

Il secondo problema riguarda la capacità di concentrare una quantità sufficiente di antimateria. Al momento, nelle trappole elettromagnetiche riusciamo a immagazzinare qualche centinaio di milioni di antiprotoni. Per dare un’idea, la quantità più alta ottenuta finora è stata di circa 350 milioni di antiprotoni, che corrispondono a meno di un femtogrammo, cioè meno di 10⁻¹⁵ grammi. Una quantità spaventosamente piccola.

Si dice che per alimentare un razzo, anche se questa affermazione va presa con le dovute cautele, basterebbero alcuni milligrammi di antimateria. Ma qui passiamo da 10⁻¹⁵ a 10⁻³ grammi: ci mancano almeno 12 ordini di grandezza nella capacità di accumulo.

E anche ammesso di riuscire a produrre queste quantità, dovremmo poter conservarla: attualmente riusciamo a mantenere intrappolati gli antiprotoni per circa decine di minuti, fino a un’ora. In alcuni esperimenti si è riusciti a conservarne uno per un anno intero, ma appunto uno solo.

Detto questo, è vero che la scienza spesso avanza in modo imprevedibile: la tecnologia evolve in modo non lineare, e le rivoluzioni spesso arrivano quando meno te lo aspetti. A volte, si esplora una strada che sembra senza uscita, e poi improvvisamente si scopre una scorciatoia inaspettata che apre nuove possibilità. Questo è il bello della ricerca: non sai mai dove ti porterà.

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