Abbiamo incontrato Andrea Di Franco e Francesca Piredda, responsabili del progetto ReverseLab che si svolge all’interno del Carcere di San Vittore grazie alle attività di Off Campus San Vittore. Ci hanno raccontato come è nata l’dea di far nascere uno spazio all’interno di un carcere per sviluppare diversi progetti per creare un ponte tra il carcere e la città.
ReverseLab è un progetto che mette al centro la relazione e le diverse competenze dei suoi attori. Un invito ad andare a vedere la mostra messa in opera da detenuti e guardie carcerarie, con la collaborazione attiva dell’artista Maurice Pefura, dal titolo “Gli artisti sono quelli che fanno casino”.
ReverseLab è uno spazio per l’arte contemporanea tra carcere e città. Di cosa si tratta e com’è nata l’idea?
Andrea Di Franco. Si tratta di uno spazio dentro il carcere che interpreta l’attività trattamentale, ossia l’attività di rieducazione, di risocializzazione dei detenuti. E la interpreta attraverso il coinvolgimento nella produzione di opere d’arte.
A San Vittore ci sono già scuole e workshop di arte-terapia. Però la cosa interessante di questo progetto, un po’ rivoluzionario, è che questa produzione di arte è destinata ad aprire al pubblico stabilmente. Quindi non è un’occasione solo interna, ma deve definire una situazione che entra permanentemente nella vita culturale della città e anche oltre la città.
Penso sia un po’ rivoluzionaria perché non esiste in nessun luogo del mondo, è la prima volta che si fa una cosa di questo genere all’interno di un carcere attivo. Ci sono tante situazioni simili ma in carceri dismessi, chiusi. ci sono tante situazioni di arte-terapia che riguardano l’attività trattamentale, dove i detenuti svolgono i loro piccoli lavoretti, magari organizzano anche un evento per raccontarlo all’esterno, ma poi finiscono. Invece questo progetto dovrebbe definire permanentemente uno spazio per l’arte, per la cultura, aperto alla città.
Come è nata dunque l’idea?
Andrea Di Franco. ReverseLab nasce da un’idea del direttore del carcere. Quando abbiamo iniziato a ragionare su un progetto, si chiacchierava con il carcere per capire quale poteva essere il ruolo di Off-Campus che si era appena insediato lì nell’ottobre 2022. Allora lui ha illustrato una serie di necessità: una di queste era che avevano questo grande spazio, un magazzino pieno di detriti, pieno di roba infiammabile, di documenti sensibili che dovevano essere archiviati e conservati bene. “E quindi lì dovreste fare un progetto, la mia idea è che ci sia uno spazio museale”. Voleva fare uno spazio della memoria, dove la storia di San Vittore venisse raccontata proprio in museo.
Allora noi abbiamo reagito dicendo che avremmo fatto qualcosa di più attivo, un po’ progettuale, di trasformazione, uno spazio per l’arte contemporanea, quindi uno spazio che avrebbe potuto ospitare, d’ora in avanti, non una mostra permanente che rimanesse sempre la stessa, ma che diventasse davvero un motore, un centro di produzione culturale aperto al pubblico. Lui ha detto: “Vediamo”, e da lì è nata l’idea che poi abbiamo trasferito a Fondazione di Comunità Milano, partecipando al loro bando, il bando territoriale Bando 57, che ci ha appoggiato con un bel finanziamento.
Avete già misurato il raggiungimento degli obiettivi che vi siete dati?
Francesca Piredda. Diciamo che intanto la prima risposta la abbiamo avuta al momento in cui questo spazio si è aperto alla città, dato che era il primo obiettivo. È stata un’esperienza forte: seppur con i limiti dettati dalle condizioni e dalle regole del carcere, le persone hanno voglia di venire, di entrare e di vedere lo spazio in sé, ma anche di sentire un po’, di capire le cose che hanno da dire le persone che vivono in carcere. Sicuramente l’arte offre un’opportunità alle persone detenute, ma anche agli agenti di Polizia Penitenziaria che abbiamo coinvolto: un’occasione importante di espressione e di racconto.
La guida di un artista come Maurice Pefura, nel produrre questa opera d’arte collettiva è stata fondamentale per trovare una chiave che potesse rendere ancora più dialogante con l’esterno i contenuti che le persone hanno voluto portare dentro l’opera. Anche rispetto alla misura del ruolo che questo progetto ha all’interno del carcere, devo dire che il fatto che hanno partecipato durante il percorso oltre 40 persone detenute con tutti i limiti e i vincoli del carcere stesso, è stato molto importante.
