Progettare lo sport: una sfida multidisciplinare tra innovazione e memoria collettiva

Lo sport si intreccia con l’architettura in modi inaspettati: progettare infrastrutture sportive non significa solo realizzare spazi funzionali, ma creare luoghi che rispondano alle esigenze di sostenibilità e innovazione. Davide Allegri, ricercatore al Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito del Politecnico di Milano, ci guida attraverso le sfide e le opportunità della progettazione di infrastrutture sportive, spiegando come queste possano trasformarsi in risorse per il territorio.

Come e quando è nato il tuo interesse per la progettazione di impianti sportivi? C’è stato un progetto o un’esperienza specifica che ha segnato il tuo percorso in questo campo?

«La passione per lo Sport fa parte della mia vita da sempre: oltre a praticarlo e seguirlo, l’ho sempre considerato da un punto di vista culturale e sociale prima ancora che agonistico o fisico. Lo sport è uno straordinario strumento di comunicazione e condivisione di esperienze: penso sia un po’ come la musica o il disegno, non servono parole in quanto la sua narrazione comunica attraverso gesti e avvenimenti che appartengono alla memoria condivisa di tutti noi. L’interesse professionale e accademico è nato di conseguenza fin mia Tesi di Laurea Magistrale (progetto di uno stadio per il calcio) che sviluppai con il professor Emilio Faroldi. Da quel momento (correva l’anno 2001) l’architettura sportiva e tutto quello che ci ruota attorno è rimasto il mio focus di ricerca e di progetto».

Davide Allegri

Quali sono le fasi chiave nella progettazione di un impianto sportivo? Come si passa dall’idea alla realizzazione? Quali professionisti e competenze sono coinvolte in ogni fase del progetto?

«Dai primi anni Duemila, come gruppo di ricerca, abbiamo sostituito il concetto di “impianto sportivo” (che rimandava al solo significato di macchine puramente funzionali il più delle volte “scatole” anonime senza alcun rapporto con il contesto) con quello di “infrastruttura sportiva”, in quanto elemento capace di innervare, connettere e riqualificare – tanto fisicamente che socialmente – la città e i territori contemporanei. Oggi le infrastrutture sportive sono oggetti, tanto affascinanti quanto complessi, da progettare, costruire e soprattutto da gestire. La sempre più elevata richiesta di spazi e luoghi dove poter praticare sport a tutti livelli (e più in generale per il benessere psico-fisico e il tempo libero) ha portato alla creazione di nuove professioni con una sempre maggiore specializzazione. Inoltre, l’approccio per la progettazione di edifici, luoghi ed eventi sportivi, non può non essere totalmente multidisciplinare, coinvolgendo architetti, ingegneri, designer, sociologi, manager, esperti in economia, ingegneri gestionali, esperti in questioni legali e procedurali, ecc. ecc. A tal proposito sono convinto che la cultura e l’approccio “politecnici” possono davvero costituire, per questo settore, un ideale ambito di applicazione».

Puoi raccontarmi di qualche progetto particolarmente significativo che hai seguito? Quali sfide hai affrontato?

«Negli ultimi anni come gruppo di ricerca abbiamo affrontato progetti e sfide stimolanti. Rapidamente ricordo qui tra i tanti progetti lo studio di fattibilità per il nuovo stadio del Milan al Portello in collaborazione con ARUP e il Club, uno straordinario modello di stadio-urbano sostenibile, smart e integrato nel tessuto urbano, ancora oggi (epoca di dibattiti sul nuovo stadio a Milano) attualissimi; più recentemente, il supporto a F.I.G.C. per le candidature (poi vinte) per EURO-2019 U21 e per EURO2032 che ci vede attualmente impegnati su 3 pilastri del report: stadi, sostenibilità e mobilità sostenibile».

Come si integra la sostenibilità nei progetti? Quali elementi consideri prioritari per ridurre l’impatto ambientale? Ci sono materiali o tecnologie innovative da utilizzare per rendere gli impianti più sostenibili?

«Il tema della sostenibilità nell’architettura sportiva è piuttosto recente specie se lo consideriamo dal punto di vista normativo e scientifico. Anche in questo ambito, negli ultimi anni, si possono individuare nuovi approcci basati su tecnologie e sistemi innovativi per la gestione sostenibile di infrastrutture sportive mentre i vari enti di Governance dello Sport definiscono nuovi e sempre più stringenti parametri prestazionali (basti pensare agli ultimi report pubblicati a riguardo da F.I.G.C. e U.E.F.A.). In generale lo stadio  – così come le arene indoor e tutti gli edifici per lo sport diffusi capillarmente sul nostro territorio) – per loro conformazione possono costituire ambiti privilegiati di sperimentazione tecnologica per la produzione di energie da fonti rinnovabili (si pensi alle grandi superficie piane di coperture e facciate) o di materiali modularmente applicabili e dal ridotto impatto ambientale. In ambito europeo è ormai consolidata la prassi di certificare gli edifici per lo sport secondo rigorosi parametri riconosciuti e condivisi, in Italia questo non è ancora recepito come standard diffuso: un altro ambito dove c’è spazio per fare».

