Acque reflue in agricoltura: risorse o rischi? Un modello per bilanciare sostenibilità e salute

Con il cambiamento climatico che porta a una crescente scarsità d’acqua, l’uso delle acque reflue trattate per l’irrigazione sta diventando una soluzione sempre più diffusa. Questo approccio consente di risparmiare risorse idriche e ridurre l’uso di fertilizzanti, ma introduce anche nuovi rischi. Tra questi, ci sono i farmaci residui e i batteri resistenti agli antibiotici, che possono rappresentare minacce per la salute umana e per gli ecosistemi. Luca Penserini, ricercatore del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale del Politecnico di Milano ci spiega come la sua ricerca stia cercando di risolvere il dilemma: come sfruttare le acque reflue in agricoltura in modo sicuro e sostenibile, senza compromettere la salute e l’ambiente.

Cosa ti ha spinto a concentrarti su farmaci e batteri resistenti agli antibiotici nelle acque reflue trattate per l’irrigazione?

«La scelta di focalizzarsi su farmaci, in particolare antibiotici, e batteri resistenti agli antibiotici (ARBs) nasce dalla loro crescente rilevanza nell’ambito della salute pubblica e della tutela ambientale, in quanto essi rientrano in un più ampio gruppo di sostanze note come contaminanti emergenti. I contaminanti emergenti sono sostanze introdotte nell’ambiente principalmente dalle attività antropiche, la cui presenza, seppur a concentrazioni molto basse, sta attirando sempre più l’attenzione della comunità scientifica. In generale, si tratta perlopiù di sostanze di uso comune contenute in prodotti di ampio utilizzo (es. farmaci, prodotti per la cura personale, disinfettanti, pesticidi, prodotti di origine industriale, sostanze perfluorate, microplastiche, ecc.). Attualmente, le conoscenze su di essi sono in evoluzione, e  permangono incertezze sia nelle metodologie analitiche adottate per la loro misurazione sia nella loro caratterizzazione chimica e tossicologica. Le proprietà intrinseche di molti di questi composti (es. stabilità chimica, solubilità in acqua, capacità di adsorbimento su particelle di suolo, ecc.) li rendono difficili da eliminare completamente mediante i trattamenti convenzionali delle acque reflue. Inoltre, la continua immissione di questi contaminanti non proviene soltanto dagli impianti di trattamento urbani, ma anche da altre fonti, come gli scarichi industriali, ospedalieri, gli allevamenti intensivi o il dilavamento delle strade durante gli eventi di pioggia. Questi fattori, in sinergia, favoriscono l’accumulo progressivo di tali sostanze in diverse matrici ambientali (suolo, acque e colture, ecc). Farmaci e ARBs rappresentano due facce di questo fenomeno: da un lato i residui farmaceutici persistono nelle diverse matrici ambientali, dall’altro lato la persistenza di antibiotici contribuisce allo sviluppo di antibiotico resistenza nei microrganismi, che si adattano a queste pressioni. Di conseguenza il rischio di esposizione sia diretta che indiretta per l’uomo e per gli ecosistemi aumenta, sollevando la necessità di un’analisi preventiva dei rischi. L’obiettivo è riconoscere l’esistenza di questi contaminanti e comprenderne il comportamento nell’ambiente, senza allarmismii, ma evidenziando la necessità di ulteriori studi per definire con precisione il loro impatto su salute ed ecosistemi».

Il tuo approccio integrato di valutazione dei rischi combina rischi per la salute umana, l’ambiente e lo sviluppo della resistenza agli antibiotici. Quali sono le principali sfide nell’integrare questi rischi e come il modello che hai sviluppato può influenzare le politiche di gestione delle risorse idriche?

«L’idea del modello sviluppato è di affrontare la complessità del riutilizzo delle acque reflue cercando di considerare, in maniera simultanea, gli impatti su salute umana, ambiente e la crescente problematica della resistenza agli antibiotici. Una delle principali sfide consiste nel conciliare le valutazioni di questi rischi che solitamente vengono condotte separatamente, utilizzando metodologie specifiche per ciascun settore che operano su scale e approcci differenti: ad esempio, mentre il rischio per la salute umana si concentra sugli effetti derivanti dal consumo di prodotti agricoli potenzialmente contaminati, l’impatto ambientale si misura in termini di effetti sugli ecosistemi acquatici, ed il rischio di sviluppo della resistenza richiede l’analisi della pressione selettiva a livelli di contaminanti spesso molto bassi. Tuttavia, nella realtà questi effetti si manifestano simultaneamente; integrare questi rischi significa quindi armonizzare dati e metodi che presentano diverse fonti di incertezza, sia nella misurazione che nei modelli dose‐risposta, e definire indicatori comuni che permettano di individuare i punti critici lungo l’intera filiera del riuso. Il modello, sviluppato con questo approccio sistemico, permette di simulare scenari complessi in cui la qualità dell’effluente e del corpo idrico recettore, le tipologie di colture e le modalità di irrigazione interagiscono fra loro.