La partecipazione al workshop era su base volontaria?
Francesca Piredda. Sì, abbiamo l’aiuto degli educatori e delle educatrici dei vari reparti che ci consigliano e ci danno una rosa di nomi di persone che possono essere invitate a partecipare. Poi ciascuno di loro decide se partecipare o meno. Chiaramente le motivazioni di partecipazione per le persone detenute sono tante, non è solo quella strettamente legata allo svolgere un’attività artistica. Essere impegnati in un qualsiasi tipo di attività consente di stare fuori dalla cella, questa è sicuramente una grandissima motivazione e direi che è uno degli obiettivi anche del progetto. L‘arte diventa così un atto di liberazione per chi è dentro e di apertura del carcere in generale nei confronti di chi è fuori.
Quindi, dopo la partecipazione interna, un’altra misura è il sold out che abbiamo avuto rispetto alle visite della mostra. Ma anche i feedback qualitativi che stiamo ricevendo dalle persone che incontriamo, sia esterne che interne, sono molto importanti, forse più importanti. Le persone detenute o gli agenti (che quasi sono stati più difficili da coinvolgere) hanno portato anche la loro voce: vediamo curiosità in loro, desiderano venire a vedere lo spazio sempre più numerosi.
Vengono non soltanto coloro che devono svolgere quell’attività di servizio, ma anche altri che passano a vedere cosa sta succedendo e che hanno voglia di essere parte in qualche modo di questo progetto. Anche i feedback degli operatori che a diverso titolo lavorano a San Vittore e che hanno voglia di essere coinvolti nelle successive fasi di questo progetto sono importanti perché questo spazio diventi uno spazio anche per loro e per le loro attività.
Quali saranno le fasi successive?
Francesca Piredda. C’è molto ancora da fare rispetto alla riqualificazione dello spazio, che è soltanto iniziata. Continuerà la collaborazione del PAC per la curatela artistica, l’individuazione di un artista di riferimento per sviluppare un altro workshop partecipativo e poi una nuova mostra dell’opera collettiva che verrà realizzata. Queste attività partecipative potranno coinvolgere altre associazioni: la sfida della ricerca è trovare le modalità per farlo, come frutto di un patto di collaborazione per coinvolgere altri operatori che fanno già attività trattamentali all’interno del carcere, in modo che possano usare ReverseLab per fare il “salto”. La nostra volontà è che ReverseLab venga riconosciuto come un bacino dove si produce arte, sempre più ampio anche a livello internazionale. Una sede dove dell’arte si può fare esperienza.
Reverse Lab è uno dei progetti di Laboratorio Carcere, di cui voi siete responsabili scientifici. Provenite uno dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani e l’altra da quello di Design: come è avvenuto l’incontro?
Andrea Di Franco. Fu ai tempi del Polisocial Award a tema “Sport come motore di inclusione sociale”. Mi ero chiesto chi potesse darmi una mano, perché il progetto doveva essere interdipartimentale. Ho pensato: quali dipartimenti? Quali persone possono avere interesse, essere sensibili su questi temi? Mi hanno suggerito di sentire Francesca Piredda, con cui abbiamo parlato e che si è subito entusiasmata, accettando di lavorare insieme.
Francesca Piredda. C’è un aneddoto: un giorno mi contatta Andrea Di Franco, che io non conoscevo, proponendomi di collaborare. Non avevo mai lavorato in carcere prima che lui mi proponesse di farlo insieme, e quindi dico sempre che non smetterò mai di ringraziarlo perché mi ha fatto entrare in un mondo tanto “spaventoso”, quanto in realtà gratificante, e che ti permette di crescere sotto tanti punti di vista. Mi occupavo già di co-design e di ricerca sul campo in contesti marginali, ma non così marginali; quindi essere guidata, soprattutto all’inizio, da lui e dal suo gruppo meraviglioso in un mondo così estremo è stata una bella prova e una bellissima occasione.
Si può dire che Polisocial Award porti spesso a incontri fruttuosi
Il format di Polisocial Award in qualche modo è molto virtuoso, perché effettivamente ha il vincolo di tenere insieme più anime, il che può portare ad una sinergia tale che, per quanto ognuno mantenga un’identità specifica, il confronto e il coinvolgimento diretto riescano davvero, come nel caso del workshop di ReverseLab. Costruito da loro, agito da noi e portato avanti da un artista terzo, sono diversi i contributi apportati dalla nostra formazione e dalle nostre diverse competenze.