Secondo te, qual è il ruolo degli impianti sportivi nel promuovere la sostenibilità a livello di comunità?

«È senza dubbio uno dei temi cardine per il futuro tanto nell’ambito del progetto quanto in quello dell’organizzazione e gestione degli eventi sportivi a tutti i livelli. Basti pensare, alla scala-macro, che per le Olimpiadi (invernali-estive) e le grandi competizioni calcistiche, il tema principale quando ci si candida ad ospitare tali eventi è quello della “Legacy”: l’eredità – fisica, economica, infrastrutturale ma anche sociale, culturale e identitaria – che essi possono lasciare sul territorio nel post-evento. Troppe volte in passato si è sottovalutato questo aspetto; oggi c’è un totale ribaltamento di prospettiva, si pensa prima al post che all’evento in sé. E lo sport in questa ottica può fare davvero molto: i luoghi sportivi sono vere e proprie icone identitarie, riconosciute dalle comunità come riferimenti e simboli e ogni azione legata alla sostenibilità ha un riverbero mediatico unico».

In che modo il Politecnico di Milano ha influenzato la tua formazione e il tuo approccio alla progettazione degli impianti sportivi?

«L’approccio culturale del Politecnico di Milano è per sua stessa natura multidisciplinare, pragmatico o, per dirla con un termine che va di moda, “problem-solving” e, non ultimo, sempre votato alla innovazione tecnologica. Non sono slogan: è davvero così ed ho potuto apprezzarlo anche nella mia personale esperienza di progettista e ricercatore nell’ambito del quale stiamo parlando. Una formazione, la mia, tutta interna al Polimi – Tesi di Laurea, Ph.D., Specializzazione in Beni Culturali e del Paesaggio, Ricerca, ecc. – che mi ha consentito di affrontare un tema meraviglioso e affascinante (ma anche molto complesso) come quello delle infrastrutture sportive, da diversi punti di vista e da differenti scale di intervento: da quella urbana all’edificio fino al dettaglio tecnologico».

Come vedi il futuro della progettazione degli impianti sportivi in termini di tecnologia e sostenibilità?

«Il settore dello sport, del benessere e del tempo libero è in straordinaria espansione da tutti i punti di vista e questo significa che ci sarà sempre più spazio per chi vuole lavorare in questi ambiti, interessanti quanto belli e stimolanti. D’altro canto, la tecnologia che invade sempre più la nostra vita in ogni settore anche nello sport è un fattore predominante (basti pensare alla realtà virtuale, ai social, ai big data, alle tecnologie smart, alle esperienze virtuali, all’A.I., al metaverso, ecc. ecc.). Non a caso l’inaugurazione di questo Anno Accademico del Politecnico di Milano ha avuto proprio come tema centrale “Sport e Tecnologia”».

Come si insegna invece a progettare lo sport al Politecnico di Milano?

«Come gruppo di ricerca qui al Politecnico di Milano siamo stati i primi in Italia (e tra i primi al mondo) a studiare lo Sport da un punto di vista scientifico (ricordo il convegno “Gli Stadi per il Calcio. Progettazione Costruzione Gestione” organizzato al CNR dal prof. Emilio Faroldi nell’ormai lontano 2001), pubblicando libri, sviluppando ricerche a diretto contatto con gli enti di governo dello sport a tutti i livelli e molte altre attività. In parallelo, dal 2017, abbiamo istituito un Master Internazionale in Sport Design and Management (che ho il piacere di coordinare) che riunisce le due anime del Polimi (architettura, ingegneria) e del Management (con la Graduate School of Management, ex-MIP) mettendo al centro lo SPORT in tutte le sue declinazioni. Il master ha scalato i ranking internazionali (siamo 6th nel mondo per programmi sullo sport) e il suo approccio è totalmente multi-disciplinare, ospitando ogni anno più di 150 relatori da tutto il mondo. È un contenitore unico nel panorama nazionale e internazionale e, con orgoglio, posso dire che nasce dentro al Politecnico di Milano permeandone la cultura e la formazione di eccellenza che tutto il mondo ci riconosce.

Chiudo (ringraziando per questa opportunità di parlare di Sport alla comunità politecnica) con un piccolo aneddoto personale. Lo scorso gennaio siamo stati invitati – come Master in Sport Design and Management – a Melbourne, durante gli Australian Open di Tennis, per uno scambio di network con il sistema “Sport Australia” (solo per dire, Brisbane ospiterà le Olimpiadi del 2032 e Melbourne è la Sport-City più importante a livello globale). Ho avuto la fortuna di assistere alla finale nella quale Jannik Sinner ha ottenuto la sua prima storica vittoria in un Grande Slam ma, soprattutto, Jannik mi ha autografato la borsa “Made in Polimi” che avevo con me: come a dire…il Polimi, anche grazie allo Sport, arriva fino in Australia e lascia il segno in un evento che è già passato alla storia!».

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