Dal punto di vista delle politiche di gestione delle risorse idriche, questo approccio integrato offre ai decisori un quadro esaustivo dei rischi associati, evidenziando non solo le possibili minacce per la salute umana, ma anche gli impatti ecologici e il potenziale sviluppo di resistenza antibiotica. Ciò può tradursi in regolamentazioni più mirate, investimenti strategici in tecnologie di monitoraggio e trattamento e, in generale, in una gestione più sostenibile e resiliente dell’acqua, soprattutto in un contesto di crescente scarsità e di pressioni ambientali legate al cambiamento climatico».

luca penserini

In che modo il concetto di “One Health” ha influenzato la tua ricerca? Puoi spiegare come questa visione multidisciplinare si applica ai rischi legati al riutilizzo delle acque reflue in agricoltura?

«Il concetto di “One Health”, proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, si fonda sulla consapevolezza che la salute di esseri umani, animali ed ecosistemi sia intrinsecamente interconnessa, richiedendo pertanto un approccio integrato per affrontare le sfide sanitarie e ambientali. Questo paradigma evidenzia come le minacce non possano essere valutate in compartimenti isolati, ma debbano essere analizzate alla luce delle interazioni complesse che esistono tra i vari sistemi.

Questo concetto risulta particolarmente applicabile nel contesto del riutilizzo delle acque reflue in agricoltura. Infatti, è possibile distinguere tra due tipologie di riuso: il riuso diretto, in cui l’acqua trattata viene applicata direttamente ai campi, consentendo un controllo immediato della qualità dell’effluente, ed il riuso indiretto, in cui l’effluente viene prima scaricato in corpi idrici naturali e successivamente prelevato per l’irrigazione. Quest’ultimo scenario presenta una complessità maggiore, in quanto la qualità dell’acqua di irrigazione dipende fortemente dalla qualità di fondo  del corpo idrico recettore, che potrebbe essere ulteriormente contaminato dalle altre fonti citate in precedenza. Inoltre, quello che succede nella maggioranza dei casi, è che l’acqua che viene normalmente utilizzata per l’irrigazione venga derivata dai corpi idrici superficiali, che rappresentano di fatto il punto finale di immissione degli scarichi degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, rendendolo un riuso indiretto de facto.

In questo contesto, diventa fondamentale sviluppare metodologie di valutazione del rischio quando si parla di riutilizzo delle acque reflue in agricoltura, specialmente quando si ha a che fare con il riuso indiretto, che influenza sia lo stato degli ecosistemi acquatici, sia la qualità delle colture irrigate, e, di conseguenza, la sicurezza alimentare e la salute dei consumatori. Tale integrazione fornisce ai decisori strumenti più robusti per definire regolamentazioni e interventi, in modo da garantire un riutilizzo sicuro ed efficiente, preservando l’equilibrio tra salute umana ed ecosistemi».

La tua ricerca si concentra su modelli di impatto che considerano diverse variabili, tra cui la salinizzazione del suolo e l’accumulo di contaminanti nei raccolti. Quali sono le implicazioni di questi fenomeni per la sicurezza alimentare e la sostenibilità agricola a lungo termine?

«Quando si parla di riuso delle acque reflue in agricoltura, oltre ai ben noti vantaggi in termini di quantità d’acqua risparmiata, vanno anche considerati attentamente gli impatti negativi che questa pratica può comportare. Da un lato, il riuso offre evidenti benefici: si ottiene un notevole risparmio idrico grazie all’impiego di una risorsa altrimenti destinata allo smaltimento; si riduce l’utilizzo di fertilizzanti chimici, poiché il refluo è già ricco di nutrienti essenziali; e si conseguono ulteriori benefici ambientali, come la riduzione delle emissioni di gas serra associate alla produzione e distribuzione dei fertilizzanti chimici.

Dall’altro lato, però, è fondamentale considerare gli impatti negativi legati prevalentemente alla qualità dell’acqua trattata riutilizzata: ad esempio, l’elevato contenuto salino degli effluenti, rispetto alle tradizionali acque di irrigazione, può provocare la salinizzazione del suolo, che altera la struttura fisica e la fertilità del terreno, riducendo l’assorbimento di acqua e nutrienti da parte delle piante e, di conseguenza, causando una diminuzione delle rese colturali. Allo stesso tempo, la presenza di contaminanti residui nei reflui, che possono accumularsi nei raccolti, può compromettere la sicurezza alimentare. Questi effetti combinati non solo possono incidere negativamente sulla salute umana, ma rappresentano anche una sfida economica per gli agricoltori, costretti ad affrontare perdite di produzione e a dover adottare misure correttive.

Nel nostro recente studio, abbiamo cercato di bilanciare questi aspetti trasformandoli in termini economici. Attraverso un modello tecno-economico, abbiamo quantificato sia i benefici, in particolare, risparmio idrico, risparmio sui fertilizzanti chimici e riduzione delle emissioni di gas serra, sia gli effetti negativi, in particolare la perdita di resa colturale dovuta alla salinizzazione. Questo approccio integrato ha permesso di prioritizzare, tra diversi impianti di trattamento delle acque reflue, quelli più adatti ad implementare il riuso, tenendo conto non solo della quantità di acqua risparmiata, ma anche della qualità dell’acqua e delle specifiche caratteristiche territoriali, come il clima e il tipo di colture.