Quale è stato il primo progetto sul quale avete lavorato insieme?
Francesca Piredda. La prima volta che abbiamo lavorato insieme è stato nel carcere di Bollate per un progetto Polisocial dedicato al legame tra carcere e sport. Andrea, all’inizio, mi ha proprio dovuto spiegare, perché facevo fatica a trovare la connessione tra i due temi. E poi, invece, ci siamo ritrovati a lavorare due anni a Bollate, inizialmente in lockdown. Quindi si è aggiunta anche questa difficoltà; ci siamo dovuti un po’ inventare delle modalità di interazione con l’interno che fossero in qualche modo utili sia alla ricerca che alle persone che volevamo coinvolgere.
Quell’esperienza di due anni, oltre al background che il suo gruppo già aveva in questo ambito, portò alla realizzazione di Off Campus San Vittore, un luogo dove noi ricercatori possiamo interagire permanentemente con il carcere e provare a lavorare insieme a quella comunità per un cambiamento possibile.
Andrea Di Franco. Io avevo attivato una ricerca Farb per un finanziamento per alimentare un lavoro che facevo con i laboratori didattici da un anno. Mi serviva un finanziamento per poter realizzare davvero qualcosa. Da qui l’idea della casetta rossa per gli incontri dei detenuti con i loro familiari. La abbiamo poi realizzata, era proprio nata nel laboratorio da un’idea degli studenti. E da lì sono stati fatti altri progetti.
Quali, per esempio?
Andrea Di Franco. È stato creato un altro spazio sempre nel giardino degli incontri del Carcere di Bollate, rinnovando con ferro e legno una struttura che è diventata una pergola molto bella. Un altro progetto che però non è stato realizzato è un nuovo piccolo padiglione per gli incontri, che non è riuscito a arrivare a buon fine nonostante sia stato finanziato.
Andrea, tu come hai iniziato a occuparti di carceri?
Tra i miei studenti migliori, uno ha voluto fare la tesi nel Laboratorio Carcere. Era di Padova, bravissimo, voleva fare anche l’attore oltre che l’architetto; era indeciso e quindi lavorava, oltre che nel campo dell’architettura, da studente di recitazione. Alla fine, ha deciso di fare l’attore, ma si è laureato.
In quel periodo recitava in una compagnia teatrale che lavorava in sinergia con Ristretti e Orizzonti, un’associazione che lavora dentro il carcere di Padova. In quell’occasione, in quel momento di indecisione che stava vivendo, mi ha chiesto se volessi seguire una tesi sulla riqualificazione di alcuni spazi del carcere.
Questo ragazzo ha fatto la tesi con una grandissima capacità, una passione pazzesca, a tal punto che è andato dentro al carcere a fare interviste. Abbiamo ancora un bellissimo video di queste interviste spettacolari ai detenuti. Poi ha parlato con Lucia Castellano, che al tempo era direttrice di Bollate, ed è venuta fuori questa tesi stupenda.
Quindi il merito è di uno studente! Mi ha coinvolto dal punto di vista umano, per aver raccontato le grandi potenzialità di molte persone che dopo aver fatto azioni, diciamo così, trasgressive, hanno seguito un percorso che le ha portate ad essere delle vere e proprie risorse per la società civile.
Quali sono le differenze tra le competenze che portate nei progetti? Quali i punti di incontro?
Andrea Di Franco. Io sono un architetto, quindi parlo di spazio, spazio aperto, spazio delle relazioni. Ci accomuna il concetto delle relazioni: da lei intese in maniera più immateriale e narrativa, da me usando strumenti concreti.
Francesca Piredda. Nell’ambito del design della comunicazione, noi lavoriamo da tanti anni sull’utilizzo dei principi della narrazione per supportare i processi di design e i processi collaborativi, perché associamo sostanzialmente la narrazione alla trasformazione. Ogni processo di trasformazione è anche un processo di narrazione. Viceversa, le storie raccontano sempre del cambiamento: non esiste una storia se non si parte da un conflitto, da un problema da risolvere e da una condizione che va modificata per ripristinare un equilibrio. Sinergie e conflitti devono poi portare a una risoluzione.
Quindi dove c’è narrazione c’è trasformazione; e siccome dove c’è design c’è trasformazione, abbiamo messo insieme questi mondi, per poi occuparci dei linguaggi che servono per raccontare i cambiamenti in diverse forme e su diversi media, aiutandoci anche a disseminare o a coinvolgere le persone che vogliamo coinvolgere nel sistema o nel cambiamento.
La collaborazione con altri enti del territorio, istituzioni, terzo settore, quanto è importante nel vostro lavoro?
Andrea Di Franco. Naturalmente, senza il PAC, la Fondazione di Comunità e il carcere stesso, tutto questo non sarebbe stato possibile. Cito poi l’Ufficio del Garante Nazionale, fondamentale proprio nella persona di Mauro Palma, che è diventato subito un amico dai primi momenti.
Quali altri progetti portate o avete portato avanti in Laboratorio Carcere?
Francesca Piredda. Abbiamo tantissime attività. Per esempio il Laboratorio di storytelling permanente, che ci ha consentito di mantenere viva la collaborazione e la fiducia delle persone che lavorano a San Vittore.
C’è ancora in corso Vocabolario San Vittore, un altro progetto nel quale crediamo molto, momentaneamente in pausa per l’intenso lavoro su ReverseLab. È un format che abbiamo portato a San Vittore dall’Off Campus di Nolo, dove era già stato avviato un vocabolario di quartiere come strumento di dialogo tra i vari attori e portatori di interesse della zona, in modo da su temi caldi, bisogni, esigenze che fossero condivise oppure conflittuali rispetto alla vita nel quartiere. Funziona così: si parte da alcune parole chiave e si trova il modo di raccogliere molte voci e punti di vista diversi su ciascuna di queste parole, per poi attivare momenti e occasioni di incontro e confronto.
A San Vittore abbiamo fatto lo stesso, ma con una serie di differenze che sono contestuali al luogo. Siamo ancora nella fase di restituzione della prima uscita del vocabolario, composto di quattro coppie di parole chiave che sono state individuate e discusse con le persone di San Vittore. Vogliamo restituirla sia internamente che attivare un confronto con l’esterno del carcere su questi temi.
Un altro progetto che ci piacerebbe portare avanti è Second Chance, una raccolta di indumenti e beni di prima necessità per le persone detenute a San Vittore, che ha coinvolto molte persone, tra colleghi e studenti del campus Bovisa. Ci piacerebbe poter portare questa iniziativa nei vari Campus del Politecnico, in collaborazione con Sesta Opera, che da tanti anni distribuisce indumenti e beni di prima necessità nelle varie carceri milanesi.
Quali i vostri progetti e sogni per il futuro?
Francesca Piredda. Il sogno è che Off Campus San Vittore possa continuare ad esserci. Non possiamo mai darlo per scontato, perché è stato difficile farlo nascere e ci è voluta la sinergia e la volontà di tante istituzioni diverse. Speriamo che questa volontà rimanga da parte di tutti. Essere lì permanentemente ha molta importanza. Vuol dire fare da collettore e da attivatore di energie che ci sono, per metterle maggiormente in dialogo con quelle che sono all’esterno. È inoltre un presidio come università e istituzione di ricerca indipendente sul tema dei diritti e sul racconto che di questi mondi si fa rispetto alla società.
Andrea Di Franco. Poter continuare ad attivare questo scambio è il mio sogno. Riuscire a estendere la progettualità alle istituzioni esterne e interne: coinvolgere, essere un motore di progettualità a prescindere dall’ambito in cui ci si muove, dal progetto concreto che si vuole attivare.
La cosa fondamentale è che si esca da questo ambito un po’ artigianale in cui abbiamo lavorato fino adesso e si riesca a far sorgere una progettualità che deve però essere espressa dall’amministrazione penitenziaria, da quella statale e cittadina. Perché è rispetto a queste tre istituzioni che si esprime il vero valore del nostro lavoro, anche dal punto di vista della ricerca scientifica.
Riuscire a far sì che questa nostra azione diventi un’azione di capacitazione dei veri promotori del progetto carcere. Perché noi siamo un’università: noi non modifichiamo, ma possiamo attivare, sostenere un’idea, una visione, svelare delle progettualità. Ma poi, se mancano i veri protagonisti, quando smettiamo noi finisce tutto. Questo è il vero progetto.