Questa prospettiva sottolinea l’importanza di considerare non solo gli aspetti quantitativi, ma anche quelli qualitativi e permette di guidare la scelta verso tecniche di gestione mirate (come la selezione di colture più tolleranti al sale o l’adozione di sistemi di irrigazione più efficienti), e integrare le informazioni derivanti dai modelli di impatto per orientare decisioni politiche e pratiche agronomiche volte a minimizzare i rischi e massimizzare i benefici del riutilizzo delle acque reflue».

 Guardando al futuro, quali sviluppi o innovazioni ti aspetti nel campo della gestione delle acque reflue trattate, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici e alla scarsità idrica? Come pensi che la tua ricerca si inserisca in queste prospettive?

«Nel futuro della gestione delle acque reflue trattate, mi aspetto una spinta verso innovazioni che integrino tecnologie avanzate di trattamento con sistemi di monitoraggio in tempo reale e modelli decisionali integrati. In particolare, con l’aumento della scarsità d’acqua dovuta ai cambiamenti climatici, sarà sempre più importante non solo garantire un approvvigionamento idrico alternativo, ma anche assicurare che l’acqua riutilizzata non comprometta la salute dell’ambiente e dell’uomo. La mia ricerca si colloca proprio in questo ambito, puntando allo sviluppo di strumenti di supporto decisionale e di sistemi di prioritizzazione che possano guidare le scelte strategiche in un contesto di crescenti pressioni ambientali. I modelli sviluppati ci permettono di identificare, ad esempio, quali contaminanti monitorare con priorità, di selezionare gli impianti di trattamento delle acque reflue più economicamente vantaggiosi per l’implementazione del riuso e di definire gli interventi più efficaci per migliorare la qualità dell’acqua destinata all’irrigazione.

Guardando al futuro, mi aspetto che l’adozione di tecnologie “fit-for-purpose”, ossia tarate sulle specifiche esigenze delle condizioni locali (es. tipo di colture, aspetti territoriali, clima, ecc.), si affianchi allo sviluppo di reti di monitoraggio smart e sistemi di controllo automatizzato, per garantire che la qualità dell’acqua riutilizzata non comprometta la sicurezza alimentare e la sostenibilità agricola a lungo termine. Questi strumenti innovativi, uniti a modelli decisionali integrati come quelli proposti, offriranno ai decisori politici e agli operatori del settore strumenti preziosi per ottimizzare la gestione delle risorse idriche integrando sia i benefici che i potenziali rischi associati a questa pratica».

Il riutilizzo delle acque reflue in agricoltura può contribuire a risolvere problemi legati alla scarsità di acqua, ma porta anche con sé alcuni rischi. Secondo te, quali misure potrebbero essere adottate a livello di regolamentazione per garantire che il riutilizzo avvenga in modo sicuro ed efficiente, senza compromettere la salute pubblica o l’ambiente?

«A livello di regolamentazione, le normative europee stanno sempre più orientandosi verso un approccio preventivo basato su metodologie di valutazione del rischio. Tali approcci valutano preventivamente i rischi associati ai contaminanti, integrando indicatori di sicurezza che vanno ben oltre la semplice misurazione delle concentrazioni, e che consentono di definire soglie di intervento per proteggere la salute umana e gli ecosistemi. Attualmente, il Regolamento (UE) 2020/741 sulle prescrizioni minime per il riutilizzo di acque reflue, impone standard stringenti per il riuso diretto, garantendo che l’acqua applicata direttamente ai campi rispetti criteri di qualità elevati. In contrasto, il riuso indiretto, in cui l’effluente trattato viene scaricato in corpi idrici naturali da cui poi si preleva l’acqua per l’irrigazione, rimane in gran parte privo di regolamentazioni specifiche, seguendo i criteri meno rigorosi previsti per le acque di scarico (come quelli della UWWTD 91/271).

Questa disparità normativa ha implicazioni importanti: da un lato, i gestori dei servizi idrici e gli agricoltori possono trovare più conveniente conformarsi agli standard meno stringenti applicati alle acque scaricate nei corpi idrici, evitando l’investimento in infrastrutture dedicate al riuso diretto; dall’altro, ciò può comportare un rischio maggiore per la qualità dell’acqua di irrigazione e, conseguentemente, per la sicurezza alimentare e l’ambiente. La mancanza di un quadro regolatorio uniforme per il riuso indiretto rischia di rendere il riuso diretto economicamente poco sostenibile e difficilmente adottabile, mentre il riuso indiretto potrebbe non essere adeguatamente controllato. E’ quindi fondamentale sviluppare un quadro regolatorio uniforme capace di estendere l’approccio basato sulla valutazione del rischio anche al riuso indiretto, uniformando i criteri di monitoraggio e controllo tra le diverse tipologie di riuso, integrando indicatori di sicurezza che considerino sia la qualità dell’acqua che i potenziali impatti sui vari compartimenti ambientali».

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